Il suicidio assistito per pazienti con depressione grave. Un’opzione inaccettabile che gli psichiatri devono combattere fermamente

Giovanni de Girolamo1, Andrea Angelozzi2, Anna Rita Atti3, Corrado Barbui4, Marcella Bellani4, Giuseppe Bersani5, Massimo Biondi6, Paolo Brambilla7, Roberto Brocca8, Massimo Clerici9, Danilo Di Diodoro10, Giuseppe Ducci11, Federico Durbano12, Chiara Fabbri3, Andrea Fagiolini13, Lucio Ghio14, Angela Iannitelli15, Simonetta Martini16, Emiliano Monzani17, Giuseppe Nicolò18, Pierluigi Politi19, Antonio Preti20, Maria Elena Ridolfi21, Fabio Sambataro22, Francesco Maria Saviotti23, Leonardo Tondo24, Alessandro Serretti25, Antonio Vita26, Diana De Ronchi3

1IRCCS Fatebenefratelli, Brescia; 2Già Azienda Ulss 3 Serenissima, Mestre (Venezia); 3Università di Bologna; 4Università di Verona; 5Fondazione Roma Sapienza, Roma; 6Già Sapienza Università di Roma; 7Università di Milano; 8Azienda Ulss 3 Serenissima, Mestre (Venezia); 9Università di Milano Bicocca; 10Già Ausl di Bologna; 11Asl Roma 1, Roma; 12ASST di Melegnano e della Martesana, Vizzolo Predabissi (Milano); 13Università di Siena; 14Asl3 Genovese, Genova; 15Rivista di Psichiatria; 16ASST di Lecco; 17ASST Bergamo Ovest, Treviglio (Bergamo); 18Asl Roma 5, Roma; 19Università di Pavia; 20Università di Torino; 21Azienda Sanitaria Territoriale Pesaro Urbino; 22Università di Padova; 23ASST del Garda, Desenzano (Brescia); 24Centro Lucio Bini, Cagliari e Roma; 25Università ‘Kore’ di Enna; 26Università di Brescia.

Riassunto. Il dibattito sul suicidio assistito in pazienti affetti da depressione grave solleva questioni complesse di natura clinica, etica, scientifica, medico-legale e culturale. Il presente contributo si propone di affermare che tale opzione non è accettabile nel contesto della malattia depressiva, anche nelle sue forme più gravi e resistenti ai trattamenti. La depressione non rappresenta una condizione irreversibile o terminale: esistono molteplici possibilità di trattamento, sono documentate remissioni anche spontanee e tardive, e l’ideazione suicidaria deve essere considerata un sintomo cardinale della malattia, non il frutto di una decisione ponderata. Sotto il profilo scientifico, mancano biomarcatori affidabili per definire l’“incurabilità” della depressione e la prognosi del disturbo è spesso incerta. Eticamente, il principio di non maleficenza impone al medico di non contribuire alla morte del paziente, mentre la vulnerabilità di chi soffre di depressione grave ne compromette la capacità di autodeterminazione. Dal punto di vista medico-legale, è estremamente difficile valutare con certezza la capacità di “intendere e volere” in tali condizioni. Infine, sul piano simbolico e culturale, la psichiatria deve riaffermare il proprio mandato di cura e di contrasto alla disperazione, evitando derive pericolose che potrebbero legittimare lo stigma e il contagio suicidario. In conclusione, lo psichiatra non può e non deve assumere il ruolo di facilitatore di morte, ma deve continuare a offrire cura, speranza e protezione anche nei contesti clinici più complessi.

Parole chiave. Bioetica, depressione maggiore, gravità di malattia, malattia incurabile, suicidio.

Assisted suicide for patients suffering from severe depression. An unacceptable option that psychiatrists must fight with all their strength.

Summary. The debate on assisted suicide for patients suffering from severe depression raises complex issues spanning clinical, ethical, scientific, medico-legal, and cultural domains. This position paper asserts that such an option is unacceptable in the context of depressive illness, even in its most severe and treatment-resistant forms. Depression is not an irreversible or terminal condition: there are multiple therapeutic options available, including spontaneous and late remissions, and suicidal ideation must be seen as a core symptom of the disorder, not as a rational choice. Scientifically, there are no reliable biomarkers to define the “incurability” of depression, and prognosis is often uncertain. Ethically, the principle of non-maleficence prohibits physicians from contributing to a patient’s death, while the vulnerability of individuals with severe depression impairs their decision-making capacity. From a medico-legal standpoint, it is extremely difficult to assess competence in such contexts with any degree of certainty. Culturally and symbolically, psychiatry must reaffirm its healing mandate and resist dangerous shifts that could legitimize stigma or suicidal contagion. In conclusion, psychiatrists cannot and must not adopt the role of facilitators of death. Instead, they are called to provide care, instil hope, and protect patients, even in the most challenging clinical scenarios.

Key words. Bioethics, illness severity, major depression, suicide, untreatable illness.

Introduzione

La recente inclusione – in un convegno italiano di psichiatria – di una relazione sul tema del suicidio assistito, seppure limitata alla semplice descrizione delle normative vigenti nei Paesi europei, solleva un dibattito su rilevanti problematiche attinenti la sfera della bioetica e del biodiritto che rendono inderogabile, per psichiatri impegnati nella professione da molti anni, una chiara presa di posizione su una tematica sino a oggi non emersa in Italia, almeno per quanto riguarda quest’area disciplinare.

Si deve ricordare (come scrive il Comitato Nazionale di Bioetica, 2019)1 che l’ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzionale ha individuato, fra i requisiti che possono giustificare un’assistenza di terzi nel suicidio assistito, che la malattia «sia fonte di sofferenze psicologiche giudicate intollerabili». Questo aspetto potrebbe evocare, in psichiatria, anche la sofferenza correlata alla depressione grave. Ma è proprio su questo punto che una psichiatria responsabile e attenta ai diritti umani deve affermare con forza che la depressione, nonostante possibili gravi sofferenze, può non essere una condizione patologica irreversibile. Infatti, tale malattia può e deve essere curata e riabilitata ed è ben noto che vi sono – persino in assenza di trattamento psicofarmacologico – periodi anche lunghi di remissione.

Sempre il Comitato Nazionale di Bioetica1 scrive che, una volta accettato il suicidio assistito, «diventerebbe poi difficile distinguere tra sofferenze fisiche e psicologiche, con il risultato di allargare tali condizioni inizialmente ristrette a patologie inguaribili e sofferenze insopportabili, anche a persone con disagi psicologici come la depressione o la sofferenza esistenziale». Questa affermazione cruciale è il “pendio” scivoloso che gli psichiatri devono contrastare con forza, guidati dal dovere di curare e di prendersi cura dei propri pazienti, trasmettendo sempre la speranza come elemento imprescindibile alla cura, sia con le parole ma, soprattutto, con i fatti2. Questo aspetto non può essere disgiunto dal rilievo secondo cui una grave sofferenza psichica è spesso accompagnata da una compromessa capacità di giudizio e di autonomia decisionale.

In questo breve contributo viene proposto un succinto ma articolato elenco dei motivi per i quali appare insostenibile, da una prospettiva clinica, scientifica, etica, medico-legale e culturale, il ruolo dello psichiatra come medico che assiste o addirittura favorisce una scelta di morte in persone sofferenti di disturbi dell’umore, in particolare di depressione grave.

Va sottolineato che le tesi qui esposte non hanno alcuna implicazione circa il dibattito attuale relativo al suicidio assistito in persone affette da malattie terminali o incurabili (malattie oncologiche, SLA, ecc.), casi in cui tale pratica viene considerata da alcuni autori «ragionevole»3: le tesi qui esposte si riferiscono unicamente al caso specifico di persone sofferenti di depressione grave opportunamente diagnosticata.

Motivi clinici

La diagnosi di depressione è soggetta a fluttuazioni: questa malattia si manifesta come una condizione dinamica, con potenziali miglioramenti spontanei o indotti, anche dopo anni di resistenza ai trattamenti4. Esiste una vasta gamma di opzioni terapeutiche oggi a disposizione per il trattamento della depressione: un amplissimo numero di farmaci antidepressivi attivi su diversi sistemi recettoriali, terapie di augmentation o di combination, psicoterapie evidence-based (anche combinate con farmaci), terapie di neuromodulazione (es. TMS, VNS, ECT), terapie emergenti (es. esketamina e, in un prossimo futuro, psichedelici, anche se questi ultimi ancora in sperimentazione e non disponibili in Europa), nonché altri trattamenti innovativi sperimentali. Inoltre, la resistenza al trattamento antidepressivo non equivale a irreversibilità e impossibilità a conseguire una remissione: molti pazienti con depressione resistente al trattamento (treatment-resistant depression - TRD) rispondono positivamente a trattamenti successivi o integrativi. Va anche detto che la compromissione della capacità decisionale è un elemento accertato della malattia: la depressione grave altera, tra gli altri aspetti, la capacità di giudizio attuale, la visione del futuro e la percezione del valore della vita, rendendo problematica la valutazione dell’autenticità del consenso, inderogabile per procedure del genere. Infine, l’ideazione suicidaria è un sintomo, non una scelta razionale: sostenere il suicidio assistito può quindi equivalere a favorire un sintomo cardinale della malattia. Va aggiunto che spesso pazienti che hanno tentato il suicidio, anche con metodi violenti, si pentono successivamente di averlo fatto5.

Motivi scientifici

A tutt’oggi non esistono biomarcatori o test predittivi affidabili per stabilire che un paziente con depressione grave è “definitivamente incurabile”. Il disturbo, infatti, presenta un’elevata eterogeneità: la depressione maggiore è un’entità sindromica, non una malattia unitaria e, pertanto, si manifesta sotto forme differenti, rendendo incerta qualsiasi prognosi “assoluta”. Tutto ciò può determinare degli errori diagnostici e condurre a giudizi fallaci sull’evoluzione clinica di condizioni di depressione grave: le diagnosi psichiatriche sono infatti spesso puntiformi, e devono essere sempre riviste nel tempo (si pensi per esempio a depressioni bipolari misconosciute, a disturbi di personalità compresenti non riconosciuti e non trattati, e a condizioni mediche sottostanti che possono influire sulla depressione). Infine, la letteratura dimostra che esistono casi documentati di remissioni tardive, con miglioramento anche dopo anni o decenni di depressione resistente.

Motivi etici

In campo medico vale il principio di “non maleficenza”: in questo caso, lo psichiatra ha il dovere di non causare danno. Il suicidio assistito, in questo contesto, è una rinuncia alla cura. Allo stesso modo va riaffermato il “principio di beneficenza”: l’obiettivo dell’intervento medico, o psichiatrico, è promuovere il benessere e alleviare la sofferenza, non facilitare la morte. Va poi messa in luce la vulnerabilità di un paziente che soffre di depressione grave: la condizione in questione rende i pazienti estremamente fragili e influenzabili, potenzialmente incapaci di esprimere un consenso davvero libero e informato per siffatta procedura. Va tenuto presente anche il rischio di deriva etica e di precedenti pericolosi: autorizzare il suicidio assistito per la depressione grave può aprire la strada ad abusi e “scivolamenti” normativi per altri disturbi mentali, altrettanto gravi. Infine, una procedura di questo tipo può minare la fiducia che un paziente deve nutrire verso i curanti: alcuni pazienti potrebbero temere che i medici coinvolti nel trattamento siano demotivati o non più impegnati a proteggerli dal suicidio.

Motivi medico-legali

Appare molto difficile la valutazione della capacità di intendere e volere in persone con depressione grave, soprattutto in presenza di ideazione suicidaria. Va considerato anche il rischio di contenziosi: familiari o terze parti potrebbero contestare la legittimità dell’assistenza al suicidio nel contesto di un disturbo mentale grave, anche anni dopo. Su un piano giuridico più generale, una procedura del genere creerebbe poi una contraddizione con la normativa vigente in Italia, dove non esiste ancora alcuna norma di legge chiara relativa al suicidio assistito in presenza di malattie organiche irreversibili e terminali. Infine, si pongono anche delicati problemi di accertamento medico-legale circa l’irreversibilità e l’autodeterminazione: criteri spesso difficili da determinare in ambito psichiatrico.

Motivi culturali e simbolici

La psichiatria ha una lunga storia di orrori e di uso politico: questo ha portato, nella stragrande maggioranza di quei casi, all’annientamento di persone affette da disturbi mentali; i manicomi hanno rappresentato il simbolo paradigmatico di questo approccio: riproporsi come “coloro che assistono a una scelta di morte” invece che sostenere la speranza di guarigione riporterebbe la psichiatria italiana indietro di decenni. La medicina e la psichiatria devono invece essere e mostrarsi alleate della vita: lo psichiatra, per definizione, dovrebbe rappresentare una figura che contrasta la disperazione e promuove la speranza. La psichiatria rafforza valori sociali condivisi: molte culture ritengono che la vita abbia un valore intrinseco anche nella sofferenza e che il compito della società sia accompagnare e sostenere, non abbandonare. Risulta poi necessario contrastare il rischio di stigma inverso: trasmettere l’idea che alcune vite “non valgano più la pena” potrebbe rinforzare lo stigma e la discriminazione verso i pazienti psichiatrici: si deve citare, al proposito, la depressione negli anziani o nelle gravissime forme di “doppia diagnosi”. Infine, non bisogna sottovalutare gli effetti imitativi (contagio suicidario): la legittimazione medica del suicidio in pazienti con depressione grave potrebbe aumentare il rischio di suicidi in altri disturbi mentali e nella popolazione generale.

Conclusioni

In conclusione, sostenere il suicidio assistito per pazienti con depressione grave resistente contraddice il mandato terapeutico dello psichiatra, poggia su basi scientifiche del tutto fragili, espone a rischi etici e legali considerevoli e può avere gravi ricadute simboliche e culturali, come già sottolineato in precedenti contributi apparsi in questa rivista6,7. La depressione, anche nelle sue forme più gravi, non equivale a una condizione terminale o certamente irreversibile (come nel caso di malattie oncologiche o di altre malattie incurabili durante la fase terminale) e il ruolo dello psichiatra è quello di curare, non di facilitare o addirittura procurare la morte. Inoltre, rifiutare il suicidio assistito nella depressione grave non significa ritenere che ogni suicidio sia evitabile o che ogni paziente possa guarire: significa però ribadire il ruolo terapeutico della psichiatria. Significa anche ricordare che nessun medico può essere ritenuto colpevole per non aver salvato ogni vita, ma ciascun medico ha il dovere – etico e clinico– di provarci con tutti i mezzi disponibili, tenendo anche presente che nella depressione grave l’ideazione suicidaria è un sintomo cardinale di malattia, non una libera scelta.

Bibliografia

1. Comitato Nazionale per la Bioetica. Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito. Presidenza del Consiglio dei Ministri: Roma, 2019. Disponibile su: https://lc.cx/vG5sQT [ultimo accesso 9 aprile 2025].

2. Miller FG, Appelbaum PS. Physician-assisted death for psychiatric patients - Misguided public policy. N Engl J Med 2018; 378: 883-5.

3. Callahan D. Reasons, rationality, and ways of life. In: Werth JL (ed). Contemporary perspectives on rational suicide. Philadelphia: Brunner/Mazel, 1999.

4. Malhi GS, Bell E, Le U, Boyce P, Berk M. Treatment resistant but not irremediable. Bipolar Disord 2025; 27: 157-60.

5. Antrim D. Un venerdì di Aprile. Storia di suicidio e sopravvivenza. Torino: Giulio Einaudi Editore, 2025.

6. Bersani G, Rinaldi R, Iannitelli A. Il suicidio assistito degli italiani in Svizzera e il silenzio della psichiatria. Riv Psichiatr 2018; 53: 173-6.

7. Montanari Vergallo G, Gulino M, Bersani G, Rinaldi R. Euthanasia and physician-assisted suicide for patients with depression: thought-provoking remarks. Riv Psichiatr 2020; 55: 119-28.