Libri


Massimo Piattelli Palmarini
Le scienze cognitive classiche:
un panorama. Einaudi, Torino 2008, pagine 531,  23,50

Che cosa sono le scienze cognitive e quale contributo stanno dando alla comprensione del cervello e della mente degli uomini e degli animali? Le scienze cognitive sono lo studio scientifico multidisciplinare della cognizione e del ruolo che questa svolge nell’agire intelligente. La nascita della nuova disciplina, alla fine degli anni ’50 del Novecento, viene attribuita al problema fondamentale nello studio del comportamento, quello del vocabolario teorico da usare nell’analisi del comportamento e delle capacità cognitive.
Nella prima metà del ’900 imperava il comportamentismo, il quale proponeva l’esclusione di ogni riferimento alla mente, ritenuta una “scatola nera”, nella quale non vale la pena di mettere il naso; e focalizzandosi invece sul comportamento manifesto e osservabile.
Non tutti gli autori accettano il comportamentismo e ritengono che le sue basi teoriche siano sbagliate. Secondo questi autori, la mente esiste e il primo scopo della ricerca neuroscientifica deve essere proprio quello di sviscerare il complesso dei suoi elementi. Si tratta di una linea di pensiero che propugna la necessità di considerare la mente come entità da studiare in maniera autonoma.
La tesi centrale è ritenere che esista un’architettura della mente basata su sistemi cognitivi distinti, ciascuno dei quali svolge un compito, come, ad esempio, la comprensione e produzione del linguaggio, la codifica di informazioni nella memoria, la soluzione di problemi e la presa di decisione. Negli anni ’80, neuroscienziati e scienziati cognitivi cominciano a collaborare attivamente. A questa nuova impresa è stato dato il nome di neuroscienza cognitiva. Nel 1982, Poster, Pea e Volpe pubblicano un importante lavoro che si concentra su una serie di tecniche mediante le quali era possibile collegare i processi neuronali alle operazioni mentali. Successivamente, Poster, Raichle e Petersen all’Università di Washington collaborano nell’utilizzo della tomografia a emissione di positroni per “visualizzare i processi cerebrali durante l’esecuzione di attività cognitive”. Gli studi realizzati con questa metodica mostravano varie operazioni coinvolte in una famiglia di compiti lessicali e identificavano le regioni cerebrali specificatamente attive per operazioni particolari.
Uno degli artefici di una più intensa collaborazione tra neuroscienza e scienza cognitiva è stato M. Gazzaniga, i cui primi lavori vertono sulle “sindromi da disconnessione interemisferica”, vale a dire costellazioni di sintomi causate da alterazioni selettive delle commessure telencefaliche. Egli, sotto la guida di Sperry, scopre deficit cognitivi causati dalla disconnessione interemisferica, somministrando stimoli ai recettori sensoriali che trasmettono informazioni a un solo emisfero e richiedendo risposte che venivano date dai sistemi motori controllati dall’altro emisfero. Le informazioni relative agli stimoli presentati alla sinistra del punto di fissazione raggiungevano esclusivamente l’emisfero destro; e quei pazienti “con cervello diviso” ( split-brain), in cui la produzione linguistica era lateralizzata nell’emisfero sinistro, erano incapaci di denominarli.
Un’area di indagine fiorente è la neuroscienza cognitiva, al fine di identificare, con i metodi funzionali delle neuroscienze, le aree cerebrali coinvolte nello svolgimento di compiti cognitivi. Prima gli studi sui deficit e sulle patologie, poi l’elettrofisiologia del singolo neurone, quindi i potenziali correlati a eventi negli elettroencefalogrammi. L’area è oggi fiorente grazie all’avvento dei meravigliosi metodi di neuroimmagine che forniscono informazioni dirette su cervelli umani intatti.
L’attuale espansione della ricerca verso il cervello rappresenta un passo ulteriore nell’ininterrotta esplorazione di “identificare i meccanismi soggiacenti responsabili del comportamento intelligente” (Clark). L’idea di molti neuroscienziati è che il motore del processo coevolutivo tra le vecchie teorie del cervello e le nuove teorie sia la riduzione della scienza del comportamento umano alle neuroscienze, senza con questo escludere la possibilità di realizzare ricerche tra differenti discipline scientifiche a vari livelli di analisi della scienza sul cervello e la mente.
In questo quadro concettuale, la ricerca ha il compito di individuare quali caratteristiche debba avere una teoria della “cognizione”. Sono state proposte risposte anche suggestive alla questione. Importanti le argomentazioni svolte da Fodor, le quali possono essere concentrate in un solo nucleo concettuale, quello dell’ipotesi del “linguaggio del pensiero”. Essere un soggetto – afferma Fodor – significa “possedere un sistema di simboli dentro-la-mente (la mente-cervello), dotati di una struttura sintattica e sottoposti a un’elaborazione sensibile a tale struttura”. La cognizione, dalla più semplice percezione di uno stimolo fisico al più complesso giudizio, consiste nella “manipolazione di questi simboli dentro-la-testa”.
Questi simboli vengono designati da Fodor con il termine rappresentazioni. Quello di rappresentazione è probabilmente il concetto cardine di ogni teoria della mente e anche il punctum dolens della difficoltà di ridurre quest’ultima a un prodotto dell’attività del cervello. Ogni singola rappresentazione, al pari di ogni singolo stato d’animo, incarna – chiarisce Boncinelli – uno stato della mente. Allo stato degli studi, possiamo ipotizzare che gli eventi mentali siano “identici” agli eventi neurali, nel senso che a ogni possibile stato mentale “corrisponde un possibile stato neurale”. In base a questa idea, è possibile dunque “ridurre” ogni spiegazione di natura mentale in termini di proprietà biologiche di certe regioni del cervello. Il problema fondamentale è allora quello di comprendere il rapporto esistente fra nervoso e mentale, fra neurostati e psicostati, essendoci un’influenza del nervoso sul mentale e del mentale sul nervoso.
Finora, la ricerca ha dimostrato strabilianti livelli di specificità nella risposta da parte di singoli neuroni, i quali sono deputati a funzioni più astratte che non la semplice attivazione dei muscoli. Vi sono neuroni che rispondono solamente quando è presente nel campo visivo una mano; altri solo quando è presente un volto visto di profilo; altri neuroni poi rispondono soltanto quando l’animale progetta di eseguire un’azione di prensione, sia essa eseguita con la mano destra, con la sinistra, o persino con la bocca. Sono stati scoperti neuroni che rispondono sia quando la scimmia esegue un’azione sia quando essa stando ferma osserva la stessa azione eseguita da un’altra scimmia, o dallo sperimentatore. Per questo motivo, essi sono stati definiti “neuroni specchio” ( mirror neurons); e a essi è stato attribuito un ruolo essenziale nella rappresentazione del significato astratto dell’azione e nel riconoscimento e nell’imitazione delle azioni eseguite dagli altri individui (Rizzolatti, et al.). Negli ultimi anni è stata dimostrata, mediante metodiche di neuroimaging, l’esistenza di un sistema analogo a quello della scimmia anche nel cervello umano. Studi di neuroscienze hanno definitivamente mostrato che un singolo neurone è capace di compiere un’operazione molto astratta e molto complessa.
In realtà, la vera rivoluzione che ha consentito l’affermazione delle neuroscienze è in gran parte legata all’avvento delle metodiche di neuroimmagine (PET, fMRI), le quali consentono di “visualizzare” in vivo l’attività cerebrale durante l’esecuzione di compiti cognitivi, sensoriali e motori. Numerosi esperimenti in proposito hanno indagato le relazioni esistenti tre lobo frontale e funzioni mentali superiori, come ragionamento, presa di decisione, pianificazione e soluzione di problemi, comportamento morale e così via.

Guido Brunetti
Collaboratore del Dipartimento
di Scienze Psichiatriche
Sapienza Università di Roma


Marc D. Hauser
Menti morali
Il Saggiatore, Milano 2008, pagine 505,  24

Da millenni, l’interrogazione sulla morale, ovvero sulla natura del bene e del male, rappresenta una questione cruciale del pensiero umano. Fino a tempi molto recenti, l’idea che la nostra specie avesse un senso morale innato, cioè la capacità di discriminare tra giusto e sbagliato, si fondava più sull’analisi del comportamento umano che su fatti dimostrati a livello neuroscientifico.
Oggi, una vera e propria esplosione di prove scientifiche mostra che la mente umana è dotata di una facoltà morale innata, costituitasi attraverso l’evoluzione. Si tratta – dichiara Hauser – di un organo della mente che determina una “grammatica morale universale”, in grado di valutare le cause e le conseguenze delle azioni morali nostre e altrui.
L’obiettivo delle neuroscienze è quello di determinare le aree del cervello che sembrano direttamente coinvolte nei giudizi morali. Uno studio di imaging ha rivelato significative attivazioni in aree che sono coinvolte nel processo emotivo, un circuito del cervello che corre dai lobi frontali al sistema limbico (Greene). Diverse altre ricerche di imaging evidenziano poi che quando le persone si confrontano con certi tipi di dilemmi morali attivano una vasta rete di regioni cerebrali, incluse aree coinvolte nel processo decisionale, nel conflitto, nelle relazioni sociali e nella memoria.
Quando valutiamo se un’azione è equa o se causa un danno, spesso simuliamo nel nostro cervello la sensazione di provare ciò che provano gli altri. La capacità del nostro cervello di creare un ponte tra il sé e l’altro, di comprendere i pensieri, i sentimenti e le intenzioni degli altri è dovuta al sistema dei “neuroni specchio” scoperto da un gruppo di neurofisiologi guidato da Giacomo Rizzolatti. I neuroni specchio sono stati localizzati inizialmente, circa una ventina di anni fa, nella corteccia premotoria delle scimmie, e in seguito, grazie all’impiego di tecniche di neuroimaging, si è descritto un sistema specchio anche nell’uomo.
Si ritiene che un cattivo funzionamento dei neuroni specchio provochi un grave deficit come l’autismo, in cui l’incapacità di assumere il punto di vista dell’altro produce conseguenze devastanti per la comprensione della sfera morale.
Gli esperimenti condotti dal neuroscienziato Antonio Damasio hanno dimostrato poi che la nostra decisione di compiere un’azione e non un’altra si basa sulla “coordinazione tra i processi della corteccia prefrontale e un insieme di stati corporei interni”, tra cui i cambiamenti del battito cardiaco, il respiro, la temperatura, il tono muscolare, e in special modo i nostri sentimenti. Qualcosa del nostro DNA – sostiene Hauser – ci permette di acquisire principi morali sull’aiutare (fare del bene) e sul danneggiare (fare del male). Questi principi sono dunque “fissati geneticamente nel cervello” e sono “inalterabili” dalla cultura e dall’ambiente, la cui influenza perde la sua centralità, ma non scompare.
Molti dei nostri attributi buoni e cattivi, per T. H. Huxley, sono doni dell’evoluzione della specie, la quale presenta una “competizione riproduttiva” tra individui all’interno di un gruppo che include da un lato “genitori legati e affettuosi” e dall’altro “genitori egoisti e sleali”. Il problema è comprendere il modo in cui i comportamenti contribuiscono alla sopravvivenza e alla riproduzione della specie umana. Secondo autorevoli neuroscienziati, come Hamilton e Trivers, ciò che sembra essere genuinamente buono, altruistico ed empatico, nasconde in realtà un’operazione segreta dei “geni egoisti”. Ci comportiamo bene con i consanguinei perché la nostra posterità viva in loro. Agiamo positivamente se abbiamo in risposta una garanzia di “reciprocità” di comportamento. La reciprocità non è un atto di benevolenza, ma un atteggiamento interessato, in quanto mossa dall’aspettativa di un ritorno equo: cibo per cibo, accadimento per accadimento
Nella concezione genetica, pensare all’evoluzione del comportamento morale significa pensare sotto il dominio dei “geni egoisti”, pensare egoisticamente. Invece di domandare “come ti posso aiutare?”, ci si chiede “come può aiutarmi il mio aiutarti?”. Noi – dichiara R. Dawkins nel suo libro “Gene egoista” – siamo “macchine da sopravvivenza, ciecamente programmati per preservare i geni egoisti”. Noi però, unici sulla terra, possiamo ribellarci alla tirannia dei geni egoisti attraverso l’empatia, l’altruismo, una facoltà della mente umana che si è evoluta al servizio del bene del gruppo. La selezione favorisce il buon comportamento perché beneficia il gruppo. In realtà – precisa Dawkins – gli individui hanno comportamenti positivi o lanciano segnali di allarme “non per proteggere il proprio gruppo, ma per proteggere i propri geni”. La regola del biologo Hamilton è: “agisci verso gli altri in funzione del grado in cui condividono i tuoi geni”. Il desiderio tormentoso di essere buoni nasconde così la tentazione di essere egoisti. Gli animali – come rilevano gli esperimenti effettuati in materia – sono buoni con gli altri quando i loro geni ne traggono un beneficio diretto. È questo principio a fondare in sostanza anche il legame tra genitori e figli. Secondo la logica dell’evoluzione e della selezione naturale, il principio suona così: prenditi cura della tua prole negli anni di abbondanza, ma abbandona i più piccoli negli anni di magra. Dallo sviluppo fetale fino allo svezzamento e oltre, i figli a loro volta svolgono un ruolo attivo nel requisire risorse ai genitori. Il sistema genetico poi include dispositivi fisici che permettono la competizione tra fratelli, ancor prima che vedano la luce.
Sta di fatto che alla base del cervello umano esiste “una grammatica morale universale”, che permette a ogni persona di sviluppare una gamma di sistemi morali codificati nel DNA. Così, nella letteratura scientifica ha fatto la sua comparsa un nuovo termine: neuroetica, una componente dei principali temi di neuroscienza. È la nuova scienza dei comportamenti morali, è solo ai primi stadi di crescita, ma sta producendo a ritmo crescente nuove eccitanti scoperte con un orizzonte ricco di prospettive. L’indagine sulla nostra natura non sarà più un feudo delle scienze umane e sociali, ma sarà un percorso condiviso con le neuroscienze.
Il nostro cervello – afferma Gazzaniga – costruisce non solo sistemi etici, ma sviluppa anche credenze religiose, le quali – aggiunge Edelman – sono “il movente del pensiero”, “un nuovo punto di partenza per altri pensieri” (Peirce). Credenze, moralità, sistemi etici, religione, spirito, Dio hanno tutti origine da “reazioni istintive comuni a tutti gli esseri umani”, sono compatibili “con le innate capacita cognitive e sono “stabilmente impiantate nella mente” (Gazzaniga).
Esperimenti condotti su pazienti con il cervello diviso (split brain) mostrano come sia l’emisfero sinistro a produrre credenze religiose o storie. Esistono prove che fanno luce sui correlati neurali della religiosità, la quale ha una “base organica, innata, all’interno del funzionamento del cervello”. Da un’analisi della letteratura è emerso un nuovo campo di ricerca definito “neuroteologia”. Interessanti esperimenti di imaging cerebrale hanno rivelato l’importanza di aree del cervello che sarebbero coinvolte nell’esperienza religiosa e nella credenza come l’attivazione dei lobi frontali durante esperimenti di recita di brani religiosi, la meditazione di monaci buddisti e le preghiere di suore francescane (Newberg). Recenti studi inoltre hanno dimostrato l’attivazione dei lobi temporali del cervello durante la percezione di una intensa esperienza religiosa (Ramachandran) e quando “si sente la parola Dio” (Bentall).
I nostri istinti morali e religiosi, dunque, non sono guidati dalla ragione o dai sentimenti, ma derivano da comuni meccanismi innati, inconsci e universali, i quali si attivano in ogni soggetto della nostra specie, indifferentemente da età, cultura e sesso.


Guido Brunetti

Collaboratore del Dipartimento
di Scienze Psichiatriche
Sapienza Università di Roma