Dall’individuazione di vulnerabilità psicopatologiche alla gestione in rete della progettualità socio-sanitariadi richiedenti asilo e rifugiati: l’esperienza del Servizio di Consultazione Culturale di Bologna

Vincenzo Spigonardo1,2, Leonardo Mammana3, Delia Da Mosto4, Ronak Khamooshi1,Riccardo Rondelli1, Giorgia Zanutto3, Paola Rucci3

1Servizio Protezioni Internazionali, Asp Città di Bologna; 2Ospedale Privato Accreditato Villa Baruzziana, Bologna; 3Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie, Università di Bologna; 4Universitat Rovira i Virgili, Tarragona, Spagna.

Riassunto. Scopo. Il Servizio di Consultazione Culturale di Bologna (SCC-Bo) è un servizio di psichiatria transculturale attivo dal gennaio 2019 all’interno del Servizio Protezioni Internazionali di Bologna. Dal suo inizio il SCC-Bo ha iniziato a raccogliere dati quantitativi e qualitativi organizzandoli all’interno di un database dedicato all’attività di monitoraggio e di ricerca scientifica del Servizio stesso. Metodi. Lo studio prende in esame le cartelle cliniche di 211 rifugiati o richiedenti asilo inviati al SCC-Bo dal gennaio 2019 al giugno 2023 analizzate mediante le seguenti categorie di analisi: la gravità psicopatologica e il miglioramento clinico (tramite la scala CGI) durante la presa in carico, l’inquadramento diagnostico e la terapia farmacologica. Risultati. Le persone inviate al SCC-Bo da gennaio 2019 a giugno 2023 sono state 211: il 55,9% (n=120) presenta una sintomatologia di nuova insorgenza, di gravità moderata, mentre il 26,1% (n=55) presenta una sintomatologia di insorgenza grave. La categoria diagnostica maggiormente rappresentata è quella dei disturbi dell’umore in associazione o meno con disturbi psicotici (20,8%, n=44) o PTSD (13,3%, n=28). Gli aspetti di gravità clinica sono migliorati nella maggior parte dei casi trattati. Discussione. Il SCC-Bo opera all’interno di un ambito sociale peculiare quale quello del Servizio Protezioni Internazionali di Bologna, dedicato all’accoglienza di richiedenti asilo o rifugiati. Il principale obiettivo del SCC-Bo è quello di ridurre le barriere di cura che caratterizzano tale gruppo sociale fornendo cure psichiatriche, psicologiche e garantendo un servizio di collegamento alle risorse sanitarie locali. I risultati del presente studio convalidano il razionale che questo particolare gruppo possa essere soggetto a disordini psichiatrici maggiori ed essere sfornito di un supporto clinico specifico. Conclusioni. Il SCC-Bo può essere considerato un modello di cura psichiatrica e psicologica appropriato al contesto italiano dell’accoglienza ai rifugiati. Il SCC-Bo mette in relazione le evidenze della ricerca scientifica in psichiatria transculturale con il lavoro psichiatrico e psicologico a favore dei rifugiati e richiedenti asilo.

Parole chiave. Competenza culturale, determinanti sociali di salute, politiche sanitarie, psichiatria transculturale, rifugiati.

Detecting vulnerability and managing clinical and social outcomes of refugees and asylum seekers: the experience of Cultural Consultation in Bologna.

Summary. Purpose. The Cultural Consultation Service of Bologna (SCC-Bo) is a transcultural psychiatric service situated within the International Protection Service of Bologna since January 2019. From its inception, the SCC-Bo has collected qualitative and quantitative epidemiological data that are stored in a database dedicated to documenting the Service activities and enabling research studies. Methods. The study recruited 211 refugees and asylum seekers referred to the SCC-Bo from January 2019 to June 2023 and assessed them in the following ways: severity of illness at intake as well as clinical outcomes (CGI scale), diagnosis, and pharmacological therapy. Results. The people referred to the SCC-Bo from January 2019 to June 2023 were 211: 55,9% (n=120) of them complained of new-onset psychological symptoms of moderate severity, while 26,1% (n=55) of them presented with severe symptoms. Mood disorders were most commonly diagnosed, with psychosis (20,8%, n=44) and PTSD (20,8%, n=44) also occurring frequently. The clinical outcomes improved in most of the refugees or asylum seekers followed by the SCC-Bo. Discussion. The SCC-Bo is implemented in a unique social milieu such as International Protection Service of Bologna, dedicated to the acceptance of people refugees and asylum seekers. The main goal of the SCC-Bo is to reduce barriers of care related to this peculiar social group providing psychiatric and psychological care as well as a liaison service to local health resources. The findings of this study support the rationale that this peculiar social group may suffer of psychiatric major disorders and may lack of specific clinical support. Conclusions. The SCC-Bo could be considered a model of psychiatric and psychological care appropriate to the context of the Italian reception of refugees. The SCC-Bo integrates scientific findings of transcultural psychiatric research into the psychological and psychiatric clinical approach towards refugees and asylum seekers.

Key words. Cultural competence, healthcare policies, refugees, social determinants of health, transcultural psychiatry.

Introduzione

La psichiatria transculturale è una disciplina il cui principale interesse scientifico consiste nel comprendere e definire l’impatto che le differenze culturali e sociali hanno sulla malattia mentale e sul suo trattamento. Essa pertanto si occupa sia di ricerca scientifica di base sia di promozione di servizi appropriati1.

Nel corso del suo sviluppo scientifico la psichiatria transculturale si è orientata secondo tre principali aree d’interesse:

1. l’universalità o relatività dei quadri psicopatologici;

2. la creazione di servizi psichiatrici che possano rispondere ai bisogni di società multiculturali o ospitanti rifugiati e richiedenti asilo;

3. l’analisi della teoria e pratica psichiatrica quale prodotto di una particolare storia culturale2.

In questa prospettiva, dunque, tale disciplina può essere considerata una nuova forma di psichiatria sociale3 attenta a sottolineare come problemi complessi – quali per esempio quelli legati alla psicopatologia all’interno dei processi migratori –, necessitino di risposte sia dal punto di vista terapeutico sia sul piano sociale.

Sebbene siano passati più di venti anni da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)4 ha enfatizzato l’importanza della salute mentale come uno dei più importanti capitali di una società, invitando all’elaborazione di programmi dedicati allo sviluppo di competenze culturali, nel panorama internazionale sono state poche le realtà cliniche che hanno predisposto modelli di intervento strutturali per il potenziamento di tali competenze5,6. Su scala globale possiamo quindi affermare che la risposta a tale invito non è stata uniforme, suscitando un interesse variabile e differente nel corso degli anni intercorsi.

Per competenza culturale si intende un insieme di requisiti e processi che consentono ai professionisti della salute mentale di fornire prestazioni culturalmente appropriate per i diversi tipi di popolazione che essi servono. Fra tali requisiti sono da considerare essenziali sia l’attenzione alle differenze linguistiche nelle sedute terapeutiche sia l’influenza della cultura d’origine nella manifestazione della malattia e nella conseguente richiesta d’aiuto. Il concetto di competenza culturale include anche il rispetto per le credenze religiose del paziente, soprattutto quando differiscono da quelle del clinico7.

La competenza culturale non risponde dunque ai paradigmi di universalità e replicabilità propri delle discipline scientifiche, ma si sviluppa all’interno dei diversi discorsi sociali, antropologici e sanitari, con risultati differenti in ciascun contesto culturale8. All’interno dei servizi di salute mentale essa può essere considerata come un insieme di tecniche e “buone pratiche” volte a migliorare la capacità di relazione clinica tra personale sanitario e paziente in un contesto operativo caratterizzato da interculturalità. Tale competenza può coinvolgere in maniera diretta le politiche di cura svolte dalle istituzioni o dai sistemi sanitari, per esempio favorendo processi di equità e consapevolezza rispetto ai differenti gruppi culturali presenti sul territorio, oppure può interessare la pratica clinica introducendo sulla scena terapeutica nuovi attori (si pensi ai mediatori culturali o agli antropologi) e inedite cornici teoriche di riferimento (come i determinanti sociali di salute9 e l’antropologia medica).

Sebbene il concetto di competenza culturale sia stato largamente utilizzato a favore di politiche di integrazione interculturale all’interno della salute mentale, tale paradigma teorico non ha trovato un’univoca espressione operativa, ma ha generato una varietà di interventi clinici e metodologici rispondenti di volta in volta ad altrettanti imperativi sociali e culturali. Dalla creazione dei Servizi di Consultazione Culturale10 all’istituzione di ambulatori di etnopsichiatria11, dall’uso di mediatori linguistici nelle istituzioni governative alle cliniche con dichiarate politiche antirazziali12, il nucleo teorico che ruota intorno al concetto di competenza culturale ha dovuto rispondere a problemi contingenti per trovare una sua forma operativa13. Nel fare questo, esso è andato modificandosi, ampliando i suoi paradigmi concettuali e includendo le nozioni di umiltà culturale14 e competenza strutturale15.

Il concetto di umiltà culturale invita il clinico a riflettere sui propri condizionamenti culturali e storici e su come questi incidano sulla cornice etnografica nella quale il paziente stesso viene inserito. La possibilità di rendere il paziente interprete e informatore del proprio mondo culturale diviene centrale da un punto di vista operativo, poiché restituisce autenticità alla ‘matrice ambientale’ nella quale si radica la relazione terapeutica e riduce il rischio di pericolose derive esoticizzanti (sia da parte del clinico che del paziente). La competenza strutturale integra il concetto precedente ponendo l’accento sulle dinamiche di potere e sulle disparità strutturali a monte dei discorsi psicopatologici: la violenza strutturale, i determinati sociali di salute, il depauperamento delle risorse economiche di base diventano pertanto discorsi di pertinenza clinica, poiché vengono identificati come potenziali genesici sia dei processi culturali sia di quelli psicopatologici.

Nonostante i concetti di competenza culturale, umiltà culturale e competenza strutturale possano declinarsi in svariate possibilità operative, da un punto di vista pratico possono ormai ritenersi consolidate le seguenti linee guida:

l’approccio multidisciplinare favorisce l’integrazione tra le varie discipline coinvolte nei processi migratori (psichiatria, psicologia, antropologia e scienze sociali) e tra i diversi attori operanti nel contesto interculturale (clinici, antropologi, mediatori culturali, educatori e assistenti sociali);

il lavoro di mediazione linguistico-culturale appare indispensabile per elicitare le visioni di malattia e cura che ogni paziente porta con sé, per favorire l’alleanza terapeutica e per evitare di incorrere in errori diagnostici;

l’inquadramento dei processi psicologici in ambito transculturale non può essere localizzato esclusivamente all’interno dell’individuo, ma deve essere parte di discorsi più ampi di natura storica e sociale.

La competenza culturale applicata alla salute mentale è una delle espressioni più evidenti di psichiatria sociale e rappresenta un’importante alternativa alle prospettive di cura basate sul modello della medicina evidence-based16, che tende a omogeneizzare e marginalizzare gli indicatori di salute provenienti da gruppi culturali minoritari.

Nello specifico contesto italiano il concetto di competenza culturale ha assunto una connotazione peculiare, poiché è entrato a far parte del vocabolario clinico in tempi relativamente recenti (mentre ancora più recente è l’introduzione dei concetti di competenza strutturale e umiltà culturale). Tale specificità trova la sua origine nell’evoluzione storica e sociale della nazione. L’Italia si è infatti trasformata, in un arco di tempo piuttosto breve, da paese di forte emigrazione (tendenza prevalente dagli inizi del Novecento fino agli anni Sessanta) a nazione ad intensa immigrazione (dagli anni Novanta in poi). I dati statistici forniti dal Ministero degli Interni17 evidenziano infatti come il numero di richiedenti asilo sia passato da poche migliaia negli anni Novanta a decine di migliaia nel 2000, fino ad arrivare a numeri ben superiori dal 2015 in poi. La maggior parte delle persone rifugiate o richiedenti asilo è di sesso maschile (circa ¾) e in età compresa dai 18 e i 34 anni. Caratteristica singolare è l’eterogeneità dei paesi di provenienza rispetto al dato registrato negli altri paesi della UE; elemento che evidenzia come il confine peninsulare italiano rappresenti la porta d’accesso all’intera Europa, in cui confluiscono le traiettorie migratorie provenienti da almeno tre continenti (Europa, Africa, Asia).

Sebbene si siano sviluppate efficaci esperienze cliniche – Associazione F. Fanon, Centro Studi Sagara, Istituto Italiano di Igiene Mentale Transculturale, Centro Studi Etnopsichiatria e Psicoterapia Transculturale - Istituto A.T. Beck – e si siano talvolta formati gruppi di lavoro dedicati alla psichiatria transculturale all’interno dei Centri di Salute Mentale – come quelli sviluppati nelle aree urbane di Roma, Bologna e Prato18-21 , la clinica psichiatrica italiana, nella maggior parte dei casi, ha risposto con difficoltà alle richieste sociali che coinvolgono l’accoglienza a rifugiati e richiedenti asilo e alle conseguenti esigenze di inquadramento clinico interculturale e di gestione all’interno della rete socio-sanitaria locale. In particolare, l’assenza di modelli operativi strutturali e replicabili in campo transculturale – capaci di conciliare le aspettative del mondo sociale con le logiche dei Dipartimenti di Salute Mentale – si rivela come particolarmente critica. Il rifugiato o richiedente asilo, proprio in virtù della sua fragile e non strutturata presenza giuridica sul territorio italiano, rappresenta un enigma istituzionale e amministrativo, oltre che sanitario, per tutti coloro che si occupano di salute mentale. Alla già complessa cornice giuridica si aggiunge talvolta una ancor più problematica condizione ambientale ed esistenziale, consistente nella mancanza di una fissa dimora22. È pertanto facile comprendere come l’assenza di modelli operativi strutturati e integrati tra i vari attori dell’accoglienza ai rifugiati abbia spesso creato nel tempo ampie zone d’ombra, abitate da grave disagio psicologico e da inquietanti incognite sociali.

All’interno del contesto italiano l’area metropolitana di Bologna, nell’ambito della rete di accoglienza integrata, ospita 3.770 rifugiati o richiedenti asilo (dati aggiornati al 31/05/2024): di questi 1.594 sono ospitati nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), mentre 2.176 risiedono tra SAI ordinari, SAI DS-DM (il servizio dedicato a persone con vulnerabilità mediche e psicologico-psichiatriche) e SAI MSNA (il servizio dedicato a stranieri minori non accompagnati)23. Se spostiamo l’attenzione sul numero delle strutture osserviamo che quelle a disposizione del sistema metropolitano dei CAS sono 58, mentre le SAI ammontano a 353.

I due differenti sistemi di accoglienza operativi sul territorio italiano riflettono inevitabilmente due logiche divergenti, talora contrapposte, di presa in carico di persone che arrivano nel territorio italiano a seguito di migrazioni forzate, provenienti da paesi in guerra o caratterizzati da grave instabilità sociale ed economica. I CAS sono gestiti dalla Prefettura locale, che a sua volta appalta ad organizzazioni afferenti al privato sociale la gestione di luoghi di accoglienza, caratterizzati da un alto numero di ospiti e da limitati servizi volti all’integrazione e al riconoscimento dei bisogni delle persone, compresi quelli di salute (nel contesto dell’area metropolitana di Bologna il valore medio di ospiti/struttura è 28). Il sistema SAI ruota invece intorno all’attività sociale, sia pubblica che privata, promossa nella municipalità di riferimento che ospita piccoli gruppi di persone in appartamenti o case (nel contesto dell’area metropolitana bolognese il valore medio di ospite/struttura è 6): tali unità abitative sono coordinate e supervisionate da educatori e professionisti del settore, i quali offrono servizi a sostegno del processo di integrazione (come corsi di lingua italiana, supporto legale e sanitario e orientamento al lavoro). La specificità di tali appartamenti è definita in base all’utenza che ospitano: si possono pertanto avere posti letto destinati ad adulti, ad adulti con problematiche sanitarie e a minori stranieri non accompagnati.

L’esperienza maturata nei progetti SAI bolognesi ha portato a una maggiore sensibilità nell’accoglienza di persone con potenziali criticità socio-sanitarie e all’individuazione di fragilità psicologiche, mediche e comportamentali: tale condizione operativa ha promosso nel tempo la strutturazione di un Servizio dedicato a queste criticità, come il Servizio di Consultazione Culturale di Bologna (SCC-Bo). Quest’ultimo si pone come obiettivi sia la valutazione psicopatologica transculturale sia il collegamento con la rete sanitaria locale, in particolare con il Dipartimento di Salute Mentale di Bologna.

Il SCC-Bo si è sviluppato sulla scia di interesse verso i temi della psichiatria transculturale che ha coinvolto i professionisti della salute mentale di Bologna dagli inizi degli anni 2000 a oggi. Dal 2019 esso si è concretamente strutturato nel contesto del Servizio Protezioni Internazionali dell’Asp Città di Bologna, avendo come riferimento scientifico l’esperienza della Division of Social and Cultural Psychiatry della McGill University (Montreal, Canada), che rappresenta la più antica divisione di psichiatria transculturale mai istituita (1950). Proprio all’interno di tale istituzione, infatti, nacque nel 1999 il primo servizio di Consultazione Culturale (CCS-Montreal), ospitato presso il Jewish General Hospital di Montreal. Tale Servizio – tutt’oggi in attività e centro di riferimento per la materia – ha lo scopo di integrare l’antropologia medica con la psichiatria convenzionale e di migliorare la risposta di cura nei servizi di salute mentale e di medicina di base, riducendo le barriere alla cura di persone straniere, siano esse residenti, rifugiate o richiedenti asilo.

Il principale obiettivo del CCS-Montreal è colmare le mancanze che caratterizzano il campo della ricerca e la promozione di servizi psichiatrici verso la cura di minori, adulti e famiglie in campo transculturale. Tra gli strumenti clinici utilizzati per favorire la riflessione e la valutazione culturale, gli operatori del Servizio hanno elaborato e pubblicato un manuale24, che fornisce un agile sussidio, teorico e pratico, a chiunque abbia il desiderio di approfondire l’argomento. Nel corso degli anni l’istituzione canadese ha anche formato scientificamente una rete internazionale di professionisti (anche grazie all’annuale Summer Program in Social & Transcultural Psychiatry della McGill University), i quali a loro volta hanno implementato il modello della consultazione culturale nei rispettivi contesti operativi e hanno portato alla creazione del Consortium for Cultural Consultation [https://www.mcgill.ca/iccc].

Il Servizio di Consultazione Culturale di Bologna costituisce una delle unità nate da tale processo di propagazione del modello canadese, ed è attualmente membro attivo di tale Consortium. Come sopra anticipato, dal gennaio 2019 il SCC-Bo si è strutturato all’interno del Servizio Protezioni Internazionali dell’Asp Città di Bologna, dopo essere stato operativo – con differenti attori clinici e con diverse modalità – sia all’interno del Dipartimento di Salute Mentale di Bologna (2010-2015) sia come unità dell’Ospedale Accreditato Villa ai Colli della stessa città (2015-2018).

Lo staff del SCC-Bo è composto da uno psichiatra e da uno psicologo-psicoterapeuta del Servizio Protezioni Internazionali dell’ASP Città di Bologna, da un’infermiera professionale del Dipartimento Assistenziale, Tecnico e Riabilitativo dell’Ausl di Bologna, da una tirocinante psicologa-psicoterapeuta e da consulenti mediatori culturali formati all’interno dello stesso centro. La formazione di queste ultime figure, che collaborano con l’équipe strutturata del centro, avviene attraverso formazioni didattiche periodiche promosse dal Servizio stesso, mediante momenti di confronto clinico condiviso – possibili sia prima sia dopo l’incontro con il paziente – e tramite la partecipazione su base volontaria a programmi di istruzione promossi da Università o Scuole di formazione etnoclinica. La capacità del mediatore culturale di essere parte attiva consapevole nella relazione d’aiuto è direttamente proporzionale alla sua abilità di gestire il materiale psicologico prodotto nell’incontro clinico (sia in termini linguistici che contro-transferali).

Il SSC-Bo collabora attivamente con il Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’Università di Bologna e con il SCC di Montreal (Kirmayer LJ, Rosseau C e Jarvis GE) al fine di produrre evidenze quantitative e qualitative che promuovano lo studio della clinica transculturale e dei determinanti sociali di salute. Da un punto di vista pratico esso fornisce i seguenti servizi: un’attività di tipo ambulatoriale settimanale, un servizio di reperibilità telefonica attivo dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 17.00 e, da ultima, una formazione etnoclinica trimestrale rivolta a tutti professionisti della rete di accoglienza.

L’attività clinica (figura 1) ruota intorno alla consultazione culturale, che si completa in tre/quattro incontri e che fornisce al professionista inviante una valutazione psicopatologica, il trattamento farmacologico (qualora necessario) e un inquadramento progettuale della persona inviata.




A seguito di tale valutazione la persona può essere inviata al medico di medicina generale per il proseguimento delle cure o – qualora sussistessero problemi di salute mentale più rilevanti – essa può essere indirizzata al Dipartimento di Salute Mentale o essere presa in carico dal SCC-Bo sia per un percorso psicoterapeutico a orientamento etnopsichiatrico25-27 sia per follow-up di tipo psichiatrico.

L’obiettivo principale del SCC-Bo è quello di fornire una valutazione psicopatologica in tempi relativamente rapidi, utilizzando un dispositivo clinico sia psicoterapeutico che psichiatrico, volto a assicurare dei benefici non solo ai pazienti, ma anche agli operatori dell’accoglienza, i quali sono a loro volta sottoposti a consistenti pressioni emotive nella gestione di persone in evidente difficoltà psicologica.

Dal gennaio 2019 il SCC-Bo ha iniziato a raccogliere dati epidemiologici di natura quantitativa e qualitativa, ricavati mediante apposite schede di invio indirizzate al Servizio, compilate dai referenti del CAS o del SAI (la persona interessata non può accedere direttamente al Servizio). Le informazioni derivate da tali schede sono state poi combinate con quelle provenienti da una prima valutazione clinica eseguita dallo psichiatra o dallo psicologo (composta dal genogramma*, dalla storia migratoria e dall’anamnesi sia fisiologica che patologica), con le prescrizioni farmacologiche e con le relazioni prodotte a scopo medico-legale. Tutte queste informazioni sono state progressivamente catalogate ed elaborate in un database, con l’obiettivo di monitorare le attività del Servizio.

Metodo e risultati

Sebbene non siano da intendersi come completi (considerata l’iniziale vocazione clinica del SCC-Bo), i dati raccolti offrono un osservatorio privilegiato sulla clinica psichiatrica transculturale e si prestano a proficue riflessioni sulle criticità e sulle potenzialità che un Servizio di questo genere può offrire.

La popolazione in studio comprende 211 persone inviate al SCC-Bo dal gennaio 2019 al giugno 2023, di cui 175 uomini e 32 donne (in 4 casi il genere non è specificato), con un’età mediana significativamente minore negli uomini (26 vs 32,5, p<0,001) e con una predominante provenienza dall’Africa. Accorpando l’area di origine in tre gruppi (Africa, UE/America, Medio Oriente ed Asia), è emerso che le persone provenienti dall’Africa erano più giovani rispetto a quelle provenienti da altre aree e prevalentemente di sesso maschile (figura 2 e tabella 1).







Per quanto riguarda la storia migratoria, disponibile solo per 73 persone, essa si struttura nella maggior parte dei casi come di breve durata (mediana 1 anno), mentre sono solo 16 i casi (provenienti dal Medio Oriente, dall’Africa e dalla Turchia) che presentano un percorso migratorio più lungo di 4 anni. In generale, la durata del percorso migratorio è significativamente più lunga per i soggetti provenienti dal Medio Oriente/Asia (figura 3).




Per quanto riguarda l’attestazione della presenza o meno di fattori di rischio migratori o post-migratori, in 87 casi non è stato possibile procedere alla documentazione, a causa della mancanza di specifiche informazioni in merito.

Nel 58,8% dei casi (n=124) è stato possibile identificare l’esposizione ad almeno un fattore di rischio pre- e peri-migratorio§. In particolare, il 25,6% (n=54) ne aveva solo 1, il 19% (n=40) ne aveva 2, il 10,4% (n=22) 3, il 2,4% (n=5) 4 e 1,4% (n=3) ne aveva 5.

Tra i fattori di rischio migratori sono emersi: un percorso migratorio di durata >=1 anno (n=53); l’esposizione a violenze nel paese di origine (n=32); l’attraversamento della Libia (n=38); l’esposizione a torture e violenze durante il passaggio in Libia (n=15); instabilità e conflitto nel paese di origine (n=4).

I fattori di rischio post-migratori (ovvero riscontrati nel periodo successivo all’arrivo in Italia) sono illustrati nella figura 4.




Tra questi predomina la presenza di una condizione di fragilità sanitaria (n=26); l’essere residenti all’interno di una struttura SAI DSM (n=19); dinieghi, respingimenti e difficoltà nell’iter giuridico della protezione internazionale (n=12); l’aver subito lutti o la perdita di relazioni parentali e affettive significative durante il periodo di accoglienza (n=11); l’aver subito discriminazione di genere o per orientamento sessuale (n=4); appartenere a un nucleo mono-genitoriale (n=4); essere stato esposto alla tratta (n=2) o altre vulnerabilità non specificate (n=9).

All’interno della popolazione presa in esame, la sintomatologia presentata in occasione del primo colloquio si presenta di nuova insorgenza nel 55,9% (n=120) e antecedente all’arrivo nel 9% dei casi (n=20), mentre nei restanti casi non è stato possibile identificarla. Più nello specifico, nel 29% dei casi (n=62) il periodo di insorgenza è inferiore a un anno, nel 23% dei casi tra uno e cinque anni (n=49), mentre per il 46% non è stato possibile identificare una data precisa.

Per quanto riguarda la severità della sintomatologia al momento della prima visita, valutata da 1 a 7 secondo i parametri della scala Clinical Global Impression (CGI), è emerso che più di metà dei casi erano gravi (mediana CGI=5). In particolare, 49 (23,8%) erano marcatamente gravi (CGI=5), 33 (16%) erano molto gravi (CGI=6) e 23 (11,2%) erano estremamente gravi (CGI=7).

Le diagnosi – effettuate secondo le indicazioni del manuale diagnostico ICD-11 – sono state raggruppate in macro-categorie diagnostiche per semplificare l’inquadramento epidemiologico e per razionalizzarlo per gli scopi del presente lavoro scientifico28. Delle 206 persone schedate con dato completo, 3 (1,5%) non presentano alcuna condizione patologica, 130 hanno una diagnosi (63,1%) e 73 (35,0%) ne hanno due. Il disturbo depressivo è risultato la condizione più comune (53,6%), seguito dal disturbo di personalità (27%), dall’abuso di sostanze (17,1%), da psicosi reattive (15,2%), PTSD (13,6%) e psicosi croniche (5,7%). La tabella 2 riporta il numero di casi con diagnosi singole (sulla diagonale, in giallo) e i casi con combinazioni di diagnosi.




Si può osservare che il disturbo depressivo/ansioso è presente nel 40,9% della casistica come diagnosi singola, ma è anche frequente in associazione con il PTSD (7,4%). Inoltre è comune la comorbidità tra disturbi di personalità euso di sostanze (10,3%). La gravità è risultata significativamente e positivamente correlata al numero di diagnosi (rho=0,314, p<0,001).

La tipologia di valutazione al primo colloquio è psichiatrica e infermieristica nel 46,9% (n=99), nel 25,6% dei casi prevede il coinvolgimento dell’intera équipe (n=54), nel 19,4% il solo supporto psicologico (n=41), mentre in misura minore l’intervento ha richiesto una valutazione di consulenza (n=31, 6,5%) o supporto psicologico e infermieristico (0,9%).

Con riferimento alla terapia farmacologica, il ricorso al trattamento farmacologico è presente nel 57,8% dei casi (n=122), rappresentando il 78,8% delle prese in carico psichiatriche e infermieristiche (n=78/99), il 70,4% dell’esito delle valutazioni di équipe (n=38/54) e il 7,3% delle valutazioni di solo supporto psicologico (n=3 su 41). Una revisione della terapia farmacologica, valutabile in termini di dosaggio, di modifica della classe o del numero di farmaci prescritti, è stata effettuata in circa metà dei casi trattati (52,5%, n=64).

Sul miglioramento – rilevato con la CGI Improvement – sono disponibili informazioni per 183 persone (86,7%). Il 92,6% di questo sottoinsieme della casistica risulta migliorato (da leggermente a moltissimo), con un miglioramento mediano di 2 (molto migliorato). Tale miglioramento non è risultato correlato alla condizione di gravità iniziale ma è generalizzato (rho=-0,093, p=0,213). In soli due casi si è rilevato un grave peggioramento.

Discussione

Per una corretta interpretazione dei dati fin qui presentati si rendono necessarie alcune riflessioni. Sebbene la psichiatria abbia ridefinito ampiamente i suoi strumenti clinici e farmacologici, l’eredità coloniale nell’approccio diagnostico, fondato su categorie elaborate nel mondo occidentale, è ancora attivamente presente nell’impalcatura diagnostica psichiatrica. La revisione del concetto di culture bound syndromes avvenuta in occasione della stesura del DSM-V29, volta a un inquadramento diagnostico più sensibile agli aspetti sociali e culturali della sofferenza, ha sicuramente rappresentato un grande passo in avanti verso visioni più interdisciplinari di salute e di malattia mentale. Di fatto, tuttavia, la diagnosi psichiatrica, per poter rispondere ai requisiti metodologici della medicina, deve produrre “categorie diagnostiche discrete” che si costituiscano come generalizzabili, misurabili e replicabili, indipendentemente dal contesto di osservazione. Diversi sono tuttavia i fattori che illustrano la fallacità delle categorie diagnostiche psichiatriche in contesti interculturali30. Tra questi, assumono particolare rilevanza le differenti modalità con le quali le persone descrivono i propri vissuti e i motivi del proprio malessere, che si modificano in relazione alla cornice culturale di appartenenza e al modo con cui tale matrice d’origine dà forma e linguaggio a questi vissuti, sia patologici che fisiologici. In alcuni contesti culturali, per esempio, è lo stesso concetto di disturbo mentale a entrare in crisi, data l’assenza di una categoria chiamata “mente” o l’inclusione della stessa nel concetto di corpo (visione pertinente a una dimensione olistica). Nella clinica transculturale, per esempio, i principi di causalità possono perdersi e alcuni corredi sindromici possono essere ascrivibili ad altre categorie dell’essere, diverse da quella umana, come spiriti, demoni o Djinn#.

Un altro punto critico nel comprendere l’incompleta corrispondenza diagnostica in ambito transculturale, soprattutto nell’ambito delle migrazioni forzate, consiste nella modesta capacità della diagnosi psichiatrica di tradurre il potenziale patogeno dei peculiari contesti sociali. Nello specifico, realtà sociali caratterizzate da violenza strutturale e organizzata (si pensi alle guerre, allo sfruttamento, o ai regimi totalitari) producono una grande varietà di quadri psicopatologici, che possono comprendere sia psicosi brevi o reattive sia situazioni ansioso-depressive croniche (con o senza abuso di sostanze). Lo stesso percorso di accoglienza e l’eventuale ottenimento di un permesso di soggiorno – acquisizioni che possono anche richiedere anni – espongono la persona o il gruppo familiare a esperienze di attesa dalla portata psicologica destrutturante, che possono tradursi in quadri psicopatologici tanto drammatici quanto di difficile interpretazione31. Di fatto, l’unica diagnosi che trova una correlazione diretta in tali contesti sociali – e nei vissuti più comuni ad essi correlati quali la paura di morire, quella di essere uccisi, etc.– è il disturbo post-traumatico da stress32.

Una prima fotografia dei dati prodotti dall’analisi dei pazienti seguiti dal SCC-Bo mette in luce alcune peculiarità sia diagnostiche che psicofarmacologiche dal valore interpretativo non scontato. È innanzitutto da segnalare come alcune mancanze nella raccolta dati siano principalmente da imputarsi all’originaria natura sperimentale del SCC-Bo, che all’inizio era orientato soprattutto da un punto di vista clinico e operativo e non volto alla raccolta dei dati clinici al fine di ricerche quantitative e qualitative.

È altresì da rilevare che la diagnosi di disturbo bipolare non è stata osservata clinicamente e pertanto non è inclusa nelle categorie diagnostiche. La categoria diagnostica definita disturbo psicotico reattivo raggruppa invece tutte quelle condizioni classificate nell’ICD-11 come altre psicosi non organiche a caratteristica reattiva, mentre quella classificata come psicosi croniche raggruppa le diagnosi dell’ICD-11 come psicosi schizofreniche, dist. schizoaffettivo e dist. delirante cronico. I disturbi di personalità, così come le diagnosi di dipendenza patologica e abuso di sostanze, sono stati raggruppati in due rispettive macro-categorie, senza ricorrere a ulteriori specifiche diagnostiche. La scelta trova ragione nell’interesse da parte nostra a fornire un quadro diagnostico generale dei pazienti seguiti (e a lasciare spazio ai relativi ragionamenti di natura clinico-diagnostica ad altri lavori scientifici).

Circa la metà dei pazienti segnalati al SCC-Bo (55,9%, n=120) nel periodo di studio in oggetto presenta una sintomatologia di nuova insorgenza, di gravità moderata. A questo gruppo si somma una quota di circa un 25% di pazienti con sintomatologia di insorgenza grave (26,1%, n=55), sempre secondo il rilevamento tramite scala CGI. La categoria diagnostica maggiormente rappresentata clinicamente è quella dei disturbi dell’umore, principalmente il disturbo depressivo maggiore. Una quota di pazienti significativa esprime una sintomatologia compatibile con quadri clinici di psicosi reattiva (20,8%, n=44) o PTSD (13,3%, n=28): l’aspetto reattivo è spesso individuato durante i colloqui clinici e si correla a esperienze soggettive di rischio di morte e di violenza arbitraria.

Una chiave aggiuntiva di valutazione diagnostica potrebbe essere offerta dall’analisi della terapia farmacologica alla quale questi pazienti rispondono con beneficio clinico. Sebbene i dati si presentino incompleti allorché si voglia valutare nel dettaglio il percorso terapeutico all’interno del SCC-Bo, l’osservazione clinica mostra che la maggior parte dei pazienti ha raggiunto un buon compenso psicopatologico dopo circa tre o quattro incontri o nei follow-up successivi. Le terapie farmacologiche sono state modificate nel corso del tempo in circa metà dei casi trattati senza ricorso a interventi di urgenza-emergenza e con una buona capacità di ripresa progettuale del paziente. La combinazione frequente di farmaci antidepressivi con basse dosi di neurolettici mostra come sia stato necessario ristabilire sia un quadro timico adeguato sia ricomporre aspetti clinici caratterizzati da profonda frammentazione psicologica, angoscia fluttuante ed esperienze di derealizzazione/depersonalizzazione.

Un altro elemento che, dal nostro punto di vista, merita attenzione è l’assenza di invii a reparti di medicina di urgenza come PS o SPDC dei pazienti seguiti dal SCC-Bo durante il periodo di osservazione. Tale dato è stato considerato “sensibile” (insieme all’alto rischio di burn out degli educatori dell’accoglienza) allorché si è deciso di implementare la rete dei servizi socio-sanitari presenti sul territorio con il SCC-Bo. Questa evidenza rivela come un servizio psichiatrico e psicologico strutturato in un’ottica di competenza culturale, monitoraggio clinico e collegamento sul territorio possa migliorare la gestione delle urgenze/emergenze cliniche di tale popolazione clinica, favorendo interventi ambulatoriali specialistici e alleanze terapeutiche più strutturate.

Conclusioni

Nel panorama nazionale dei servizi sanitari, il SCC-Bo si caratterizza sia per gli elementi di continuità teorica sia per la sua novità metodologica. Nella situazione attuale la clinica psichiatrica è contrassegnata da una grande difficoltà dei servizi territoriali nel dare risposta ai bisogni di cura di società sempre più interculturali e sempre meno ancorate a reti familiari e sociali di tutela. Uno dei concetti cardine della riforma psichiatrica italiana (e non solo) era di promuovere una psichiatria capace di essere interprete dei bisogni di salute mentale dell’individuo quale parte di un corredo sociale di relazioni. Al giorno d’oggi rintracciare tale rete di relazioni vuol dire essere capaci di oltrepassare barriere che tengono separati il mondo reale da quello virtuale, il mondo socializzato da quello antisociale, il mondo stanziale da quello in cerca di uno status giuridico.

Date tali premesse, il primo elemento di interesse scientifico del SCC-Bo risiede nella capacità di essere riuscito a essere operativo in un’area del mondo sociale, quale quella dell’accoglienza a rifugiati e richiedenti asilo, dove le barriere di cura sono tanto evidenti quanto efficaci a limitare le richieste d’aiuto provenienti da tale mondo. L’ambito di accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo, sia nelle sue forme di integrazione territoriale (SAI) che in quella centralizzata (CAS), appare infatti isolato e accessibile solo a una fascia ristretta di operatori (si pensi a come le prigioni, i dormitori, i centri di accoglienza, gli ospedali psichiatrici e le comunità per tossicodipendenti siano in continuità tra loro sia per utenza che per contiguità dei profili professionali impiegati, e di fatto a come costituiscano un “mondo sociale” a sé stante). La principale novità clinica del SCC-Bo, anche in termini di politiche sanitarie, risiede dunque nel fatto di essersi originato dapprima in un ambito di esclusiva pertinenza sociale e, in seguito, di essersi rivolto verso il Dipartimento di Salute Mentale e le Cure Primarie di Bologna, costituendosi di fatto come un servizio “cerniera” tra questi mondi istituzionali.

Il secondo elemento, di valore principalmente metodologico, risiede nella dinamicità del dispositivo clinico del SCC-Bo, capace di sapersi adattare a quadri sociali e interculturali complessi e tra loro differenti: dall’emergenza sbarchi a Lampedusa alla pandemia Covid-19, dalla crisi migratoria afgana all’accoglienza dei rifugiati ucraini, il SCC-Bo ha dovuto calibrare il proprio assetto clinico rapidamente, in risposta a esigenze psicologiche e sociali molto diverse tra loro.

Il terzo elemento di qualità, che emerge principalmente attraverso l’analisi dei dati qui presentati, è la capacità del SCC-Bo di poter gestire una popolazione di persone, rilevante sia per numero sia per complessità clinica, in maniera autonoma, evitando invii impropri ai Csm/Sert di competenza o ai reparti psichiatrici per acuti. Quest’ultimo dato può creare letture ambivalenti: potrebbe infatti sorgere il dubbio che il SCC-Bo possa costituirsi come un nuovo ghetto, impedendo a persone rifugiate o richiedenti asilo di accedere alla rete della salute mentale. Ci si potrebbe altresì chiedere se il SCC-Bo non sovrastimi il reale bisogno di aiuto di tali persone.

Il nostro punto di vista è che per intervenire a favore della salute mentale di persone richiedenti asilo o rifugiati sia necessario operare, attraverso strumenti clinici validi in ambito transculturale, anche nelle comunità sociali dove queste persone sono ospitate, siano esse SAI o CAS. L’adesione (documentata) delle persone seguite dal SCC-Bo a progetti psichiatrici condivisi – così come la loro partecipazione attiva a percorsi di sostegno psicologico, arte terapia e lavoro psicoterapeutico – dimostra che una sensibilità alle logiche della competenza culturale:

1. riduce la barriera tra domanda d’aiuto e risposta clinica;

2. aiuta a configurare i bisogni di persone che non solo appartengono a mondi culturali spesso in dissoluzione, ma rappresentano l’eco lontana di antiche relazioni coloniali caratterizzate da dominio e disparità;

3. potenzia le risorse dei servizi territoriali di psichiatria (provati da anni di scarsi investimenti), offrendo nuovi e vitali strumenti di ragionamento clinico e teorico.

In conclusione, un elemento di complessità che vorremmo sottolineare riguarda la reazione psicologica della casistica sopra descritta ai periodi di attesa di risposta alle domande d’asilo (spesso nell’ordine di anni). Questa peculiare dimensione esistenziale, sovente caratterizzata da marginalizzazione sociale e dal timore di ritorno in luoghi di origine percepiti come ad alto rischio umano, si traduce in quadri psicopatologici caratterizzati da profonda flessione del tono dell’umore, con insonnie resistenti alle tradizionali terapie ipnoinducenti, angoscia fluttuante ed episodi frequenti di derealizzazione/ depersonalizzazione.

Questo vulnus istituzionale, legato esclusivamente al diritto all’asilo e alle logiche politiche da esso dipendenti, si traduce da un punto di vista metodologico psichiatrico in complesse operazioni cliniche (sia di sostegno psicologico che farmacologico) volte a strutturare percorsi identitari lì dove l’identità trova il suo punto di maggiore distanza da indispensabili principi individuativi. Non sarebbe improprio valutare il periodo di accoglienza, nella sua indeterminatezza giuridica e temporale, come un determinante sociale di salute specifico, capace di giustificare severe compromissioni di resilienza psicologica dell’individuo così come vere e proprie «patologie della cittadinanza»33.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Note:

*Il genogramma è un breve prospetto grafico che riassume le relazioni familiari, affettive e sociali del paziente.

§Identificati attraverso analisi qualitative della documentazione clinica.

#Il Djinn rappresenta nella cultura araba un’entità o spirito afferente al mondo invisibile. Esistono diversi tipi di Djinn capaci di influenzare il comportamento umano sia negativamente che positivamente.

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