Depressione resistente a trattamento. Dalla classificazione alle nuove terapie

Walter Paganin1, Sabrina Signorini2, Vincenzo Leccese3, Antonio Sciarretta3

1Dottorato di Neuroscienze, Università Tor Vergata, Roma; 2Studio Psicologia Signorini, Guidonia, Roma; 3IHG, Guidonia, Roma.

Riassunto. Obiettivo. Il presente articolo si propone di indagare i progressi degli ultimi anni nel riconoscimento e nella terapia della depressione resistente a trattamento a partire dai concetti di: disturbo depressivo, resistenza e pseudoresistenza a trattamento farmacologico nella depressione, trattamenti adeguati della depressione maggiore resistente. Metodi. È stata effettuata una ricerca approfondita su database scientifici quali: PubMed, PsychInfo e Cochrane Library fino a maggio 2022 utilizzando le parole chiave “depressione maggiore”, “depressione resistente a trattamento”, “stadiazione”, “terapie strumentali per la depressione resistente”, “esketamina” e “psilocibina”. Risultati. I soggetti che non rispondono agli antidepressivi evidenziano una forma di resistenza al trattamento che richiede un approccio con ulteriori terapie farmacologiche e/o strumentali. Recentemente destano particolare interesse tra i clinici esketamina e psilocibina e a esse si aggiungono trattamenti strumentali quali: stimolazione del nervo vago, stimolazione cerebrale profonda, stimolazione magnetica transcranica ripetitiva, stimolazione transcranica a corrente continua, stimolazione corticale epidurale e terapia elettro convulsivante. Discussione e conclusioni. La depressione resistente al trattamento è diventata sempre più un problema di salute pubblica per il notevole numero di ricadute, ricoveri e mortalità che comporta, con una maggiore richiesta di utilizzo di più farmaci, risorse terapeutiche da parte dei servizi sanitari e perdita della qualità di vita per i pazienti. La depressione resistente deve essere affrontata mediante la creazione di protocolli di studio dedicati. Future ricerche dovrebbero concentrarsi sulla necessità di definire criteri operativi, validi e appropriati, sia sul piano psicopatologico, della clinical governance, sia su quello terapeutico, concentrandosi sulle terapie più recenti in modo da fornire dati certi su benefici, rischi e costi associati alla loro pratica.

Parole chiave. Depressione maggiore, depressione resistente a trattamento, esketamina, psilocibina, stadiazione, terapie strumentali per la depressione resistente.

Treatment-resistant depression. From classification to new therapies.

Summary. Aims. This paper aims to investigate the advances in recent years in the recognition and therapy of treatment-resistant depression starting from the concepts of: depressive disorder, resistance and pseudoresistance to drug treatment in depression, and appropriate treatments of treatment-resistant depression. Methods. An extensive research was carried out on scientific databases such as: PubMed, PsychInfo and Cochrane Library, until May 2022, using the keywords “major depression”, “treatment-resistant depression”, “staging”, “instrumental therapies for resistant depression”, “esketamine” and “psilocybin”. Results. Subjects who do not respond to antidepressants show a form of treatment resistance that requires an approach with additional pharmacological and/or instrumental therapies. Recently, esketamine and psilocybin are of particular interest among clinicians, and instrumental treatments such as: vagus nerve stimulation, deep brain stimulation, repetitive transcranial magnetic stimulation, transcranial direct current stimulation, epidural cortical stimulation, and electro convulsive therapy, are being added to them. Discussion and conclusions. Treatment-resistant depression has increasingly become a public health problem due to the significant number of relapses, hospitalizations and mortality it entails, with increased demand for the use of more drugs, therapeutic resources by health services, and loss of quality of life for patients. Treatment-resistant depression needs to be addressed through the creation of dedicated study protocols. Future research should focus on the need to establish operational, valid and appropriate criteria, both on the psychopathological, clinical governance and therapeutic levels, focusing on the latest therapies in order to provide reliable data on the benefits, risks and costs associated with their use.

Key words. Esketamine, instrumental therapies for resistant depression, major depression, psilocybin, staging, treatment resistant depression.

Depressione resistente a trattamento:
storia e definizione

“Depressione” è il termine genericamente usato per riferirsi a diversi disturbi depressivi. I disturbi depressivi sono condizioni psichiatriche diffuse nella società occidentale e principali cause di disabilità nel mondo1. Emozioni, cognizioni e manifestazioni fisiche nei disturbi depressivi, pur rispettando i criteri diagnostici del DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders 5th Edition) e dell’ICD-11 (International Classification of Diseases 11th Revision), si presentano con sfumature e aspetti clinici differenti talvolta lontani nosograficamente gli uni dagli altri. Anche nella depressione maggiore (che rappresenta una parte dei disturbi depressivi), codificata secondo il DSM-5, sia in acuto che attraverso il suo decorso clinico, si rintraccia una certa eterogeneità clinica e si contraddistinguono ampi quadri sintomatologici caratterizzati da: sintomi lievi, medi e gravi, buona o scarsa risposta ai trattamenti, disfunzionalità psicosociale, pensieri suicidari2, complicazioni fisiche e possibili esiti peggiorativi3,4.

Secondo il Global Burden of Disease Study pubblicato dall’Institute for Health Metrics and Evalutation dell’Università di Washington5, la depressione ha colpito, nel 2017, circa 258 milioni di persone nel mondo con un aumento dell’incidenza del 49,86% rispetto al 1990 (l’articolo citato riporta: «The number of incident cases of depression worldwide increased from 172 million in 1990 to 25,8 million in 2017, representing an increase of 49.86%»; si tratta ovviamente di un errore di battitura dato che, partendo dai casi del 1990 e applicando la percentuale, si ritrovano, salvo arrotondamento, 258 milioni di casi). I trattamenti attualmente disponibili, come confermano i dati raccolti e le esperienze cliniche, non consentono sempre di raggiungere la completa remissione del quadro sintomatologico e la guarigione dei pazienti6, spesso vittime di ricadute. Le probabilità di una prima e seconda recidiva sono rispettivamente pari al 50 e 90%7 circa.

A conferma di ciò, si riportano i risultati dello studio STAR*D (Sequenced Treatment Alternatives to Relieve Depression), finanziato dal National Institute of Mental Health (NIMH) e volto a indagare l’efficacia dei trattamenti cui sono sottoposti, secondo i criteri del DSM-5, gli individui affetti da depressione maggiore con mancata risposta a iniziale terapia con antidepressivo (AD)8. Quasi la metà dei partecipanti alla ricerca, di età compresa tra 18 e 75 anni, risponde positivamente a un primo trial antidepressivo, mentre il disturbo giunge in remissione sintomatologica solo nel 30% circa dei casi. Risposta al trattamento e remissione sono definite con l’ausilio della Scala di Hamilton della Depressione (HAM-D), atta a misurare la gravità del disturbo depressivo e i miglioramenti indotti dalla terapia farmacologica. Il trattamento è efficace se si ha una riduzione del 50% alla scala HAM-D, mentre si considera in remissione il paziente che non accusa sintomi depressivi per due mesi consecutivi. Alcuni di questi pazienti rispondono a terapie farmacologiche fondate sulla somministrazione di un secondo AD, appartenente a una diversa classe, o sull’associazione di due AD; altri non rispondono invece ad alcuna terapia farmacologica (strategie di potenziamento incluse) per una durata complessiva dell’episodio depressivo almeno pari a 12 mesi. Un terzo dei pazienti depressi non raggiunge la guarigione completa (remissione presente da almeno un semestre) neppure a fronte di più trial farmacologici, sviluppando una forma di depressione resistente al trattamento9.

Il concetto di depressione resistente al trattamento farmacologico antidepressivo (treatment resistant depression - TRD) è stato ufficialmente introdotto da Lehmann nel 1974 e descritto nel tempo attraverso studi e pubblicazioni che ne hanno delineato il profilo. Allo stato attuale non esiste però alcuna definizione precisa di TRD10, motivo per cui clinici e ricercatori tendono a sposare il postulato formulato, alle porte del 2000, da Souery et al.11 secondo cui un soggetto è resistente al trattamento quando terapie successive, condotte consecutivamente con due molecole appartenenti a diversa classe farmacologica, non producono effetti terapeutici accettabili seppure assunte per un periodo di tempo sufficiente e ad adeguato dosaggio. Dosaggio adeguato e periodo di tempo sufficiente si riferiscono alla massima dose consentita di farmaco, in ottemperanza a quanto stabilito dalle linee guida internazionali, in un intervallo temporale compreso tra 6 e 10 settimane. La durata della terapia farmacologica deve essere sempre oggetto di attente valutazioni perché nei pazienti partial responder si può osservare una remissione del quadro clinico prolungando la terapia oltre le 10 settimane12-14: i soggetti depressi in età senile migliorano, per esempio, protraendo il trattamento per almeno 12 settimane15,16. Una valutazione esaustiva sull’adeguatezza del trattamento antidepressivo deve inoltre tenere conto delle caratteristiche intrinseche del paziente (età, peso corporeo, genere, stato di salute generale, profilo genetico) e di eventuali interazioni farmacologiche che possono riflettersi sulla metabolizzazione dell’AD.

La resistenza al trattamento non deve essere confusa con la “pseudoresistenza”, termine coniato da Nierenberg e Amsterdam nel 1990 per descrivere i casi in cui la mancata risposta alla terapia è da attribuirsi a fattori esterni all’azione farmacologica17. Sono da considerarsi possibili cause di pseudoresistenza (tabella 1): l’inadeguatezza del trattamento per durata o dosaggio, alcuni fattori metabolici, scarsa compliance del paziente, comorbilità somatiche e/o psichiatriche, incluso disturbo da uso di sostanze con conseguente sindrome ipoforica causata dal consumo di queste ultime che viene spesso scambiata per depressione resistente18, e imprecisa diagnosi del sottotipo clinico di depressione (le forme psicotiche e bipolari non rispondono, per esempio, adeguatamente al trattamento antidepressivo).




La pseudoresistenza, come conferma uno studio condotto nei primi anni del 2000, si riscontra in più della metà dei pazienti depressi19 e il sotto dosaggio del farmaco sembra essere tra i maggiori responsabili del fallimento terapeutico20,21. In ottemperanza alle principali linee guida in materia, la posologia adeguata degli antidepressivi triciclici (TCA) non può essere inferiore a 250-300 mg/die di imipramina (o equivalenti), mentre il dosaggio adeguato degli inibitori della monoamino ossidasi (IMAO) è pari a 90 mg/die di fenelzina (o equivalenti)11,22. Per gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), la curva dose-efficacia terapeutica evidenzia una relazione di proporzionalità diretta per dosi di fluoxetina equivalenti comprese tra 20 e 40 mg, mentre per dosaggi superiori fino a 80 mg si osserva un iniziale plateau seguito da una progressiva perdita d’efficacia del trattamento23. Un incremento del dosaggio di SSRI non sembra, pertanto, aumentare la risposta del paziente al trattamento, mentre vi sono maggiori probabilità che si registrino effetti collaterali con peggioramento del rapporto costo beneficio. Allo stato dell’arte, non esiste ancora alcuna indicazione univoca circa il dosaggio adeguato degli antidepressivi NARI e NaSSA essendo la relazione dose-livelli plasmatici-risposta terapeutica tutt’ora oggetto di analisi clinico-farmacologiche24.

L’identikit del paziente affetto da TRD viene elaborato a partire dai risultati dello studio di real world, condotto da Heerlein et al.25. Dall’analisi dei dati, emerge una maggiore incidenza della TRD tra soggetti di genere femminile e un’età media di 51 anni; il 35,3% del campione è attivo nel mondo del lavoro, il 30,2% è disoccupato e il 19% è in congedo, a lungo termine, per malattia; si segnalano inoltre stati d’ansia, astenia e riportati episodi di tentato suicidio. Per quanto concerne i tassi di risposta e remissione, la ricerca evidenzia un andamento variabile degli stessi in relazione al trattamento prescelto (stimolazione cerebrale profonda, stimolazione magnetica transcranica, stimolazione transcranica a corrente continua, stimolazione del nervo vago, terapia elettroconvulsivante, psicoeducazione di gruppo, terapia cognitiva e farmacologica) con possibili eventi avversi di lieve, moderata o grave entità (disturbi sessuali, incremento ponderale, ipo o ipertensione, visione offuscata, vertigini, tremori, nausea, sonnolenza, mal di testa, transitori disturbi cognitivi, pensieri suicidi, mal di gola, ecc.) correlati26-29.

Al fine di studiare la TRD, sono stati introdotti nel tempo diversi modelli di stadiazione volti a classificare i livelli di resistenza al trattamento; ne viene qui fornita una breve descrizione, nel periodo storico di riferimento, in relazione ai concetti dominanti di depressione e risposta terapeutica (tabella 2).




1. Antidepressant Treatment History Form30: stima l’adeguatezza di un trial antidepressivo individuandone cinque diversi livelli da 0 (nessun trattamento o farmaco con azione psicotropa nota) a 5 (terapia farmacologica potenziata con litio e/o tiroxina). Consente di valutare l’appropriatezza dei trattamenti a cui il paziente è stato sottoposto e di definire dosaggio e durata dei successivi31,32.

2. Modello di Thase and Rush33: individua cinque possibili diversi livelli di resistenza in relazione al numero e alla tipologia di trattamenti antidepressivi non efficaci. Il modello è oggetto di obiezioni in relazione alla scala utilizzata per definire l’efficacia degli AD23,34-36: si attribuisce maggiore efficienza agli inibitori delle monoaminoossidasi (IMAO) rispetto agli AD triciclici (TCA), mentre questi ultimi sembrano essere superiori agli inibitori di ricaptazione della serotonina (SSRI) 37. Il modello proposto da Thase e Rush non fornisce, inoltre, informazioni relative all’adeguatezza del trattamento in termini di dosaggio e durata20,22,30,32,34, elementi non trascurabili perché potenzialmente responsabili di una forma di pseudoresistenza.

3. Modello di stadiazione europeo11: si fonda sulla definizione di non risposta, TRD e CRD (depressione cronica refrattaria). Secondo i suoi ideatori, il riconoscimento di resistenza al trattamento verte sulla mancata risposta del soggetto a due successivi trial antidepressivi di diversa classe farmacologica, adeguato dosaggio e durata minima di 6-8 settimane. La mancata risposta del paziente a un unico trattamento antidepressivo adeguato (stadio I di resistenza del modello di Thase e Rush33) identifica il soggetto come non responder, ma, da solo, non costituisce una condizione sufficiente per definirne la resistenza al trattamento. Il modello europeo propone cinque diversi gradi di resistenza al trattamento che si contraddistinguono unicamente per la durata del trial entrando in netta contrapposizione con la classificazione del grado di resistenza, formulata da Thase e Rush33, in funzione della classe di AD utilizzati (tabella 3).




Suddetta scelta è oggetto di critiche non prendendo, in alcun modo in considerazione la relazione esistente tra resistenza al trattamento e numero di trial inefficaci38,39. Souerey et al.11 definiscono inoltre, la depressione cronica refrattaria (CRD) come un episodio depressivo che dura da almeno 12 mesi anche a fronte di innumerevoli trattamenti e terapie di potenziamento senza alcuna risposta. Il parere degli autori in merito alla CRD non è però unanime perché alcuni la considerano semplicemente un ulteriore stadio di gravità della TRD31,35.

4. Modello di stadiazione del Massachusetts General Hospital34: valuta la resistenza al trattamento in funzione di un punteggio calcolato considerando il numero di trial farmacologici inefficaci e di strategie di ottimizzazione (aumento di dosaggio dell’AD e/o della durata del trattamento), combinazione (associazione di due farmaci AD), potenziamento (associazione tra AD e altri agenti farmacologici quali il litio e gli ormoni tiroidei) e ricorso alla TEC (terapia elettroconvulsiva). Il modello risente della scarsa attendibilità delle informazioni retrospettive fornite dal soggetto depresso e dell’arbitrarietà con cui vengono assegnati i punteggi: alla TEC vengono, per esempio, assegnati 3 punti, mentre le strategie di potenziamento sono tra loro equipollenti40-43.

5. Maudsley Staging Model41: si fonda sulla determinazione di un punteggio che contraddistingue i livelli di gravità di resistenza al trattamento in lieve, moderata e grave. Il punteggio globale viene calcolato considerando il numero di trial farmacologici inefficaci, la durata dell’episodio e, per la prima volta, la gravità dei sintomi a esso associati.

Nessuno dei modelli proposti associa il trattamento farmacologico a possibili terapie psicoterapiche che potrebbero migliorare la risposta del paziente in coterapia24 quali: la psicoterapia cognitiva comportamentale (CBT), la psicoterapia interpersonale (IPT), altre psicoterapie o terapie di gruppo.

Risultati

Incidenza e nuove frontiere nella depressione resistente al trattamento

La resistenza al trattamento è una condizione dei pazienti con disturbo depressivo maggiore che non raggiungono la remissione completa del quadro sintomatologico8. Stimarne l’incidenza nel tempo appare, tuttavia, complesso per la mancanza di una definizione univoca e precisa10; la letteratura disponibile in materia riporta i risultati di due studi condotti rispettivamente in Manitoba (Canada)44 e in Francia45. Nel primo studio sull’incidenza della TRD tra il 1996 e il 2016, sono stati osservati 169.511 individui affetti da disturbo depressivo sottoposti a trattamento per almeno sei settimane; di questi (utilizzando il modello di stadiazione del Massachusetts General Hospital34, per il quale punteggi uguali o superiori a 2,5 sono predittivi di resistenza al trattamento), 18.663 soddisfano i criteri di TRD pari all’11%. Il secondo studio, condotto in Francia tra il 2012 e il 2014, identifica 700 pazienti affetti da depressione resistente al trattamento, individuando una età media pari a 47,4 (±15,3) anni con impatto maggiore tra le donne (52,7%). In questo studio il tasso stimato di incidenza annuale e prevalenza di TRD è rispettivamente pari a 5,8 e 25,8 ogni 10.000 pazienti.

La difficoltà di una misurazione dell’incidenza della TRD è dovuta anche ai fallimenti del paradigma diagnostico che conduce, spesso, a conclusioni errate derivanti dai diversi sistemi diagnostici; inoltre vi sono importanti incertezze nei confronti di un sistema che si contraddistingue per una certa sovrapposizione tra i criteri diagnostici dei disturbi e l’osservazione dei sintomi. Alcune diagnosi, pur giustificando una netta distinzione, non sono inoltre oggetto di adeguata tassonomia psichiatrica all’interno del DSM-5 e dell’ICD-11 e molti pazienti depressi, non riflettendo i criteri diagnostici presentati in suddette categorie, si adattano alla diagnosi disponibile correndo il rischio di non rispondere al trattamento perché privo di provata efficacia nei confronti della sintomatologia accusata46.

Al fine di formulare una corretta valutazione di resistenza al trattamento, Ionescu et al.47 presentano nel 2015 gli step da seguire durante l’accertamento di una sospetta TRD. Si rivaluta, con occhio critico, la diagnosi formulata in prima istanza analizzando il disturbo psichiatrico primario in un’ottica più ampia per escludere eventuali comorbilità mediche quali ipotiroidismo e anemia. Si analizza la compliance del paziente alla terapia farmacologica, perché la resistenza al trattamento può essere riconducibile alla mancata aderenza del soggetto depresso, per ragioni diverse, al trattamento prescritto (costi, effetti collaterali, disturbi cognitivi). In tale contesto, appare cruciale il ruolo dello specialista chiamato a educare il paziente, che deve coinvolgere il nucleo familiare e rivalutare, laddove si manifestino effetti collaterali, la terapia farmacologica mediante correzione del dosaggio e/o aggiunta di un ulteriore farmaco. Un’attenta valutazione di una sospetta TRD deve, inoltre, soffermarsi sulla cosiddetta farmacocinetica e considerare i possibili effetti di rapidi metabolizzatori in grado di provocare, specie nelle prime fasi del trattamento antidepressivo, effetti avversi. Analogamente, non si possono sottovalutare le ripercussioni della nicotina sul metabolismo dell’AD e le eventuali interazioni tra farmaci, responsabili dell’attivazione e/o inibizione degli enzimi epatici, con potenziale comparsa di effetti indesiderati anche gravi e alterata azione del farmaco. Vi sono, infine, alcuni fattori di rischio associati allo sviluppo di una pseudoresistenza a trattamento, tra cui: familiarità per i disturbi dell’umore, genere femminile, esordio precoce sotto i 30 anni o tardivo sopra i 65 anni della patologia, tipologia, gravità e durata della sintomatologia depressiva, comorbilità psichiatrica, abuso di sostanze, alcol, benzodiazepine, disturbi della personalità, forme ossessivo-compulsive, disturbi d’ansia, della condotta alimentare e medica (ipotiroidismo, morbo di Addison, malattie neurodegenerative, collagenopatie, neoplasie, traumi cranici, infezioni, AIDS).

Le terapie farmacologiche per
la depressione resistente al trattamento

Fatte le opportune valutazioni e riconosciuta la condizione di TRD, inizia il percorso di cura, ma bisogna ricordare al paziente che solo un soggetto depresso su tre raggiunge il traguardo al primo trattamento farmacologico. In questa fase, è opportuno sottolineare come la mancata risposta a un farmaco AD non precluda la possibilità di andare in remissione, come confermato dai risultati dello studio STAR*D8, con trattamenti successivi.

Premesso quanto sopra, il clinico ha a propria disposizione diverse strategie terapeutiche24,48,49 che possono essere così riassunte.

Ottimizzazione: l’incremento del dosaggio fino alla massima dose raccomandata e/o il prolungamento del trattamento anche oltre le 6-8 settimane sembrano essere la soluzione d’elezione laddove vi sia una risposta parziale al trattamento senza effetti collaterali significativi e in soggetti anziani o in persone con comorbilità mediche. In caso di mancata risposta, non sempre l’aumento della dose e il passaggio tra diverse classi di AD hanno mostrato superiorità rispetto alla continuazione del trattamento originale di AD50.

Switching intra-classe o inter-classe: sostituzione del primo farmaco AD con una seconda molecola appartenente alla stessa classe farmacologica (switch intra-classe) o a una classe diversa (switch inter-classe). Consente di non somministrare più farmaci contemporaneamente e possiede vantaggi in termini economici. Non è, però, esente da svantaggi quali: la perdita degli effetti positivi derivanti dall’assunzione del primo farmaco, il ritardo nella risposta terapeutica del paziente e l’indispensabile periodo di cross-titolazione. Alcuni studi indicano che il passaggio da un AD a un altro della stessa classe raramente produce benefici, mentre il passaggio a un AD con un meccanismo d’azione diverso produce un migliore tasso di risposta51. Altri studi evidenziano al contrario che l’aumento della dose e il passaggio tra le diverse classi di AD non comportano una superiorità rispetto alla continuazione del trattamento originale di AD50,52.

Combinazione: aggiunta di un secondo farmaco AD alla terapia già in corso al fine di ottenere una risposta a più ampio spettro da parte del paziente. Si tratta della soluzione di elezione qualora il paziente non risponda a due successivi trial antidepressivi o sia affetto da gravi forme depressive. In tale contesto, appare fondamentale valutare attentamente quali farmaci associare al fine di evitare effetti indesiderati potenzialmente pericolosi53.

Potenziamento: addizione, al trattamento terapeutico in corso, di un farmaco ad azione non direttamente antidepressiva come litio, antipsicotici atipici, tiroxina, dopamino-agonisti e psicostimolanti42,54. Tale soluzione viene adottata in caso di risposta parziale o mancata da parte dei pazienti. Una valutazione obiettiva di suddette strategie è complessa per l’esiguo numero di soggetti trattati e per la scelta soggettiva da parte del clinico dell’agente potenziante.

Nonostante una letteratura scientifica non univoca a riguardo, queste strategie (figura 1) possono seguire linee guida che il clinico può adottare con un certo grado di discrezionalità, oppure essere rappresentate da algoritmi decisionali che sono messi a punto in studi randomizzati controllati su larga scala con punti decisionali alla fine di ogni fase del trattamento e basati su misurazioni standardizzate della risposta clinica55.




Tra i più conosciuti il Texas Medication Algorithm Project (TMAP) sviluppato in Texas, che conduce da 35 anni ricerche con lo scopo di migliorare i risultati clinici sistematizzando le terapie dei disturbi psichiatrici e quelli della depressione. Il TMAP per la depressione prevede in prima battuta l’utilizzo di un AD di seconda generazione in monoterapia; successivamente, in assenza di risposta, il cambio sempre in monoterapia con un altro AD di seconda generazione; alla mancata risposta si prosegue con un altro AD sempre in monoterapia, ma di differente classe farmacologica, proseguendo fino ad aggiungere litio, combinazione di AD, ECT e altre terapie strumentali (figure 2 e 3).

Il German Algorithm Project (GAP) prevede invece un periodo di discontinuazione terapeutica seguito da deprivazione del sonno con poi introduzione di un AD in monoterapia a dosi standard e aumento di quest’ultimo in caso di mancata risposta terapeutica; in successione, aggiunta di litio e altri step previsti dal protocollo.

Nel 2016, Singh et al.56 hanno pubblicato i risultati di uno studio volto a determinare gli effetti dell’esketamina, enantiomero S della ketamina racemica, in soggetti resistenti alle principali terapie antidepressive. Il farmaco appartiene alla categoria degli antagonisti del recettore N-metil-D-aspartato (NMDA) e agisce con un diverso meccanismo d’azione sui circuiti cerebrali del glutammato. Nello studio in doppio cieco condotto su un campione di 30 pazienti vengono somministrate, per via endovenosa e in modo casuale, placebo ed esketamina in concentrazioni pari a 0,2 mg/kg o 0,4 mg/kg. I primi effetti, nei soggetti trattati con esketamina, si registrano a distanza di circa 2 ore, mentre dopo 72 si evidenzia un marcato miglioramento del quadro sintomatologico con irrisori effetti avversi, indipendentemente dal dosaggio, per circa il 60% dei pazienti trattati. L’esketamina è stata approvata dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense per il trattamento della depressione resistente al trattamento57 e recentemente dalla European Medicines Agency (EMA), che ha fornito indicazioni all’utilizzazione, da febbraio 2022 in Italia, di esketamina spray nasale anche nello stato di emergenza negli episodi depressivi. Le potenzialità dell’esketamina come possibile AD sono oggetto di approfondimento di diverse rassegne58,59, ma è bene sottolineare l’esistenza di un possibile conflitto d’interesse perché alcuni consulenti della casa farmaceutica produttrice della ketamina intra-nasale figurano tra gli autori dei lavori. Le revisioni sopra citate non si soffermano, inoltre, adeguatamente sugli effetti legati a un uso cronico del prodotto e non è dunque possibile escludere una sottostima dei rischi di una somministrazione ripetuta atta a conservare l’effetto antidepressivo. L’indicazione di EMA sulla durata del trattamento con esketamina spray nasale prevede nei pazienti di età inferiore a 65 anni (in quelli con più di 65 anni il dosaggio è ridotto) una fase di induzione della risposta da uno a quattro settimane con dosaggio di 56 mg e/o 84 mg due volte a settimana, seguita, con il miglioramento della sintomatologia, da una fase di mantenimento con 56 mg o 84 mg settimanali a cui segue una fase di continuazione per almeno sei mesi con 56 mg o 84 mg ogni due settimane oppure una volta a settimana.




La letteratura dedica anche ampio spazio alla psilocibina, alcaloide vegetale naturale isolato per la prima volta da Albert Hofmann nel 1957 in un fungo appartenente al genere Psilocybe. La psilocibina possiede un’elevata affinità nei confronti dei recettori della serotonina 5-HT1A, 5-HT2A e 5-HT2C siti in diverse aree del cervello (corteccia cerebrale, talamo) e il suo impiego, nella pratica clinica, è oggetto di svariati studi60. Una prima ricerca, condotta da Carhart-Harris et al.61 pubblicata nel 2016, fornisce interessanti informazioni preliminari su sicurezza ed efficacia di terapie a base di psilocibina in soggetti affetti da depressione resistente al trattamento. Lo studio di fattibilità in aperto, condotto su un circoscritto numero di pazienti (12) e senza alcun gruppo di controllo, possiede alcuni limiti e non consente di trarre deduzioni forti circa l’efficacia terapeutica della psilocibina, ma i risultati sembrano essere incoraggianti e meritevoli di ulteriori approfondimenti. Il tasso di risposta all’alcaloide è pari al 67% (8 pazienti) a una settimana dalla somministrazione e 7 soggetti soddisfano i criteri per la remissione. Il 58% dei partecipanti (7 pazienti) conserva, inoltre, la risposta per tre mesi e il 42% (5 pazienti) rimane in remissione.




Una seconda ricerca, pubblicata nell’autunno del 2017, riprende gli effetti derivanti dalla somministrazione di psilocibina a pazienti cui è stata riconosciuta una depressione maggiore resistente al trattamento62; gli stessi partecipanti vengono sottoposti, prima e dopo la somministrazione di psilocibina, a risonanza magnetica funzionale (fMRI) al fine di misurare il flusso ematico cerebrale (CBF) e la connettività cerebrale funzionale a riposo (RSFC). Nei pazienti trattati con psilocibina si osserva un’attenuazione della sintomatologia depressiva a una settimana dal trattamento, mentre il 47% soddisfa i criteri di risposta a cinque settimane. Le neuroimmagini post-trattamento rivelano una diminuzione del CBF in corrispondenza dell’amigdala, dove il ridotto flusso ematico cerebrale sembra essere riconducibile all’attenuazione dei sintomi associati alla depressione. Dall’analisi delle immagini emergono, inoltre, oscillazioni di RSFC predittive di una risposta al trattamento a cinque settimane. Lo studio presentato non è però esente da limiti riconducibili alla scarsa ampiezza del campione osservato e all’assenza di una condizione di controllo.

La platea di pazienti depressi, potenzialmente trattabili con psilocibina, viene successivamente estesa a soggetti colpiti da disturbo depressivo maggiore; gli effetti derivanti dalla somministrazione della molecola sono esposti in uno studio condotto nel 2020 da Davis et al.63. L’azione antidepressiva della psilocibina sembra essere simile a quella della ketamina, ma vi sono alcune differenze nella risposta terapeutica. Gli effetti prodotti dalla ketamina hanno una durata verosimilmente compresa tra pochi giorni e due settimane, mentre i miglioramenti derivanti dalla somministrazione di psilocibina persistono per almeno quattro settimane. La psilocibina crea inoltre irrisoria dipendenza, possiede scarsi effetti indesiderati e il suo potenziale terapeutico è associato a un minore numero di rischi. Alcuni studi inoltre illustrano i benefici duraturi nei pazienti che seguono una psicoterapia assistita da psilocibina64,65. La psilocibina, alla luce dei dati sopra esposti, in considerazione degli scarsi effetti indesiderati e della rapida risposta al trattamento, sembra essere una possibile e valida alternativa agli AD di uso comune che non sono invece esenti da effetti indesiderati e devono essere assunti quotidianamente.

Altre molecole in studio di fase 2 che si prestano a un possibile utilizzo nelle depressioni, anche quelle resistenti, sono: AXS-05 (destrometorfano-bupropione) antagonista del recettore NMDA probabilmente implicato nella neurotrasmissione glutamatergica alterata nel disturbo depressivo maggiore; lo studio ha registrato miglioramenti significativi dei sintomi depressivi rispetto al bupropione da solo ed è stato generalmente ben tollerato66. Sempre ipotizzando un’alterata neurotrasmissione dell’acido γ-aminobutirrico (GABA) nella patogenesi della depressione, è sotto studio lo zuranolone, modulatore allosterico orale positivo dei recettori GABA di tipo A; i risultati dello studio SAGE-217 risultano promettenti e aprono nuovi scenari nella depressione post partum e nelle forme depressive più resistenti67. Tutte queste molecole, superando il modello monoamminergico, consentono di rivedere la fisiopatologia della depressione maggiore in termini più innovativi.

Le terapie strumentali per la depressione resistente al trattamento

La TRD può essere trattata, laddove le altre terapie si rivelino insufficienti, stimolando aree cerebrali mediante applicazione di corrente elettrica o campi magnetici. La stimolazione del nervo vago (vagus nerve stimulation - VNS) è un trattamento approvato dalla FDA, a partire dalla fine degli anni ’90, come potenziale strategia atta a ridurre le crisi comiziali in soggetti affetti da epilessia farmacoresistente. La stimolazione del nervo vagale migliora, come dimostrano diversi studi, la qualità di vita di pazienti epilettici contribuendo a ridurne i sintomi depressivi68; quest’ultimo effetto si evidenzia anche in coloro che non ottengono alcun beneficio dalla VNS in termini di attenuazione delle crisi epilettiche. Tale dissociazione tra effetti anticomiziali e AD apre le porte alla stimolazione del nervo vago come possibile terapia per la depressione resistente al trattamento. Dal 2005, la VNS è approvata dalla FDA come «trattamento aggiuntivo a lungo termine per la Depressione Maggiore Resistente a carattere cronico o ricorrente, in pazienti con almeno 18 anni di età con un episodio depressivo maggiore in corso e che non abbiano ottenuto una risposta adeguata in seguito a 4 o più trattamenti antidepressivi adeguati». Alcuni studi69 suggeriscono che il miglioramento clinico conseguente alla stimolazione del nervo vago aumenti la trasmissione corticale mediale e prefrontale, aree che includono neuroni che rilasciano serotonina e noradrenalina con effetti anticonvulsivanti e antidepressivi, mentre altri70, prendendo in considerazione la teoria della neurogenesi della depressione (che vede nella riduzione della neurogenesi nell’ippocampo indotta dallo stress la causa della depressione), hanno evidenziato l’aumento significativo della proliferazione cellulare nell’ippocampo71 dopo 3 settimane di trattamento. La stimolazione del nervo vago28 viene effettuata impiantando un generatore di impulsi nella parte superiore e sottocutanea dell’emitorace sinistro del paziente, mentre l’elettrodo viene posizionato lungo il nervo vago di sinistra e collegato al generatore, mediante un tunnel sottocutaneo, nel corso di un intervento di neurochirurgia; segue la programmazione dei parametri di stimolazione, in relazione alle necessità del paziente, mediante strumentazione esterna. Nonostante venga presa raramente in considerazione in relazione all’invasività dell’intervento per il posizionamento dell’apparato, uno studio pubblicato nel 2019 da Kucia et al.72 dimostra l’efficacia e la sicurezza della stimolazione del nervo vagale in soggetti affetti da depressione resistente al trattamento: a distanza di un anno dall’inizio della terapia, si osservano i primi miglioramenti con un aumento del tasso di risposta pari all’83% e la sola comparsa di effetti collaterali quali alterazione del tono di voce, mal di gola, mal di testa e mal di schiena28.

La terapia elettroconvulsivante (TEC) nota come elettroshock, introdotta nel 1934 dai due neuropsichiatri italiani Ugo Cerletti e Lucio Bini, si fonda sull’applicazione, mediante elettrodi, di uno stimolo elettrico in grado di indurre una crisi convulsiva in un paziente curarizzato e sottoposto ad anestesia generale. Conduce alla rapida risposta dei soggetti affetti da depressione maggiore e refrattaria73 e, come suggerito nella seconda edizione delle linee guida dell’American Psychiatric Association (APA), la TEC può essere usata nei pazienti resistenti ai trattamenti antidepressivi convenzionali74. I soggetti sottoposti a TEC mostrano eccellenti tassi di risposta e remissione, ma permangono rischi di possibili recidive con la conseguente necessità di re-intervenire tramite nuove sessioni di TEC o la somministrazione combinata di un farmaco. La TEC non è esente da possibili effetti collaterali27 quali cefalea, nausea, emesi, riduzione delle capacità mnemoniche a breve termine e compromissione di altre funzioni cognitive. Un peggioramento di alcuni indici correlati alla memoria verbale viene confermato dallo studio pubblicato nel settembre del 2016 da Rybakowsk et al.75: l’aggiunta di ketamina all’anestetico usato per la TEC migliora l’efficacia antidepressiva della terapia, ma altera le funzioni cognitive del paziente. Negli studi condotti con la sola TEC si è evidenziata ridistribuzione di flusso ematico cerebrale, aumento di Brain Derived Neurotrophic Factor (BDNF)76, aumento del volume ippocampale e/o altre modificazioni strutturali77-79, con una conseguente neuroplasticità stimolata da TEC considerata sempre più elemento di cura per la depressione resistente. Altre ricerche hanno constatato la riduzione di inibizione di popolazioni cellulari noradrenergiche e dopaminergiche del locus coeruleus e della substantia nigra80,81.

La stimolazione cerebrale profonda (deep brain stimulation - DBS) è un procedimento neurochirurgico che, attraverso elettrodi impiantati chirurgicamente all’interno di specifiche aree cerebrali, consente la neuromodulazione mirata su più circuiti cerebrali. La DBS usata nel morbo di Parkinson, nel tremore essenziale e nella distonia, costituisce un nuovo approccio anche per altre condizioni, tra cui il morbo di Alzheimer e la depressione maggiore resistente, in particolare attraverso stimolazione del giro cingolato, capsula ventrale, striato ventrale, nucleo accumbens, abenula laterale, peduncolo talamico inferiore e fascio proencefalo mediale, che sembrano essere i bersagli più rilevanti in questo caso82,83. Studi recenti hanno mostrato che si può ottenere una risposta terapeutica già dopo la prima settimana di stimolazione, incrementando i miglioramenti con i trattamenti fino a 12-33 settimane84.

La stimolazione corticale epidurale (epidural cortical stimulation - ECS) è impiegata per attivare selettivamente la corteccia prefrontale dorsolaterale e frontale in pazienti con TRD; in uno studio in aperto nel 2010, Nahas et al.84 hanno riportato un tasso di risposta del 60% (3 su 5 pazienti) dopo 7 mesi di follow-up; successivamente Kopel et al.85 in uno studio randomizzato con 12 pazienti, in singolo cieco controllato, hanno riportato il 40% di miglioramento in 6 pazienti su 12, il miglioramento del 50% in 5 pazienti su 12 e la remissione in 4 su 12 pazienti 104 settimane dopo la stimolazione84. Williams et al.86, pur descrivendo alcuni eventi avversi tra cui infezione e malfunzionamento del dispositivo, hanno pubblicato 5 anni di dati su 5 pazienti con TRD trattati con ECS riportando tassi di risposta uniformi (41,2-54,9) tra 7 mesi e 5 anni di ECS suggerendo che ECS possa manifestare un’efficacia a lungo termine come trattamento della TRD.

La stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (repetitive transcranial magnetic stimulation - TMSr) è una tecnica sicura e non invasiva attuata attraverso stimolazione elettromagnetica del cervello. L’applicazione clinica approvata dalla FDA fin dal 1987 per il trattamento della depressione resistente è stata sperimentata con stimolazione ad alta frequenza della corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra e a bassa frequenza sulla stessa area a destra: quest’ultima è preferibile per il minor rischio di indurre convulsioni. Il periodo di trattamento influenza in maniera significativa l’efficacia della cura che è stata riportata in letteratura essere di 4-6 settimane di applicazione, tempo minimo necessario per conseguire un risultato significativo. L’azione antidepressiva della metodica è messa in relazione con modificazioni della captazione di glucosio in aree cerebrali specifiche, con il cambiamento del flusso ematico cerebrale e aumento del fattore neurotrofico cerebrale (BDNF)87,88.

La stimolazione transcranica a corrente continua (transcranial Direct Current Stimulation - tDCS) è un metodo promettente per stimolare le funzioni dei sistemi neurali con ripercussioni benefiche sulla cognizione e sul comportamento. Stanno emergendo prove che possono anche influenzare la sintomatologia psichiatrica, inclusa la depressione maggiore e la schizofrenia. Tuttavia, ci sono ancora molte questioni irrisolte su come questa stimolazione porti a un tale effetto89.

Discussione e conclusioni

Nonostante studi e ricerche presi in considerazione in questa rassegna mostrino come nuovi protocolli terapeutici negli ultimi anni siano stati introdotti per la cura della TRD, non esiste allo stato attuale un consenso univoco per spiegarla come un’unica entità, che appare ancora mal delineabile sotto il profilo sintomatologico, psicopatologico oltreché terapeutico. Sono stati proposti criteri multipli per definire/misurare la TRD ma la variabilità di questi modi ha limitato la comparabilità tra gli studi. Dal punto di vista clinico appare più chiara e condivisa la definizione di TRD rilasciata da EMA nelle Europen Medicines Guidelines del maggio 2013 e riproposta nel 2016 (tabella 3). Tuttavia la difficoltà di indagare la depressione resistente a trattamento deriva anche dalla complessità della dimensione psicopatologica della depressione in sé (con le sue ipotesi patogenetiche e i meccanismi d’azione dei trattamenti antidepressivi), declinata in numerosi quadri sindromici (nel solo disturbo depressivo maggiore, si individuano 52 sintomi identificabili attraverso scale psicometriche che concorrono alla sua diagnosi)90, il sistema categoriale del DSM-5 consente ipoteticamente l’identificazione di 227 profili depressivi. Se si prendono in considerazione differenze di sonno, appetito e attivazione psicomotoria, se ne trovano addirittura 945 univoci91; inoltre non è solo la sintomatologia depressiva che è presa in considerazione, ma anche la risposta funzionale del paziente (oggigiorno opportunamente tenuta più in considerazione). Nel corso del tempo si è passati dal concepire la depressione, dall’accezione classica, avente come core centrale: un disturbo della volontà, della psicomotricità, del pensiero e dell’affettività, insieme a un corteo di disturbi correlati (dell’umore, del ritmo circadiano, dell’ideazione, del comportamento, della cenestesi, del sonno, dell’appetito e della sessualità); a una depressione intesa prevalentemente come disturbo dell’umore e anedonia come elementi centrali e correlati disturbi cognitivi, psicomotori, vegetativi e di compromissione funzionale personale (disturbo depressivo maggiore secondo DSM-III, 1980). In questa “semplificazione” sono confluiti disturbi che probabilmente avrebbero potuto seguire altre traiettorie diagnostiche. Ripensare alla depressione maggiore in termini clinici, psicopatologici e terapeutici a partire dal 1980 comporta comprimere in una sola categoria forme e disturbi tra loro indubbiamente diversi e non tutti in grado di rispondere univocamente a terapie farmacologiche antidepressive. Così concettualizzata la depressione maggiore diviene un contenitore per un elevato numero di forme depressive attenuate, atipiche, reattive, caratteriali e nevrotiche. Di conseguenza, come riportato nell’introduzione del presente lavoro, permane un certo grado di incertezza della definizione precisa di TRD che rappresenta uno stato clinico eterogeneo con probabili meccanismi causali multipli; a ciò si aggiunge anche un cambiamento della concettualizzazione di risposta a trattamento non più solo intesa come riduzione del ≥50% della gravità della sintomatologia. Il significato assunto dagli anni 2000 è passato da semplice riduzione dei sintomi clinicamente significativa, a considerare la risposta terapeutica come una remissione sub totale della sintomatologia con in aggiunta una recovery da parte del paziente caratterizzata dal recupero di sentimenti, funzionalità, abilità, ruoli sociali e fiducia in sé stessi (in effetti, la maggior parte dei pazienti considerati “in remissione” non raggiunge effettivamente la risoluzione completa di tutti i sintomi anche dopo più fasi del trattamento). Nella TRD molte definizioni hanno un approccio dimensionale (stadiazione) che tengono in considerazione il numero di trattamenti (trattamento farmacologico o elettroconvulsivo), la loro durata e modalità nonché la gravità sintomatologica. Il peso assegnato a diverse modalità di trattamento (per es., triciclici vs SSRI o AD vs trattamento elettroconvulsivo) è per lo più arbitrario e la maggior parte delle classificazioni non contempla l’intervento delle psicoterapie; inoltre non sono affrontate comorbilità, disturbi di personalità e possibili fattori contestuali di mantenimento91. Rimane sempre aperta l’ipotesi, ricercata da alcuni92,93 esclusa da altri94,95, di una diatesi bipolare non individuata della TRD, associata non solo a una minore risposta agli AD, ma anche alla probabilità di ridotta risposta a un secondo farmaco, che, fallito il primo, tende a ridursi con il susseguirsi dei tentativi farmacologici, verso un plateau precoce di refractoriness (refrattarietà a trattamento).

Preso atto della definizione più recente di TRD, suggeriamo che questa possa essere adottata uniformemente in tutti gli studi e le ricerche al fine di fornire informazioni uniformi e confrontabili, creando protocolli terapeutici specifici di trattamento. A nostro avviso le future ricerche dovrebbero concentrarsi non solo sulle terapie farmacologiche che si stanno dimostrando promettenti nella loro efficacia, ma anche su quelle strumentali più recenti che si sono mostrate altrettanto efficaci, identificando inoltre, in associazione, trattamenti psicoterapici centrati sulla persona – come osservazioni più recenti riportano96 –, in modo tale da fornire dati certi su benefici, rischi e costi relativi alla terapia della depressione resistente.

Conflitto di interessi: Antonio Sciarretta ha collaborato come speaker in congressi per Italfarmaco; gli altri autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

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