Lavorare nei Centri Psico-Sociali: una ricerca qualitativa sul vissuto degli psicologi lombardi

Rosalba Lamberti1, Giulia Lamiani1,2, Chiara Zoppellaro3, Pietro Barbetta4, Davide Baventore5, Giuseppe Cersosimo6, Antonella Guarascio1, Michele Montecalvo2, Elena Vegni1,2

1ASST Santi Paolo Carlo, Milano; 2Dipartimento di Scienze della salute, Università di Milano; 3ASST Brianza, Vimercate (MB); 4Dipartimento Scienze Sociali e Umane, Università di Bergamo; 5Ordine degli Psicologi della Lombardia, Milano; 6Thesis Group, CREA scs onlus, Milano.

Riassunto. Scopo. In letteratura sta crescendo l’interesse verso il benessere dei professionisti che operano nei contesti di cura del paziente psichiatrico. Obiettivo del presente studio è stato esplorare il ruolo percepito e il vissuto lavorativo degli psicologi psicoterapeuti che lavorano nei Centri di Salute Mentale, in Lombardia denominati Centri Psico-Sociali (CPS). Metodi. È stata condotta una ricerca qualitativa con psicologi psicoterapeuti della Lombardia che avessero un’esperienza di lavoro in CPS di almeno 3 mesi. Il reclutamento è avvenuto attraverso un campionamento di convenienza tramite email dell’Ordine degli Psicologi. Da novembre 2022 a marzo 2023 sono stati condotti e audio-registrati 3 focus group online; in ognuno veniva mostrato un video stimolo costruito appositamente a cui seguivano domande sul tema del ruolo percepito e del vissuto lavorativo. I trascritti dei focus group sono stati analizzati da tre psicologhe psicoterapeute seguendo i principi dell’analisi tematica del contenuto. Risultati. Hanno partecipato 21 psicologi (3 maschi), con un’età media di 44.71 anni (DS=9,09) e con una media di 8,49 (DS=8,81) anni di lavoro in CPS. Dai risultati sono emerse 4 tematiche: epistemologia di cura, organizzazione dei servizi, ruolo dello psicologo e vissuto dello psicologo. Inoltre, è emerso come l’epistemologia di cura abbracciata nei CPS, anche implicitamente, contribuirebbe a influenzare l’organizzazione dei servizi, il ruolo percepito dello psicologo e il suo vissuto. Nei CPS a impronta bio-psicosociale, il ruolo dello psicologo verrebbe riconosciuto e valorizzato all’interno delle équipe con conseguenti vissuti di valorizzazione e apprezzamento. Discussione e conclusioni. I risultati suggeriscono la rilevanza dell’epistemologia di cura nell’influenzare pratiche organizzative, ruolo e vissuto degli psicologi nei CPS. Tuttavia, è altresì possibile ipotizzare una relazione maggiormente circolare tra i diversi livelli, per cui anche le pratiche organizzative potrebbero influire sull’epistemologia e sulle dimensioni del ruolo e del vissuto dello psicologo. La varietà delle esperienze, seppure nella stessa Regione, testimonia una possibile autonomia culturale e organizzativa. È necessaria una riflessione sulle epistemologie di cura e sulle pratiche organizzative per promuovere il benessere lavorativo degli psicologi.

Parole chiave. Benessere operatori sanitari, centri psicosociali, psicologia clinica, salute mentale.

Working in Psycho-social Centres: a qualitative research on the experiences of Lombard psychologists.

Summary. Aims. Interest in the well-being of professionals working in psychiatric patient care contexts is growing in the literature. The aim of this study was to explore the perceived role and work experience of psychologist psychotherapists working in Mental Health Centers (MHC). Methods. A qualitative research was conducted involving psychologists with a training in psychotherapy working in Lombardy who had at least 3 months of working experience in a MHC. A convenience sample was recruited by email through the Order of Psychologists. From November 2022 to March 2023, 3 focus groups were conducted online and were audio-recorded. In each focus group, a video stimulus was shown, followed by questions on the perceived role and work experience of the participants. Three psychologists analyzed the focus groups’ transcripts according to thematic content analysis. Results. We enrolled 21 psychologists (3 males, with an average age of 44.71 years (SD=9.09) and with an average of 8.49 (SD=8.81) years of work in MHC). Four themes emerged: epistemology of care, services’ organization, role of the psychologist and work experience of the psychologist. Results suggest that the epistemology of care embraced, even implicitly, in the MHC contributes to influence the organization of services, the role of the psychologists and their work experience. In MHCs with a biopsychosocial epistemology, the psychologists felt their role was acknowledged and valued by the care team. This leads to experiences of valorization and appreciation. Discussion and conclusions. Results highlight the importance of the epistemology of care in influencing organization of services and the perceived role and work experience of the psychologists. However, it is also possible that a more circular relationship between the different levels exists, whereby organizational practices could also influence the epistemology of care and the perceived role and work experience of the psychologist. The variety of experiences, within the same Region, suggest that there is a possible cultural and organizational autonomy in MHCs. A reflection on the epistemology of care and organizational practices adopted in MHCs is needed to promote psychologists’ well-being at work.

Key words. Clinical psychology, mental health, mental health center, well-being of healthcare workers.

Introduzione

L’odierna cornice psichiatrica italiana è l’esito di una complessa modifica dell’assetto legislativo e sanitario avvenuta, sia a livello nazionale che regionale, negli ultimi 50 anni. Fino alla prima metà del secolo scorso, la concezione del disturbo mentale nel nostro Paese è stata prevalentemente di tipo organicistico con interventi terapeutici e riabilitativi tipici dell’epoca manicomiale. A 45 anni di distanza dalla legge 180 del luglio 1978, che ha definitivamente portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici, il quadro dell’assistenza psichiatrica pubblica conferma una “deistituzionalizzazione” della cura dei disturbi mentali e un cambiamento verso una visione maggiormente multidimensionale degli stessi1.

Negli ultimi vent’anni diverse evidenze scientifiche2,3 hanno contribuito a promuovere una visione biopsicosociale dei disturbi mentali4 secondo la quale a una componente biologica e organica si affianca sempre una componente psicologica e sociale la cui influenza, nell’eziologia e nel mantenimento dei disturbi, non può più essere negata5,6. Queste istanze sono state recepite dal Ministero della Salute che, con il Piano di Azioni Nazionale sulla Salute Mentale (PANSM)7, ha stabilito delle linee di indirizzo rispetto ai percorsi di cura all’interno del Sistema Sanitario Nazionale con particolare riferimento all’organizzazione e all’integrazione dei servizi, alle modalità di lavoro e ai programmi clinici offerti. Nello specifico, il PANSM sottolinea la particolare complessità e multifattorialità dei disturbi psichiatrici e ribadisce la necessità di trattamenti integrati, a differente intensità assistenziale, che siano orientati sui bisogni delle persone e che garantiscano accessibilità, personalizzazione del progetto e continuità delle cure7. Grazie anche a queste linee guida nazionali, il trattamento nei contesti di cura psichiatrica ha assunto un indirizzo maggiormente multidimensionale e integrato prevedendo accanto all’impiego della terapia farmacologica, l’introduzione di interventi psicologici individuali o di gruppo, il supporto e l’informazione nei confronti dei familiari, il sostegno psicosociale e riabilitativo, con per esempio esperienze di inserimento protetto del paziente in ambito lavorativo, e la possibilità di un sussidio economico8,9. Nello specifico, differenti studi in letteratura hanno confermato il sostanziale contributo della psicologia nella cura dei disturbi mentali10,11. In particolare, la psicoterapia sembrerebbe non solo migliorare l’aderenza alla terapia farmacologica dei pazienti psichiatrici12, ridurre il drop-out13 e diminuire l’ospedalizzazione14, ma soprattutto aiutare i pazienti a promuovere una maggior consapevolezza del loro funzionamento mentale e facilitare il loro inserimento nei contesti di vita sociale. Di ciò sono esempio il “Recovery Model” che, allontanando il focus di cura dalla risoluzione dei sintomi, mira a incrementare le risorse psico-emotive dei pazienti15 e l’“Open Dialogue” che, integrando differenti tradizioni psicoterapeutiche e basandosi su un approccio comunicativo, presenta numerosi effetti positivi nel trattamento delle psicosi14-16.

Contemporaneamente a questi cambiamenti epistemologici e clinici, a livello organizzativo e istituzionale la chiusura degli istituti manicomiali ha condotto nei primi anni ’90 alla necessità di organizzare una serie di strutture interdisciplinari in rete deputate alla presa in carico di persone affette da patologie gravi e con un basso livello di funzionamento sociale. L’alternativa agli istituti manicomiali viene quindi individuata in una rete di strutture, afferenti a un unico Dipartimento di Salute Mentale, capaci di svolgere funzioni preventive, curative e riabilitative del disagio mentale. Il Piano sanitario nazionale relativo al triennio 1994-1996 e successivamente il Piano sanitario nazionale 1998-2000 hanno in seguito definito le principali linee di intervento dei Dipartimenti di Salute Mentale stabilendo che l’assistenza psichiatrica dovesse essere centrata sul territorio, orientata alla riabilitazione e al reinserimento sociale del soggetto portatore di sofferenza mentale e che gli interventi realizzati dovessero basarsi sul principio dell’evidenza scientifica (EBM). Ogni regione italiana ha quindi organizzato il Dipartimento di Salute Mentale (DSM) che si presenta come un insieme di strutture di diversa intensità di cure come: i Centri di Salute Mentale (CSM) che in Lombardia sono denominati Centri Psico-Sociali (CPS), i servizi a carattere residenziale distinti in residenze protette e comunità terapeutico-riabilitative (SR), i servizi a carattere semiresidenziale distinti in Centri Diurni (CD) e Day Hospital (DH), e i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) che lavorano in sinergia con la medicina territoriale e i servizi sociali1,8. I Centri di Salute Mentale (CSM) o i CPS, come vengono chiamati in Lombardia, si occupano di assistere la persona con disturbo mentale in maniera integrata, all’interno del proprio contesto socio-ambientale e preservando il massimo grado di autonomia possibile. Queste strutture sono la sede del coordinamento degli interventi di prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento sociale.

In questo quadro di riorganizzazione interdisciplinare dei servizi di salute mentale, pochi studi hanno posto l’attenzione sul vissuto e sul benessere dei professionisti sanitari che operano nei contesti di cura psichiatrica. Solo recentemente si è registrata un’attenzione verso il vissuto e il benessere psicologico delle figure mediche e psichiatriche17; accortezza presumibilmente giustificata dal calo degli psichiatri che lavorano nel Sistema Sanitario Nazionale18,19 a fronte dell’incremento delle psicopatologie che si registrano a livello mondiale e di cui si prevede una crescita continua nei prossimi anni20,21.




Tuttavia, non sono noti studi recenti che esplorino il vissuto degli psicologi che lavorano nei contesti psichiatrici pubblici22. Obiettivo del presente studio è stato quello di esplorare il ruolo percepito e il vissuto lavorativo degli psicologi che lavorano nei CPS in Lombardia.

Metodi

Reclutamento

Lo studio ha adottato un disegno di ricerca qualitativo e ha coinvolto psicologi psicoterapeuti della Regione Lombardia che avessero un’esperienza all’interno di un CPS di almeno 3 mesi. Questo per non restringere troppo i criteri di reclutamento e includere anche quegli psicologi psicoterapeuti assunti con contratti a progetto su finanziamenti da parte della Regione Lombardia. I partecipanti sono stati reclutati attraverso un campionamento di convenienza. Per garantire un’ampia diffusione del progetto e un reclutamento regionale, l’invito di partecipazione allo studio è stato inviato, tramite email, da parte dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia. L’invito conteneva la descrizione del progetto di ricerca e un link per manifestare l’interesse a partecipare. Tale invito è stato fatto seguire da una e-mail, da parte dei Direttori delle principali UO di Psicologia delle ASST lombarde, a cui afferiscono diversi CPS. In seguito alle prime manifestazioni di interesse è stato effettuato un campionamento a palla di neve, ovvero è stato chiesto ai partecipanti di individuare altre persone, rientranti nei criteri di reclutamento, possibilmente interessate a partecipare alla ricerca.

Raccolta dati

Da novembre 2022 a marzo 2023, sono stati condotti 3 focus group online, aperti a un minimo di 6 e a un massimo di 10 partecipanti. La partecipazione a uno dei tre focus group è avvenuta a titolo volontario e previa firma del modulo di consenso informato all’utilizzo dei dati raccolti in modalità aggregata per fini di ricerca. Ogni focus group ha avuto una durata di un’ora e mezza. All’inizio di ogni focus group, a seguito di una breve presentazione da parte di ciascun partecipante, veniva mostrata una video-intervista, creata appositamente per la ricerca, in cui una collega psicoterapeuta, con diversi anni di esperienza in CPS, condivideva quello che pensava essere stato il suo ruolo e il suo vissuto lavorativo in CPS. Il video, della durata di 7 minuti, aveva l’obiettivo di stimolare la discussione. A tale video, seguiva una domanda sul ruolo che ogni psicologo psicoterapeuta riteneva di avere all’interno dei CPS e a turno la risposta di ogni partecipante. Con lo scopo di approfondire il vissuto emerso dai partecipanti, veniva posta un’ulteriore domanda sui punti di forza o sulle criticità del lavoro in CPS a seconda di quanto fosse già emerso in quel determinato focus group. I focus group sono stati facilitati da due psicologhe psicoterapeute, una (GL) con esperienza di ricerca ed esperienza clinica nei contesti ospedalieri e l’altra (RL) con esperienza pluriennale di lavoro clinico in CPS. Entrambe posseggono un’esperienza consolidata di conduzione di focus group. Una terza psicologa (AG) fungeva da osservatrice e trascriveva i contenuti espressi e i turni di parola. Tutti i focus group sono stati audio-registrati e in seguito trascritti verbatim avendo cura di rendere anonimi riferimenti contenuti nella registrazione.

Analisi dei dati

I trascritti dei focus group sono stati analizzati dalle due conduttrici (GL, RL) e da una partecipante ai focus group (CZ) seguendo i principi dell’analisi tematica del contenuto23. Tale analisi è stata guidata dalla ricercatrice con una specifica formazione in analisi qualitativa (GL) ed è avvenuta in diverse fasi. Dapprima i trascritti sono stati più volte riletti dalle tre ricercatrici, annotando a margine del testo le categorie o le parole chiave che descrivessero i contenuti esposti dai partecipanti nei diversi passaggi dei focus group. In seguito, ogni ricercatrice ha provato individualmente a raggruppare le categorie precedentemente identificate in tematiche maggiormente inclusive. In una serie di incontri congiunti tra le tre ricercatrici, e in seguito con il gruppo di ricerca allargato, sono state ridefinite le tematiche identificate nella fase precedente. Dopo aver identificato le tematiche in modo definitivo, una ricercatrice (CZ) ha riletto i trascritti per individuare i passaggi che meglio illustrassero ogni tematica attraverso le parole dei partecipanti.

Risultati

Partecipanti

Hanno partecipato alla ricerca 21 psicologi psicoterapeuti, di cui 3 maschi, con un’età media di 44,71 anni (DS=9,09) e con una media di 8,49 (DS=8,81) anni di lavoro in CPS. Solo 3 psicologi psicoterapeuti hanno riportato un’esperienza di lavoro in CPS da meno di un anno. La maggior parte aveva una formazione in psicoterapia con orientamento psicoanalitico (n=8), sistemico-relazionale (n=6), cognitivo-comportamentale (n=2), integrato (n=3), umanistico (n=1) e in neuropsicologia (n=1). La sede di lavoro degli psicologi era Brescia e provincia (n=10), Milano e provincia (n=5), Como e provincia (n=4), Crema e provincia (n=2).

Tematiche

Dall’analisi dei focus group è emerso come il vissuto degli psicologi psicoterapeuti rispetto al lavoro in CPS e il loro ruolo percepito vengano influenzati dal più ampio contesto lavorativo in cui sono inseriti, che comprende l’organizzazione dei servizi e l’epistemologia di cura (figura 1). Dai risultati emerge come l’epistemologia di cura abbracciata nei CPS, che può declinarsi lungo un continuum ai cui estremi troviamo quella biomedica e quella biopsicosociale, contribuisca a influenzare l’organizzazione dei servizi, il ruolo dello psicologo psicoterapeuta e il suo vissuto. In quanto segue, descriveremo le tematiche emerse riportando a titolo esemplificativo degli estratti dei focus group.

Epistemologia di cura

Molti partecipanti descrivono come il loro vissuto e il loro ruolo siano influenzati e cambino a seconda dell’epistemologia di cura implicitamente abbracciata nei CPS in cui lavorano. In alcuni CPS gli psicologi psicoterapeuti descrivono un’epistemologia prevalentemente biomedica che, in quanto tale, circoscrive fino talvolta a limitare il ruolo psicologico e sociale nella presa in carico della malattia mentale:

«Ho sempre avuto come responsabile uno psichiatra […] lui era molto biologista, durante un convegno disse “le parole non servono a niente” e io mi sono sentita… va bene mi pagano proprio per non fare niente evidentemente» (psicologa, 66 anni, FG2).

«Il servizio, secondo me, è centrato su un inquadramento molto nosografico… biomedico. Io credo che questa sia l’epistemologia centrale e forse esclusiva del servizio. Per cui dentro qua, un ruolo ce l’ho, eh, cioè nel senso mi... mi interpellano, mi chiedono, però c’è grossa fatica quando si tenta di introdurre qualcos’altro che non siano farmaci o riabilitazione psicosociale» (psicologo, 49 anni, FG1).

In altri contesti, invece, gli psicologi psicoterapeuti descrivono una cultura della cura improntata a un’epistemologia maggiormente biopsicosociale che porta a una valorizzazione del lavoro psicologico e a una maggior integrazione delle componenti biomediche, psicologiche, educative e sociali:

«Noi stiamo in un mondo totalmente diverso… il CPS si è costituito nell’ottantacinque e sin da subito il modello di riferimento è stato molto psicosociale e poco biomi è piaciuto moltissimo l’approccio di questo CPS, tant’è che ho cercato di rimanerci, proprio perché in realtà questa diatriba con la figura dello psichiatra da noi non esiste. Il ruolo dello psicologo è un ruolo centrale. È un servizio il nostro che da 10 anni ha un›apertura di 12 ore al giorno, 365 giorni l’anno» (psicologa, 49 anni, FG3).

«Io mi ritengo... contenta, nel senso che appartengono a questi due CPS, dove dal mio punto di vista c’è da parte dei medici psichiatri una visione positiva della nostra figura professionale, in cui credono e… integrano nel lavoro del servizio. Per cui ecco, posso definire questi psichiatri pro-psicologi. Quindi, insomma, non c’è un problema diciamo di fiducia nei nostri confronti né… di non riconoscimento del ruolo» (psicologa, 45 anni, FG2).

Organizzazione dei servizi

Gli psicologi psicoterapeuti hanno riportato come le modalità organizzative con cui ogni CPS funziona sono molto eterogenee. È presente un’estrema variabilità nell’organizzazione delle prime visite, nelle modalità di accettazione dei pazienti (con o senza impegnativa), nelle riunioni di équipe multidisciplinari e nel numero di psicologi assunti. Le pratiche organizzative sembrano sostenere implicitamente diverse visioni della cura, alcune maggiormente biologiste altre maggiormente integrate.

Alcuni partecipanti riportano un’organizzazione delle prime visite gestita interamente dagli psichiatri, depositari della possibilità di porre una diagnosi, una scarsa presenza degli psicologi alle riunioni d’équipe che limita il lavoro interdisciplinare, e un esiguo numero di colleghi spesso precari contrattualmente:

«Per noi (psicologi) è impensabile il fatto di poter fare una prima visita. Nel senso che tendenzialmente il dipartimento per cui lavoro è molto medico centrico. Quindi ci sono delle cose che tassativamente fa… lo psichiatra» (psicologa, 41 anni, FG1).

«Io continuo a dire che qui non si può fare la psicoterapia perché quando sei l’unico psicologo e hai sessanta pazienti da seguire o settanta, non si può parlare di psicoterapia» (psicologa, 66 anni, FG2).

«Ci viene richiesto anche di fare delle visite ogni 20 minuti, ogni mezz’ora. E questo è chiaro, che svaluta il nostro lavoro psicoterapeutico in maniera molto profonda» (psicologa, 46 anni, FG3).

«Il martedì noi abbiamo una riunione, spesso e volentieri noi siamo lì che attendiamo la riunione e invece si vede la fuga del primario con gli altri medici, ci chiudono fuori dalla porta e… non partecipiamo alla riunione!» (psicologa, 39 anni, FG2).

Altri partecipanti, invece, hanno descritto pratiche organizzative che sostengono un lavoro interdisciplinare e un approccio biopsicosociale alla cura del paziente, e sono vissute come efficaci per gestire l’aumento delle richieste: la possibilità di gestire in autonomia una prima visita, l’istituzione di riunioni di équipe multidisciplinari che diventano occasione di confronto e di condivisione del percorso riabilitativo del paziente e la presenza di altri colleghi psicologi in CPS:

«Da noi invece le prime visite psicologiche sono… nella norma, nel senso che i pazienti col medico di base decidono se farsi fare la prima visita psichiatrica o psicologica» (psicologa, 49 anni, FG3).

«E noi, beh, in varie fasce orarie della giornata diamo delle disponibilità a vedere tutti quelli che si presentano al servizio per un primo accesso, anche senza ricetta» (psicologa, 49 anni, FG3).

«Il fatto di appartenere tutti a uno stesso servizio aiuta molto per… pensare, progettare, scambiarsi opinioni e vedere anche il paziente con ottiche diverse che poi possono essere integrate» (psicologa, 45 anni, FG2).

Ruolo dello psicologo

Il ruolo che gli psicologi psicoterapeuti riferiscono di avere all’interno dei CPS sembra strettamente collegato all’organizzazione e alle epistemologie di cura dei CPS stessi. In alcuni casi, il ruolo percepito è rigido e riflesso di un mandato direttivo da parte dello psichiatra che definisce obiettivi e tempi di cura. In questi contesti gli psicologi descrivono come parte del loro ruolo sia anche quella di sensibilizzare l’équipe riguardo agli obiettivi e agli strumenti della propria professione e di difendere la loro autonomia professionale.

«Ecco lo scontro l’ho avuto soprattutto su questa cosa, perché di fatto succede che “io sono il medico, te l’ho inviato, quindi tu fai la tua parte”, ma non è che decidi tu cosa può fare lo psicologo, ti dico io in base alla mia professionalità cosa posso fare dinnanzi a questa situazione» (psicologa, 52 anni, FG2).

«Come ruolo, c’è un po’ la sensazione di essere subordinati in fondo al… al medico, allo psichiatra» (psicologa, 45 anni, FG1).

«Alcuni psichiatri ti mandano il paziente per fare psicoterapia, come a dire “Io valuto l’intervento e tu che sei una sorta di riabilitatore, fai la psicoterapia”. Mi ricordo che questa cosa all’inizio un po’ mi disturbava, perché io in realtà quando vedo il paziente rivaluto la possibilità di fare una psicoterapia, non solo per motivi di tempo, ma perché a volte alcuni pazienti non hanno le risorse, oppure utilizzano meglio per esempio un sostegno… lo psicologo fa altre cose oltre alla psicoterapia di uguale dignità» (psicologa, 50 anni, FG2).

In altri contesti, gli psicologi psicoterapeuti descrivono un ruolo flessibile, valorizzato e autodeterminato, nel rispetto dell’autonomia professionale. In questi contesti il ruolo dello psicologo si estende anche a quello di punto di riferimento e figura di confronto nell’équipe, di case manager di alcune situazioni, e di sentinella rispetto ai bisogni psicoemotivi urgenti di alcuni pazienti:

«Nel mio CPS non ho dovuto combattere nessuna battaglia […] il ruolo dello psicologo sento che è riconosciuto. Riconosciuto e valorizzato sia dagli psichiatri della vecchia guardia […], sia dagli psichiatri che ci sono adesso […] fanno degli invii che sono appropriati. Faccio sia psicoterapia, nei casi in cui è possibile, sia supporto psicologico con i pazienti più gravi… Quindi come autonomia sento che è riconosciuta» (psicologa, 44 anni, FG3).

«C’è un’équipe settimanale in cui c’è la presentazione del caso da parte del medico, viene individuato in genere un case manager […]. A volte il case manager sono io […] che cosa fa il case manager? Mantiene un po’ le fila… […]. Un po’ un monitoraggio di quello che è il progetto terapeutico di quella persona» (psicologa, 44 anni, FG1).

«Nella realtà in cui io lavoro, si tiene molto in considerazione il parere dello psicologo, e comunque quelle che sono le sue competenze professionali. […] Spesso i colleghi vengono anche a chiedere, non so come dire, dei consigli... parlo di educatori, piuttosto che altre figure professionali» (psicologa, 41 anni, FG1).

Vissuto dello psicologo

Il vissuto degli psicologi psicoterapeuti sembra essere collegato alle dimensioni precedentemente descritte. In alcuni contesti, laddove il ruolo è confinato a mandati direttivi con assenza di autonomia professionale e subordinazione, troviamo colleghi che vivono sentimenti di svalutazione e assenza di riconoscimento professionale. Di conseguenza riportano vissuti di solitudine e scarsa motivazione.

«Io in pratica ero assegnata a questo psichiatra che aveva questa visione molto biologica e che non credeva assolutamente nella psicoterapia. Poi quando ha scoperto che io avevo fatto una scuola di psicoterapia psicoanalitica… apriti cielo, io non ero più idonea a fare nessun tipo di psicoterapia» (psicologa, 39 anni, FG2).

«Io sono 13 anni che sono rimasta sola in questo CPS […] con una complessità che sappiamo quanto è aumentata» (psicologa, 66 anni, FG2).

«Ci viene richiesto di fare molte visite, anche in maniera assolutamente impropria, nel senso che noi vediamo anche i pazienti con cui non è possibile strutturare un lavoro terapeutico perché sono pazienti molto gravi, che forse varrebbe più la pena che seguissero un percorso educativo. Questo perché gli psichiatri non riescono a sostenere, diciamo i numeri […] E questo è chiaro che svaluta il nostro lavoro psicoterapeutico in maniera molto profonda, perché a quel punto io non riesco più a stabilire come professionista diciamo… la mia progettazione del lavoro col paziente» (psicologa, 46 anni, FG3).

In altri contesti troviamo colleghi che si sentono riconosciuti nel lavoro che fanno e valorizzati all’interno dell’équipe, e per, tanto riportano vissuti di appagamento, integrazione e buona motivazione.

«La nostra UOP è un come dire un luogo felice, noi devo dire che insomma, siamo molto integrati. Mi sembra che ci sia molto rispetto delle figure professionali, rispetto reciproco. Per cui… non mi sento in alcun modo svalutata. […] Mi sembra che ci sia una... una buona integrazione in realtà tra le figure professionali e non sento assolutamente come dire, discredito, ecco, da parte del… del medico rispetto alla figura dello psicologo. Non c’è nemmeno quella brutta abitudine del dire “Ah io ho visto il paziente, te lo mando, fammi i test” piuttosto che… no, c’è molto rispetto per cui si discute insieme dei casi e si decide insieme cosa fare insomma» (psicologa, 49, anni, FG3).

«E poi l’altra risorsa è il gruppo di lavoro. Secondo me è fondamentale anche quello, soprattutto quello per non sentirsi soli, per prendere delle decisioni. Per capire, come dicevo prima, quali sì e quali no dire, ecco è la… è una risorsa importantissima» (psicologa, 43 anni, FG3).

«Io personalmente come sensazione posso dire di… essere assolutamente ben inserita nel gruppo e anche un po’ di essere, diciamo, il punto di riferimento anche proprio per certe procedure […] diciamo che effettivamente ho visto anche una buona sinergia e una buona interazione per sbloccare situazioni che dall’interno sono molto statiche» (psicologa, 41 anni, FG1).

Discussione

Il presente lavoro ha avuto come obiettivo quello di esplorare il ruolo percepito e il vissuto degli psicologi psicoterapeuti che lavorano nei CPS lombardi. Dai risultati emerge come l’epistemologia di cura abbracciata, anche implicitamente, nei CPS contribuisca a influenzare l’organizzazione dei servizi, il ruolo degli psicologi psicoterapeuti e il loro vissuto. L’epistemologia di riferimento che viene descritta si colloca lungo un continuum, da biomedico a biopsicosociale; essa genererebbe diverse pratiche organizzative e influenzerebbe il ruolo percepito dagli psicologi. Dai risultati emerge come nei CPS a impronta maggiormente biopsicosociale, il ruolo dello psicologo psicoterapeuta sia più facilmente riconosciuto e valorizzato all’interno delle équipe con conseguenti vissuti di apprezzamento e inclusione, mentre nei CPS dove vige una visione maggiormente biomedica della cura, il ruolo degli psicologi psicoterapeuti sembrerebbe maggiormente misconosciuto e sbilanciato verso una difesa della propria autonomia professionale, contribuendo a innescare vissuti di svalutazione, solitudine e demotivazione. Da tempo, in medicina, si è messa in atto una riflessione sui modelli di cura che informano la pratica clinica2. Ne è testimonianza tutta la letteratura pubblicata negli ultimi trent’anni sul modello di medicina centrato sulla malattia, sul modello di medicina centrato sul paziente e sul modello di medicina centrato sulla relazione24-26. I nostri risultati evidenziano come, anche nell’ambito della salute mentale, sia necessaria una profonda riflessione da parte dei professionisti che operano in questi settori sui modelli di cura e sulla concezione di disturbo mentale che vengono implicitamente insegnati, tramandati e poi agiti nei CPS. Questa riflessione appare fondamentale dal momento che i modelli epistemologici di cura sembrerebbero influire su diversi aspetti concreti dell’organizzazione dei CPS come, per esempio, la gestione delle prime visite, le modalità di accettazione dei pazienti, la presenza di riunioni di équipe multidisciplinari per la discussione dei casi, fino alla numerosità degli psicologi assunti. Nei focus group emerge come la percezione del proprio ruolo e il relativo vissuto siano strettamente influenzati dall’epistemologia di cura e dalle pratiche organizzative. Tuttavia, è altresì possibile ipotizzare una relazione maggiormente circolare tra i diversi livelli, per cui anche le pratiche organizzative potrebbero influire sull’epistemologia e sulle dimensioni del ruolo e del vissuto dello psicologo. Se, per esempio, le procedure o le linee guida interne all’Aziende sanitarie prescrivessero interventi interdisciplinari, sembrerebbe più difficile adottare un approccio organicista alla malattia mentale o percepire, da parte degli psicologi, un vissuto di isolamento.

È interessante notare come i risultati abbiano messo in evidenza una diversità di pratiche organizzative e modelli di cura, seppur i CPS a cui si è fatto riferimento siano inseriti nella stessa cornice legislativa regionale. Le diverse influenze reciproche tra modelli di cura e dimensioni organizzativo-istituzionali potrebbero contribuire a comprendere la variabilità di approcci tra servizi evidenziata. Tale variabilità potrebbe infatti dipendere anche dai diversi rapporti istituzionali, dall’effettiva disponibilità di risorse, dal tipo di domanda dell’utenza e dalle modalità di implementazione delle linee guida nazionali e regionali sulla salute mentale. Diverse ricerche27,28 hanno per esempio evidenziato come la “cultura locale”*, ovvero il sistema di simbolizzazioni affettive collusive condivise entro un contesto da parte di chi vi appartiene, interviene nella costruzione della realtà organizzativa e del suo funzionamento. In ogni caso, questo risultato sottolinea come esistano spazi di autonomia gestionale e culturale che generano un impatto differente sul ruolo e sui vissuti degli psicologi psicoterapeuti. In particolare, nel nostro studio abbiamo riscontrato che nei contesti di cura in cui erano presenti una maggiore integrazione nell’équipe e una maggiore autonomia professionale degli psicologi psicoterapeuti prevalevano vissuti di soddisfazione e gratificazione, di riconoscimento e apprezzamento. La letteratura in riferimento ad altri contesti sanitari ha messo in evidenzia l’importanza di preservare l’autonomia professionale e il supporto sociale per favorire la soddisfazione lavorativa e il benessere dei propri operatori29,30. Questo aspetto è di particolare importanza se si vuole mantenere una forza lavoro motivata e attiva in un contesto delicato e attualmente in sovraccarico come quello della salute mentale. Emerge inoltre un vissuto di solitudine di alcuni partecipanti che riferiscono di essere gli unici psicologi nei loro contesti lavorativi. Questo vissuto è in linea coi dati del Ministero della Salute31 da cui si evince che la presenza degli psicologi nei servizi di salute mentale in ambito nazionale è circa la metà rispetto a quella dei colleghi psichiatri. Per far fronte all’incremento dell’utenza e preservare la qualità del lavoro di équipe che comprenda anche la partecipazione degli psicologi psicoterapeuti, sarebbe auspicabile considerare un aumento di tali professionisti in questi contesti.

Sulla base dei risultati raccolti, si possono inoltre ipotizzare altre buone pratiche che favorirebbero un maggior benessere lavorativo degli psicologi psicoterapeuti che lavorano nei CPS. Come suggerito da alcune realtà, l’aumento dell’utenza potrebbe essere gestito, invece che dimezzando i tempi delle visite psicologiche, con strategie condivise tra psicologi e psichiatri. Per esempio, le prime visite potrebbero essere gestite anche dagli psicologi e si potrebbe immaginare un accesso ai CPS anche con l’impegnativa per una prima visita psicologica in vista di una valutazione condivisa del percorso di cura. Le riunioni di équipe potrebbero essere un’occasione per favorire il lavoro interdisciplinare, la discussione congiunta dei casi e la condivisione della presa in carico, generando e rinforzando, in tal modo, prassi di lavoro sinergiche in cui viene preservata l’autonomia professionale.

Il presente studio ha diverse limitazioni. La metodologia qualitativa ha permesso l’esplorazione del ruolo percepito e del vissuto degli psicologi psicoterapeuti e non descrive pertanto una realtà oggettiva di pratiche e ruoli reali, che potrebbero essere esplorate, per esempio, con una metodologia etnografica. Inoltre, l’apertura al reclutamento di psicologi con una breve esperienza nei CPS e quindi con una minor conoscenza degli aspetti organizzativi (e.g. procedure interne, linee guida, rapporti istituzionali e simbolizzazioni collusive interne al servizio) potrebbe costituire una variabile che influenza la percezione di ruolo e il vissuto degli operatori. Nonostante il lavoro nei CPS sia multidisciplinare, il presente studio si è focalizzato solo sugli psicologi psicoterapeuti. Sarebbe auspicabile indagare i vissuti delle altre figure professionali presenti nei CPS come psichiatri, educatori, infermieri e tecnici della riabilitazione, per acquisire una visione maggiormente sistemica e completa del lavoro in questi contesti.

Acknowledgements: la pubblicazione del presente articolo è stata finanziata dal fondo di ricerca PSR2022_DIP_LAMIANI dell’Università di Milano, di cui è titolare la prof.ssa Giulia Lamiani.

Ringraziamenti: gli autori desiderano ringraziare Giada Cola, Gabriella Scaduto ed Emilia Malagrinò per il loro contributo all’ideazione del progetto e tutti i partecipanti ai focus group.

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* Per “cultura locale” ci si riferisce a uno specifico modello di riferimento27 in cui essa esprime il processo collusivo specifico di una determinata organizzazione, ossia il sistema delle reciproche simbolizzazioni affettive del contesto di chi a esso partecipa.