Psicofisiopatologia del suicidio in carcere:
un contributo in termini di prevenzione

Psychophysiology of suicide in prison: a contribution in terms of prevention

NINO ANSELMI, DANIELA ALLIANI, FRANCESCA GHINI
E-mail: nanselmi@libero.it
Dipartimento di Neurologia e Psichiatria, Policlinico Umberto I, Sapienza Università di Roma

RIASSUNTO. Il suicidio in ambiente detentivo è un fenomeno che interessa sia detenuti che operatori e, tra questi, soprattutto quelli della polizia penitenziaria. Attualmente, in termini di prevenzione, l’interesse si sta spostando da un’eziologia essenzialmente endogena a una esogena, in quanto sta emergendo una criticità del sistema che ha origine nella mancanza di conoscenza del “soggetto detenuto”. Questo lavoro tralascia statistiche e modelli di rilevamento per guardare a tutti quei comportamenti che fanno parte dell’ambito suicidario, anche se l’atto suicidario non è autentico. Questo modo di vedere permette di individuare le aree di rischio e non si limita a guardare “all’evento morte”. Il suicidio è un fenomeno strettamente soggettivo e ogni tentativo di definizione risulterà insoddisfacente e riduttivo. L’unica certezza che si può cogliere nell’analisi del suicidio è la necessità di approfondimento sia del comportamento che lo precede, sia dei fattori endogeni ed esogeni. Per comprendere meglio il fenomeno suicidario in carcere è necessario prendere coscienza dell’azione che un’istituzione totalizzante ha sull’individuo.

PAROLE CHIAVE: suicidio, parasuicidio, suicidio per male affidamento, sradicamento, decontestualizzazione, alterazione senso-percettiva, libertà.


SUMMARY. Suicide in detention environment is a phenomenon that affects both prisoners and operators, especially prison service. Currently, in terms of suicide prevention, the interest is shifting from an etiology essentially endogenous to exogenous factors, seeing as the criticality of system has its origin in the lack of knowledge of the “detained person”. This work neglects statistics and detection models to look at all those behaviors that are part of suicide, although the suicidal act is not genuine. This view allows to identify areas of risk and it is not just for have a look over “the death event”. Aware that no definition is enough to shed light on this phenomenon where subjectivity is elusive, we must always bear in mind the behaviors that precede it and exogenous and endogenous factors. To better understand the phenomenon of suicide in prison it is necessary to be aware of the action that a “totalizing institution” has on the individual.

KEY WORDS: Suicide, parasuicidal behavior, suicide for bad custody, uprooting, decontextualization, sensory-perceptual alterations, freedom.

INTRODUZIONE
Il termine “suicidarsi” viene dal latino sui e caedes, cioè “uccisione di se stesso”. Il darsi la morte ha caratterizzato tutte le civiltà ed epoche storiche. La ricerca sul suicidio è iniziata in Italia tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento a opera dello psichiatra e antropologo Enrico Morselli1. Shneidman nel 1964 introduce il termine “suicidologia”2-4 per indicare la disciplina dedicata allo studio scientifico del suicidio e della sua prevenzione. Camus nel suo saggio “Il mito di Sisifo”5 definì il suicidio «la vera questione filosofica dell’uomo». In effetti, non si può dare una definizione compiuta di un fenomeno così complesso per implicazioni diverse e contrastanti, senza pregiudicarne il senso e le finalità. Nessuna definizione riesce a soddisfare e fare luce su questo fenomeno in cui la soggettività è sfuggente e chi ne resta fuori, davanti alla sovranità della morte, è portato naturalmente a un rispettoso silenzio. Tralasciando in questa sede quelle che sono le note storiche sul suicidio 6-11, ciò che si può cogliere con certezza in questo fenomeno è che non basta guardare all’evento morte, ma è necessario analizzare il comportamento suicidario e i comportamenti che lo precedono nei quali interagiscono fattori endogeni ed esogeni. Obiettivo del nostro lavoro è analizzare il fenomeno suicidario in un ambito particolare come quello del carcere.
Con questo lavoro si è voluto riflettere sugli effetti che il carcere produce sull’individuo12,13, dal disagio esistenziale a quello stato di “morte emotiva”, fino alla volontà di morte. Ci siamo avvalsi non solo della nostra esperienza come operatori nell’ambito penitenziario (Casa Circondariale Rebibbia Nuovo Complesso di Roma), ma anche dell’analisi della letteratura sull’argomento uscita in Italia negli ultimi tre anni14,15.
Questo lavoro si è focalizzato sulla fenomenica suicidaria, evidenziando come un ambiente altamente deprivante tenda ad assottigliare l’essere, annientando così definitivamente il già compromesso nucleo esistenziale. La condizione detentiva produce un’erosione profonda dell’essere tale da innescare una deriva esistenziale che espone il recluso al rischio suicidario. La detenzione con i suoi disagi, in primis il sovraffollamento e la mancanza di progettualità, costituisce il principale fattore di precipitazione verso il suicidio. Per la prevenzione del suicidio è necessario mettere a punto un piano che contenga misure volte a migliorare le condizioni di vita dei detenuti soprattutto in termini di umanizzazione, oltre che di formazione professionale ad hoc degli operatori penitenziari19,20.
Le statistiche sui suicidi nelle carceri europee sono elaborate annualmente dal Consiglio d’Europa (Annual Penal Statistics - Space I) e gli ultimi dati disponibili sono quelli relativi al 2007 (Tabella 1). Prendendo in considerazione anche i due anni precedenti (2005 e 2006) risulta una media annua di 9,4 suicidi ogni 10.000 detenuti, tra i presenti in tutte le carceri del continente. Confrontando invece i tassi di suicidio nelle popolazioni detenute dei singoli Paesi, il valore mediano risulta di 7,4 suicidi l’anno ogni 10.000 persone. Negli Stati Uniti, fino a 30 anni fa, il tasso di suicidio tra i detenuti era simile a quello che si registra oggi in Europa. La svolta avvenne nel 1988, quando il Governo istituì un ufficio ad hoc per la prevenzione dei suicidi in carcere, con uno staff di 500 persone incaricate della formazione del personale penitenziario: in 25 anni i suicidi si sono ridotti del 70%, rimanendo poi su livelli pari a circa 1/3 di quelli italiani ed europei. In Italia, nel triennio 2005-2007, il tasso di suicidio è stato pari a 10 casi ogni 10.000 detenuti; nel 2009 è salito a 11,2 e attualmente si mantiene sullo stesso livello.




Confronto tra suicidi in carcere e suicidi
nella popolazione libera in alcuni Paesi europei
Nella Tabella 2 viene riportato il confronto statistico realizzato dall’Istituto Nazionale francese di Studi Demografici (INED), con la ricerca “Suicide en prison: la France comparée à ses voisins européens”, pubblicata a dicembre 2009. In generale, nelle carceri d’Europa, avvengono in media più suicidi rispetto a quelli che si registrano nelle carceri italiane. Tuttavia, per un confronto efficace tra i dati dei vari Paesi è necessario prendere in considerazione anche la frequenza dei suicidi nella popolazione libera, perché ogni sistema carcerario va contestualizzato nella comunità di riferimento. L’Italia, tra i Paesi considerati, è quello in cui è maggiore lo scarto tra i suicidi nella popolazione libera e quelli che avvengono nella popolazione detenuta, con un rapporto da 1,2 a 9,9 (quindi in carcere i suicidi sono circa 9 volte più frequenti), indicatore del tasso d’invivibilità del nostro sistema penitenziario. Il fenomeno sembrerebbe principalmente imputabile al sovraffollamento delle carceri italiane. Indicativamente, in Gran Bretagna sono 5 volte più frequenti, in Francia 3 volte più frequenti, in Germania e in Belgio 2 volte più frequenti e in Finlandia, addirittura, il tasso di suicidio è lo stesso dentro e fuori dalle carceri.
Il suicidio è la causa di morte più comune nelle carceri. Il totale tra il 2000 e il novembre 2014 è di 839 suicidi (Tabella 3).
In Italia, il tasso dei suicidi nella popolazione carceraria supera di gran lunga quello della popolazione generale21. In questi ultimi anni sia l’International Association for Suicide Prevention, sia l’Amministrazione Penitenziaria hanno spostato l’attenzione da un’eziologia essenzialmente endogena a una dimensione esogena del suicidio. Nel comportamento suicidario, le modalità con cui il soggetto percepisce e metabolizza l’ambiente esterno hanno una loro rilevanza autonoma22,23. Come tutti sappiamo, il suicidio in ambito carcerario ha un’incidenza alta non solo per quanto riguarda i detenuti, ma anche gli operatori, in primis gli agenti di polizia penitenziaria. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) distingue il suicidio dal tentativo di suicidio e parasuicidio. Il suicidio è un atto a esito fatale che il soggetto, con la coscienza e l’aspettativa di questo esito fatale, ha pianificato e portato a termine. Il tentato suicidio è un atto a esito non fatale, ma consciamente tendente all’autodistruzione, deliberatamente iniziato e condotto a compimento dal soggetto. Il parasuicidio è un atto a esito non fatale, iniziato e condotto a compimento nell’aspettativa di un qualunque esito in grado di realizzare il desiderio autolesivo. In ambito penitenziario, nell’ambito del parasuicidio, dobbiamo distinguere “il suicidio per mal affidamento”, ossia un suicidio simulato che finisce tragicamente in quanto chi, per accordi presi, dovrebbe intervenire, o non fa in tempo per ragioni indipendenti dalla propria volontà, oppure volontariamente non interviene per ragioni recondite, complesse, che soltanto dinamiche detentive personali o del gruppo di appartenenza possono spiegare. Nella ricerca è stata posta l’attenzione su come l’ambiente detentivo produca questo drammatico atto autolesionistico 24, cercando di identificare i vissuti soggettivi dall’ingresso in carcere allo svolgimento della pena. Il suicidio in carcere, dunque, può essere distinto in due tempi: il suicidio immediatamente successivo all’ingresso, dove entrano in gioco fattori soggettivi, impatto con il carcere, tipo di reato; e il suicidio che può scaturire dopo anni di detenzione, dove entrano in gioco gli effetti della reclusione e fattori scatenanti (giustizia ritardata, sopraggiungere di pene, rapporti con la popolazione carceraria, rapporti con gli agenti, la famiglia, patologie psichiatriche) 25,26. In entrambi i casi di suicidio, sia a breve sia a lungo termine, quello che è determinante è l’effetto che il carcere produce sull’individuo.







Vogliamo iniziare quest’osservazione con una frase incisiva di Renato Curcio: «La soglia del reclusorio è più tagliente del più affilato rasoio»27. Il neo-recluso è tagliato fuori dal suo mondo per entrare nel mondo della pena, subendo così lo sradicamento dai suoi riferimenti esistenziali: la famiglia, il lavoro, le consuetudini. Questo essere tagliato fuori dal proprio mondo, questa decontestualizzazione, fa precipitare in uno spaesamento radicale in cui la sensazione repentina più forte è quella di pericolo. L’essere, risucchiato in questo vortice doloroso, si smarrisce, viene meno ogni certezza e il senso di solitudine diventa paralizzante. Il passaggio successivo riguarda il flusso degli stimoli che si inaridisce; c’è una profonda modificazione nella forma con cui questo flusso del divenire personale viene interiorizzato. Ne conseguono disfunzioni sensoriali, cognitive, emozionali, con alterazione della percezione spazio-temporale. Secondo Foucault, il tempo ricopre il ruolo di operatore della pena, testimonianza del crimine commesso, un intervallo vuoto, strumento del giudice 28. Nella pena, il tempo si dilata e si comprime insieme, diventa una successione di istanti puntiformi e angoscianti che potenziano il castigo. Il detenuto non può gestire il proprio tempo29,30, non può gestire il proprio spazio, non vive più ma è vissuto, è ridotto a una figura umana vuota, priva di progettualità, il riflesso di se stesso. Tutto questo porta alla recisione relazionale e alla caduta degli universi simbolici che interessano il Sé relazionale e che sono in grado di generare senso, respiro vitale; giunti a questo punto, la scelta può cadere sulla libertà di morire. Il linguaggio della reclusione priva di ogni possibilità di autonomia, espropria di tutto e, quando il “blindo” si chiude, ci si sente murati vivi, la percezione si altera e ci si può sentire schiacciati dalle pareti. A questo va aggiunta la mancanza del mondo femminile. La privazione di una normale vita affettiva e sessuale ha effetti devastanti. L’impossibilità di un incontro reale con l’altro sesso spinge il recluso a rifugiarsi nell’intimo dell’autoerotismo in cui si riscopre un rapporto precluso e allucinato con il femminile, con tendenza al recupero di memorie sensoriali del proprio vissuto erotico o apertura all’immaginazione. Da qui la ricerca del femminile nel simbolismo delle immagini pornografiche o nei fidanzamenti epistolari. In queste condizioni, l’individuo può reagire o con l’autolesionismo, attraverso il quale recupera l’omeostasi, o rifugiandosi nel sonno artificiale degli ipnotici, o creando mondi paralleli con piccole nicchie di libertà. Il recluso nella situazione estrema dell’istituzionalizzazione matura uno stato di trance difensivo con sdoppiamento del Sé 31. Alla reclusione involontaria si sovrappone uno stato di reclusione volontaria inaccettabile alla coscienza ordinaria, in quanto, per definizione, luogo di fuga32. Questa penosa dinamica di dissociazione, per quanto paradossale, dà modo di salvare la vita in un’elaborazione creativa di un mondo di senso altro. Esempi di trance spontanea sono le “out-of the body-experience” e il “vuoto mentale”. Le piccole nicchie di libertà sono rappresentate dal prendersi cura di una pianta o di un animaletto… Questo permette al recluso di riappropriarsi di una piccola quota di affetto, altrimenti totalmente sequestrata dalle istituzioni, conquistando così uno spazio vitale. La religione, lo sport, le attività artistiche, ecc. permettono un momentaneo assentamento dall’immutabilità coatta. In altri casi si inizia a familiarizzare con la morte, per poi passare a una fase successiva in cui il rapporto con essa diventa così intenso e profondo, intimo, ammaliante e ammantante, un vero e proprio corteggiamento che, come il soffio materno, porta in una dimensione di libertà. È da questa trasformazione dell’individuo sotto l’azione torsiva della reclusione sulla psiche e sul corpo che nasce la regressione, la dipendenza e l’incapacità di sopravvivere sia dentro sia poi fuori dalle istituzioni.
CONCLUSIONI
Ormai con drammatica regolarità, mese dopo mese, anno dopo anno, le cronache del carcere ci restituiscono un quadro impressionante di disperazione che reclama risposte non più rinviabili. Quasi la totalità dei suicidi non è legata alla disperazione di chi sa di dover passare molti anni in carcere, ma piuttosto all’angoscia di un presente che il più delle volte significa negazione di dignità umana, mancanza assoluta di ascolto, sovraffollamento. Il suicidio rappresenta un elemento disfunzionale di profondo disagio sia per i detenuti sia per gli operatori penitenziari ed è indicativo delle difficoltà che l’Amministrazione Penitenziaria incontra nel suo mandato istituzionale di tutela della salute e della sicurezza del detenuto stesso. In questi ultimi anni, non solo l’Istituzione Penitenziaria, ma anche l’OMS hanno lavorato per realizzare un programma di prevenzione del suicidio in ambito penitenziario in relazione alla complessità di natura soggettiva e oggettiva. La prevenzione del suicidio in carcere inizia con la conoscenza del detenuto, la presa di coscienza dell’azione che l’istituzione totalizzante ha sull’individuo, la cura delle strutture, la formazione adeguata del personale penitenziario, in particolare degli agenti che sono in prima linea e per questo più facilitati a individuare segnali comportamentali indicatori di rischio di suicidio. L’agente di polizia penitenziaria deve essere preparato all’osservazione e al dialogo, a lavorare con empatia e bypassare la barriera della restrizione in un rapporto più umano. Non ci può essere prevenzione senza una visione più coinvolgente che garantisca l’integrazione dei diversi servizi.
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