Hikikomori: la sofferenza silenziosa dei giovani


Hikikomori: the silent suffering among young people


RITA CERUTTI1*, VALENTINA SPENSIERI1, VALERIO DAVIDE SIRACUSA1, FRANCESCO GAZZILLO1, SIMONE AMENDOLA1

*E-mail: rita.cerutti@uniroma1.it


1Dipartimento di Psicologia Dinamica, Clinica e Salute, Sapienza Università di Roma


RIASSUNTO. Il termine giapponese hikikomori è usato per descrivere i giovani che vivono una condizione caratterizzata da isolamento e ritiro sociale per un prolungato periodo di tempo. È un fenomeno particolarmente diffuso in Giappone, soprattutto tra adolescenti e giovani adulti, ed è oggetto di attenzione crescente da parte dei professionisti della salute mentale di molti altri Paesi, tra cui l’Italia. Lo scopo del presente lavoro è quello di approfondire il costrutto di hikikomori inquadrandolo all’interno del contesto socioculturale di riferimento, analizzando contemporaneamente gli aspetti epidemiologici, i fattori di rischio e le caratteristiche cliniche. Inoltre, vengono discussi alcuni modelli teorici che consentono possibili interpretazioni di tale condizione che caratterizza i giovani che veicolano sempre più silenziosamente la loro sofferenza. Pur fornendo una lettura piuttosto articolata del fenomeno, si sottolinea la mancanza di una chiara definizione che possa inquadrarlo al fine di pianificare interventi preventivi.


PAROLE CHIAVE: hikikomori, ritiro sociale, autoreclusione, isolamento, adolescenti.



SUMMARY. The Japanese term hikikomori is used to describe young people who lives a condition characterized by social withdrawal and isolation for an extended period of time. It is a particularly widespread phenomenon in Japan, in particular among adolescents and adults, and it represented the focus of an increasing attention from mental health professionals in many other countries, including Italy. The aim of this paper review is to explore the concept of hikikomori within Japanese sociocultural context, epidemiological aspects, risk factors clinical characteristics. Moreover, some theoretical models are discussed which allow possible interpretations of this condition which characterizes young people who convey their suffering more and more silently. A detailed review of the phenomenon is given considering the lack of a clear definition of the hikikomori that doesn’t allow to plan preventive interventions.


KEY WORDS: hikikomori, social withdrawal, self-reclusion, isolation, adolescents.


INTRODUZIONE

«Un pomeriggio parlo con Jun nella sala ricreativa di una clinica alla periferia di Tokyo, dove gli “hikikomori” vengono a passare del tempo insieme […]. Jun mi colpisce perché è particolarmente consapevole di se stesso. È calmo e loquace e parla con disinvoltura. […] Diciottenne, volendo studiare filosofia, fa il test di ammissione in un’importante università pubblica, ma non ottiene un buon risultato […]. Essendo stato bocciato al test d’ingresso, studia da solo per un anno intero per poi tentare nuovamente. […] Poi, però, perde la determinazione […]. Alla fine, si è chiesto: “Perché mai dovrei studiare così tanto per passare questo esame di ammissione? Io non volevo studiare per l’esame, io volevo solo mettermi a sedere e leggere filosofia, stare per conto mio, prendere un libro e leggere da solo. Se era questo che volevo fare, dovevo soltanto farlo […]”. Come il tipico giovane giapponese, Jun vive in una casa piccola, con i suoi genitori, entrambi agopuntori con orari di lavoro molto duri. Le stanze strette e la mancanza di intimità esasperano i rapporti già tesi. “Quando ero a casa non riuscivo a rilassarmi, e i miei genitori erano sempre tremendamente nervosi. Non sono mai andato tanto d’accordo con loro. La nostra era una famiglia assai rigida, e i miei genitori non sono mai riusciti ad andare d’accordo né tra loro né con me. […] Sentivo di avere qualche problema dentro di me, ma non sapevo cosa fosse. Mi rendevo conto che anche la mia famiglia aveva dei problemi, ma anche qui non sapevo di cosa si trattasse. […] Adesso mi rendo conto che a casa mancava l’intimità […]”. Jun si chiude in casa, barricandosi in camera per non vedere i suoi genitori, senza uscire mai. La cena gli viene messa su un vassoio e lasciata fuori dalla porta della stanza. Comincia a invertire il giorno e la notte […]. “Pensavo di essere in grado di uscire in qualsiasi momento, ma la realtà era che alla fine non lo facevo. Sapevo che se fossi uscito anche solo un momento, i vicini mi avrebbero visto e si sarebbero chiesti come mai un ragazzo di quell’età non lavorasse. Alcuni sapevano che mi ero fatto vedere da uno psichiatra, quindi probabilmente pensavano che fossi matto […]. Ogni volta che cercavo di uscire, i vicini si rifiutavano di guardarmi”. Una volta Jun prova a convincere i genitori ad andare insieme da uno psicoterapeuta familiare. Il padre rifiuta in modo irremovibile. La madre accetta, […] ma abbandona la psicoterapia dopo il primo colloquio. […] “A quel punto mi sono reso conto che non c’era nient’altro da fare per mia madre. Sapeva che le cose andavano male, ma non riusciva a capire perché o a gestire la situazione”. Sentendosi impotente e incapace, […] Jun cerca di creare delle vie di fuga alternative. […] Chiede ai genitori di mandarlo in campagna. Arriva così nella città settentrionale di Sendai, dove riesce a mantenere per un breve periodo di tempo un lavoro part-time e fa amicizia con il proprietario di una sala da tè. L’uomo invita Jun ad accompagnarlo in un viaggio di quattro mesi in India. […] “Le città erano in fermento e la gente non dava per forza l’impressione di essere ricca o di seguire la moda, a differenza di Tokyo. Eppure, erano tutti così indaffarati ed energici!”. […] Jun ritorna dalla sua avventura all’estero con una nuova determinazione e decide di andare via dalla casa dei suoi genitori. Un altro passo in avanti è l’iscrizione al programma terapeutico della clinica. […] Dopo essersi chiuso per anni nella sua stanza, sta cercando pian piano di liberarsi: esce di casa per farsi visitare da uno psicoterapeuta e cerca di socializzare con gli altri ragazzi della clinica».


Quella riportata è una delle testimonianze dirette raccolte da Michael Zielenziger in “Non voglio più vivere alla luce del sole”1, uno tra i primi testi ad aver reso noto ai lettori occidentali il fenomeno hikikomori.

HIKIKOMORI: NUOVA FORMA DI RITIRO SOCIALE E (AUTO)RECLUSIONE

L’hikikomori rappresenta una grave forma di ritiro sociale, diffusa tra i giovani ed è attualmente oggetto di allarme e preoccupazione nelle società urbanizzate e tecnologicamente avanzate2-4. Hikikomori deriva dai verbi giapponesi hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi) e porta l’attenzione sull’aspetto principale del fenomeno, ovvero il ritiro e l’isolamento dell’individuo dalle relazioni sociali. Il termine può riferirsi sia a colui che ne è afflitto sia alla condizione stessa, vale a dire un comportamento sociale singolare che consiste in un’autoresclusione volontaria. Il primo studio, che ha suggerito l’esistenza di una nuova condizione caratterizzata da ritiro sociale, risale alla fine degli anni ’705, quando alcuni professionisti della salute mentale giapponese avevano riportato casi di taikyaku shinkeishou (nevrosi da ritiro). Tuttavia, è alla fine degli anni ’80 che il termine hikikomori inizia a essere utilizzato per indicare giovani che si confinano nella propria stanza, rinunciando alle relazioni interpersonali per un periodo prolungato di tempo, della durata di almeno sei mesi in assenza di altri disturbi psichiatrici che spieghino il sintomo principale di ritiro6. L’area confuciana è quella maggiormente coinvolta e la diffusione del fenomeno è esponenzialmente aumentata negli ultimi due decenni anche tra gli adolescenti. Teo7, nel definire l’hikikomori, richiama il mito della dea del sole Amaterasu che, in segno di protesta, si chiuse in una grotta bloccando l’entrata con una roccia gigante. Come sostiene l’autore, il fenomeno riguarda giovani e adulti che si «sigillano nella propria grotta virtuale».

Il Ministero della Salute, del Lavoro e del Welfare del Giappone8 ha stabilito cinque criteri per la definizione dell’hikikomori: 1) stile di vita centrato sul restare chiuso in casa; 2) mancanza di interesse e volontà a frequentare la scuola o a lavorare; 3) persistenza dei sintomi oltre i 6 mesi; 4); esclusione di disturbo dello spettro della schizofrenia, di disabilità intellettiva o altri disturbi mentali 5) esclusione di coloro che, pur non mostrando interesse per la scuola o il lavoro, mantengono relazioni interpersonali.

Sebbene tali condizioni siano state riscontrate prevalentemente all’interno dei confini nipponici, la letteratura scientifica riporta casi anche in Spagna, Oman, Stati Uniti, Italia e in altre nazioni9-14. La Corea del Sud segue il Giappone per numero di autoreclusi15 e diversi sono gli autori che sottolineano che si tratti di un fenomeno osservabile non solo nelle culture orientali, ma anche nel mondo occidentale16,17. Negli ultimi anni anche in Italia l’hikikomori ha attirato l’attenzione dei clinici e dei ricercatori13-15,18-24. Nello specifico, l’interesse è rivolto al comportamento di ritiro sociale messo in atto da adolescenti, prevalentemente maschi, che si allontanano dai contesti generalmente frequentati da altre persone e/o coetanei, come la scuola e il luogo di lavoro, riducendo progressivamente i contatti con il mondo esterno.

In considerazione dell’espansione del fenomeno, è importante ampliare le conoscenze sia in ambito clinico sia di ricerca al fine di favorire la comunicazione tra professionisti di discipline diverse (psichiatri, psicologi, antropologi, sociologi) e la trasmissione delle corrette informazioni a genitori e insegnanti.

Nel presente lavoro sono stati presi in considerazione i dati che provengono principalmente dalla letteratura giapponese che descrivono le caratteristiche della popolazione hikikomori. Dagli studi considerati si osserva una scarsa chiarezza in merito a stime attendibili, fattori di rischio e aspetti diagnostici, che rendono complessa una chiara delimitazione del fenomeno. Uno dei principali ostacoli per una comprensione condivisa dell’hikikomori è rappresentato dall’eterogeneità dei giovani che decidono di ritirarsi dalle relazioni e dai contesti sociali. Possono prevalere, infatti, diverse forme e modalità di ritiro sociale, accompagnate da differenti motivazioni. Di conseguenza, a oggi, non vi è né consenso sulla definizione di hikikomori né criteri diagnostici condivisi riferibili a coloro che lo mettono in atto16,25,26.

EPIDEMIOLOGIA E FATTORI DI RISCHIO DELL’HIKIKOMORI

Le stime relative al numero di autoreclusi presenti entro i confini giapponesi non sono numerose e le percentuali variano in base ai diversi studi14,27. Nello specifico, in un lavoro di rassegna Kiyota et al.28 riportano tre studi che hanno coinvolto all’incirca 3951 soggetti appartenenti alla popolazione generale di 12 città del Giappone. In questi studi la percentuale di coloro che aveva dichiarato di essere hikikomori o di esserlo stato oscillava tra lo 0,9% e il 3,8%. In un altro studio epidemiologico Koyama et al.29 hanno rilevato che l’1,2% di adulti giapponesi d’età compresa tra 20 e 49 anni aveva sperimentato un comportamento grave di autoreclusione di durata superiore ai sei mesi e, nella metà dei casi, era assente una diagnosi psichiatrica in comorbilità secondo i criteri del DSM-IV-TR. Furlong25 ha riportato i risultati inerenti un’indagine effettuata su più di 1600 nuclei familiari, residenti in tre grandi città giapponesi, individuando 14 casi di hikikomori. Tale dato, se esteso all’intera popolazione nipponica, potrebbe indicare un tasso di prevalenza dello 0,32%25. Nel 2016, il Cabinet Office of Japan ha pubblicato i risultati di un’indagine epidemiologica sull’hikikomori a cui hanno partecipato soggetti di età compresa tra 15 e 39 anni30. Il 62% (n=3104) dei questionari distribuiti è stato considerato valido e incluso nelle analisi statistiche. Sono stati identificati 49 hikikomori secondo i criteri utilizzati dagli autori dello studio, ovvero, l’1,6% del campione analizzato. Pertanto, è stato stimato che il numero di hikikomori, a livello nazionale e per la fascia di età considerata, sia di circa 541.00030. Inoltre, nella popolazione giapponese di età compresa tra 40 e 64 anni, il numero di hikikomori stimato è stato di 613.00031, tuttavia non vi sono al momento pubblicazioni scientifiche al riguardo (in lingue diverse dal giapponese). I risultati di questi due studi, se considerati insieme, mettono in evidenza come le stime del governo giapponese superino 1.000.000 di casi.

In uno studio successivo, invece, è stato evidenziato che approssimativamente l’1,9% dei giovani di Hong Kong risultava socialmente ritirato4. Un’ulteriore indagine coreana32 ha messo in luce che il 2,3% degli studenti di scuola superiore presentava ritiro sociale.

Per quanto riguarda la prevalenza di genere, l’hikikomori appare più frequente nei maschi rispetto alle femmine, con rapporto 4:133; tuttavia, i dati di uno studio effettuato via web hanno rilevato che solo il 53% degli autoreclusi è di genere maschile25. Tale stima non risulta in linea con quelle ricerche che evidenziano una più elevata incidenza dell’hikikomori nel genere maschile1,19,20,30,31.

Sempre in Giappone, l’età media di esordio per l’hikikomori è di circa 22 anni. Tuttavia, si osserva che il maggior numero di casi (37,4%) si registra nella fascia tra 15 e 19 anni e tra i 10 e i 14 anni (20,1%)29. Uno studio su un campione spagnolo rileva, invece, un’età media di esordio di 40 anni32. Tale discrepanza potrebbe essere spiegata dalle differenze culturali nei diversi contesti in cui l’hikikomori è stato studiato. La differenza tra i risultati dei due studi effettuati in Giappone29 e Spagna34 evidenzia la necessità di approfondire le conoscenze sul fenomeno in Europa al fine di rintracciare eventuali peculiarità epidemiologiche e cliniche rispetto al contesto asiatico

L’hikikomori si riscontra con più frequenza nelle aree urbane17 e, per quanto concerne il contesto giapponese, in famiglie svantaggiate socio-economicamente35. I dati di ricerca evidenziano che chi pratica l’hikikomori è generalmente figlio unico con genitori entrambi laureati23. Umeda et al.35 hanno osservato che un elevato livello di istruzione paterno e/o materno risulta significativamente associato a un rischio più elevato di hikikomori nella prole. Secondo gli autori, una possibile spiegazione per questi risultati potrebbe essere legata al fatto che genitori più istruiti hanno un migliore salario e, quindi, possono affrontare la spesa aggiuntiva causata dalla mancanza di occupazione del figlio. Inoltre, le aspettative elevate nei confronti del figlio potrebbero incrementare un’attitudine ottimistica e dipendente, che porterebbe all’evitamento dei conflitti interpersonali e fallimenti nelle interazioni sociali35. Tuttavia, né la povertà durante l’infanzia, né lo stile genitoriale risultavano essere associati a hikikomori nello studio citato.

La figura paterna risulta spesso poco presente a causa di ritmi lavorativi intensi e dello scarso investimento emotivo1,19,20,22. La presenza in famiglia di un genitore, generalmente la madre, con una storia clinica caratterizzata da disturbi mentali, è positivamente correlata con lo sviluppo dell’autoreclusione da parte dei figli35. In presenza di diagnosi di disturbi psichiatrici o di personalità associate all’hikikomori, il livello di istruzione del padre diventa il fattore di rischio maggiore, mentre diminuisce la rilevanza del disturbo mentale e del livello di istruzione della madre35. Il funzionamento familiare, in termini di responsività affettiva, problem solving e comunicazione, è carente nei nuclei in cui sono presenti soggetti autoreclusi5. Nella storia del soggetto hikikomori si rileva spesso un’infanzia traumatica con esperienze di abuso20. Difficoltà scolastiche, prolungate e ingiustificate assenze da scuola rappresentano la prima manifestazione di comportamenti di ritiro, osservate nel 69% dei casi6. Infatti, come rilevato dall’indagine del Cabinet Office of Japan30, il gruppo hikikomori riferiva una maggiore prevalenza di abbandono scolastico rispetto al gruppo di partecipanti che non aveva riferito comportamenti di ritiro (24% e 3%, rispettivamente). Inoltre, è stata osservata una minore prevalenza di individui che avevano terminato gli studi o che erano impegnati nello studio nel gruppo hikikomori (63% e 10%, rispettivamente) rispetto al gruppo di partecipanti che non aveva riferito comportamenti di ritiro (72% e 24%, rispettivamente).

QUALE AUTORECLUSIONE?

Come sottolineano diversi autori1,16,19,20,25,36,37, l’autoreclusione assume forme differenti: alcune persone si ritirano a casa o nella propria stanza; altre escono dalla propria abitazione unicamente di notte per evitare contatti con i vicini oppure escono da soli senza allontanarsi dal proprio quartiere. La maggior parte del tempo viene trascorso leggendo, giocando ai videogiochi, ascoltando musica, dormendo e guardando film o serie televisive. Nei casi più estremi, chi pratica l’hikikomori si ritira nella propria stanza e sigilla le finestre con carta e nastro adesivo, impedendo l’accesso anche ai familiari. Il quadro è ancora più drammatico se si pensa che i giovani che praticano l’hikikomori possono agire violenza all’interno dell’ambiente domestico, in cui la vittima principale è, frequentemente, la madre22.

Talvolta, chi non vuole o non riesce a comunicare con il mondo esterno utilizza internet come strumento di contatto con gli altri garantendosi privacy e anonimato, al fine di instaurare rapporti virtuali, anche intimi, con persone conosciute esclusivamente via web16. Viene osservato, comunque, che solo una minoranza di soggetti socialmente ritirati utilizza internet per entrare in contatto con gli altri, mentre nei casi più gravi gli strumenti tecnologici non vengono impiegati con finalità relazionali37. Rispetto al contesto italiano, l’esperienza di alcuni clinici sembra suggerire un uso simile della rete38.

È possibile riscontrare alcuni punti di contatto tra l’hikikomori e l’Internet Addiction, sebbene le due condizioni non siano sovrapponibili1,25,39. Alcuni studi, infatti, evidenziano che solo una percentuale di soggetti hikikomori compresa tra il 10% e il 20% fa un uso problematico di internet1,25. In linea con tali dati di ricerca, Suwa e Suzuki40 sottolineano che il fenomeno hikikomori è apparso prima di internet, il cui utilizzo nel 2001 riguardava soltanto il 60% della popolazione nipponica.

HIKIKOMORI: SINTOMO O SINDROME?

Per comprendere se l’hikikomori può essere considerato una condizione psichiatrica, i ricercatori hanno proposto di suddividere il fenomeno in due possibili tipologie: hikikomori primario e secondario17,35.

L’hikikomori primario non è associato ad alcun disturbo psichiatrico, mentre l’hikikomori secondario può essere associato ai disturbi psichiatrici attualmente riconosciuti. I vantaggi nel categorizzare casi come hikikomori secondario riguardano la possibilità di utilizzare le diagnosi psichiatriche riconosciute e, dunque, individuare un trattamento appropriato16. Tuttavia, vi è ancora incertezza in merito a quali potrebbero essere i disturbi psichiatrici da considerare per escludere una diagnosi primaria di hikikomori26.

L’espressione hikikomori primario41 suggerisce, da una parte, l’assenza di relazione con i disturbi psichiatrici, dall’altra sottolinea come, in realtà, esso possa considerarsi il risultato di un fenomeno psicologico e sociale che implica l’interazione di una serie di fattori, tra cui alcuni caratteristici dell’età adolescenziale inclusi i rapidi cambiamenti familiari e sociali2. Al contrario, altri studi34,40,42 riportano che la maggior parte delle persone ritirate socialmente che si sono rivolte ai centri di salute mentale presentavano almeno un disturbo psichiatrico, tra cui fobia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo, schizofrenia, disturbo pervasivo dello sviluppo, disturbo da somatizzazione, depressione, ADHD, disturbi d’ansia e disturbi di personalità.

Secondo uno studio del Ministero della Salute, del Lavoro e del Welfare giapponese8 vi è un tasso di comorbilità che oscilla tra il 33% e il 36%. Watabe et al.43 hanno, invece, preso in esame soggetti di età inferiore ai 21 anni con esperienza passata o attuale di hikikomori. In base al DSM-IV-TR, le sei diagnosi più frequenti sono risultate le seguenti: disturbo pervasivo dello sviluppo (31%), disturbo d’ansia generalizzato (10%), disturbo distimico (10%), disturbo dell’adattamento (9%), disturbo ossessivo-compulsivo (9%) e schizofrenia (9%). In un altro studio44 condotto con individui di età compresa tra i 16 e 35 anni e un esordio di hikikomori prima dei 30 anni venivano riportati tassi differenti. Nello specifico, il 55% dei 181 soggetti esaminati aveva ricevuto una diagnosi di un altro disturbo psichiatrico: disturbo d’ansia (26%), disturbo di personalità (23%), schizofrenia (8%), disturbo dell’umore (8%), disturbo dell’adattamento (7%). Infine, il 28% aveva presentato un disturbo mentale durante l’infanzia o l’adolescenza.

Tale dato è stato confermato da un ulteriore studio29 che ha rilevato nel 54,5% dei casi hikikomori esaminati un disturbo mentale nel corso della vita.

Ricerche più recenti in ambito europeo34 hanno evidenziato un’associazione tra la condizione di ritiro sociale che porta i giovani a rinchiudersi nelle proprie stanze, bloccando ogni genere di contatto con il mondo esterno, respingendo ogni opportunità relazionale, e le dimensioni di personalità associate ai tratti schizoidi ed evitanti. Questi ultimi potrebbero portare l’individuo a difendersi dalle situazioni potenzialmente minacciose che aumenterebbe i livelli di ansia e il dolore emotivo tramite il ritiro.

Tuttavia, va sottolineato che alcuni di questi studi45 sono stati condotti su soggetti che si sono rivolti a centri di salute mentale, pubblici o privati, per cui la stima della copresenza di hikikomori e altri disturbi psichiatrici potrebbe non essere del tutto rappresentativa. Si sottolinea la necessità di studi ulteriori su popolazioni differenti di adolescenti e non esclusivamente in pazienti psichiatrici.

LA PROPOSTA DIAGNOSTICA DI ALAN R. TEO E ALBERT C. GAW

Nel corso degli ultimi anni sono emersi alcuni interrogativi in merito all’hikikomori. Ci si è chiesti, per esempio, se esso sia una sindrome associata a un’altra specifica diagnosi psichiatrica o sia una diagnosi a sé stante9 o possa considerarsi un fenomeno culturale che caratterizza esclusivamente il contesto giapponese7,9,12,15,17,25,26,29. Per Teo e Gaw 27, è possibile parlare di culture-bound syndrome per tutti quei casi di hikikomori che non rientrano all’interno di una categoria diagnostica del DSM-IV-TR, definendoli come «un pattern ricorrente di comportamenti aberranti ed esperienze problematiche specifico di un luogo»46.

A vantaggio della loro tesi, Teo e Gaw27 riportavano i dati relativi a un’altra sindrome culturale giapponese, già riconosciuta dal DSM-IV-TR: la taijin kyofusho. Quest’ultima è stata definita una patologica amplificazione di alcune preoccupazioni culturali specifiche riguardo la presentazione sociale di sé e l’impatto che alcune condotte improprie possono avere sul benessere degli altri47. Teo e Gaw27 hanno definito in modo simile l’hikikomori come un’aumentata preoccupazione culturale specifica dell’individuo nel contesto giapponese riguardo la qualità e la quantità delle proprie interazioni sociali. La vergogna e l’ansia sociale sembrano interpretabili come caratteristiche comuni di entrambe le sindromi27,47. Gli autori27 hanno messo in luce, inoltre, l’esistenza di un sottogruppo di individui hikikomori che vivono una condizione di isolamento sociale ma senza presentare altri disturbi psicopatologici. Di conseguenza, ciò suggerirebbe l’esistenza di una forma primaria di hikikomori per la cui diagnosi sono stati proposti 6 criteri principali (Tabella 1).




L’obiettivo dei due autori27 è teso a promuovere il riconoscimento dell’hikikomori come categoria diagnostica a se stante, nonostante permangono alcuni interrogativi in merito alla diagnosi e al trattamento di tale condizione nelle sue forme primaria e secondaria.

Allo stato attuale, sono pochi i tentativi di integrare i dati delle ricerche, le teorie psicologiche e le ipotesi proposte da studiosi di discipline diverse in merito alla possibilità di una definizione di hikikomori stabile e immutabile.

AMAE E INFANT RESEARCH

Un costrutto indispensabile per lo studio dell’hikikomori è quello di amae, sviluppato da Takeo Doi in “Anatomia della dipendenza”48. Il termine, che trova un corrispettivo nella letteratura psicoanalitica occidentale nel costrutto di “amore oggettuale passivo” di Balint49, è in parte traducibile con “dipendenza” o “indulgenza” e viene utilizzato per rintracciare un continuum tra la percezione della realtà sociale e la struttura familiare. Come scrive Moretti22, nella società giapponese viene incoraggiata sin dalla nascita la dipendenza dall’altrui benevolenza, ma soprattutto viene favorito un atteggiamento di orientamento al gruppo in cui la relazione tra gli individui ha priorità rispetto all’individuazione e allo sviluppo del sé. La parola amae può essere impiegata, però, per descrivere il rapporto tra madre e bambino. L’atteggiamento materno giapponese è infatti di completa dedizione48.

Doi ritiene che questa tipologia di rapporto tenda a riprodursi anche in età adulta e a evolvere in un sentimento di obbligo morale in rapporto ad aspettative e ruoli da assumere. Secondo Moretti, «l’imperativo di una vita armonica, nella cultura nipponica, è il desiderio della dipendenza dall’altro. […] Dipendenza e conformismo sono, quindi, intesi come una forza unificatrice del gruppo che tende verso l’armonia»22. Se non si riesce a tollerare la pressione e la richiesta di efficienza, se si tradisce lo spirito di gruppo, si finisce per provare intensi sentimenti di colpa e vergogna.

In linea con Moretti, Okano50 descrive quella nipponica come una cultura pseudo-sociofobica perché tanti fenomeni che sono considerati appropriati nella società giapponese sono fenomenologicamente isomorfi a forme sub-cliniche dei sintomi social-fobici. Ciò che viene esaltato non è solo il sentimento della vergogna, ma la vulnerabilità a essa nonché l’espressività e i comportamenti correlati, spesso manifestati anche quando non viene provata vergogna. Con riferimento alla teoria di Lichtenberg51,52, il sistema motivazionale dominante nella cultura orientale sarebbe dunque quello affiliativo. Pertanto, la motivazione all’assertività risulterebbe sussidiaria al sistema affiliativo, così che un eventuale conflitto tra le due motivazioni, quella affiliativa e quella assertiva, non potrebbe che esitare, per la maggior parte degli individui e delle situazioni, a favore della prima. Lichtenberg considera l’avversione un sistema di segnalazione significativo per il successo della regolazione nei sistemi motivazionali delle esigenze fisiologiche, di attaccamento, esplorativo-assertivo, e sensuale-sessuale. Nel caso in cui l’attività di qualsiasi motivazione risulti bloccata dall’induzione di colpa e vergogna eccessive, in condizione di grave punizione, può dare luogo a comportamenti e atteggiamenti di ritiro. L’autore ritiene che, per il normale sviluppo del sistema motivazionale avversivo del bambino, chi si prende cura di lui deve sospendere “empaticamente” l’empatia rendendo possibile il confronto anche attraverso contrasti. In considerazione delle specificità del contesto socioculturale giapponese, è possibile che il comportamento di ritiro sia l’esito di un conflitto che riguarda il dover scegliere tra i comportamenti legati alla soddisfazione di un desiderio (esplorazione dell’ambiente in modo assertivo e maturo, attaccamento ai pari e ricerca di un partner) e il mantenere un legame privilegiato con i genitori e la collettività (amae). Questa risposta avversiva, se protratta nel tempo, potrebbe costituire un’apparente soluzione nella gestione di conflitti e controversie legate al processo di maturazione e costruzione dell’identità. Infatti, gli stati affettivi di paura, disgusto e vergogna, attivano il ritiro da situazioni percepite come pericolose51.

ATTACCAMENTO E CULTURE

Le differenze tra culture sono state evidenziate dai risultati di alcuni studi che hanno preso in considerazione le tipologie di attaccamento. La somministrazione dei test della “Strange Situation” in campioni giapponesi ha permesso di osservare differenze significative nella distribuzione degli stili di attaccamento rispetto a campioni occidentali53. I bambini giapponesi hanno riportato una percentuale maggiore di attaccamento ambivalente rispetto a quello sicuro, interpretabile come risposta adattiva del bambino a modalità di cura che privilegiano la dipendenza emotiva dalla madre, anche attraverso il continuo contatto fisico e una comunicazione maggiormente focalizzata sugli stati emotivi54. La più elevata prevalenza di un attaccamento di tipo ambivalente sarebbe spiegabile ipotizzando che alla base ci sia un caregiver presente secondo modalità che orientano la regolazione attesa55 sul versante etero- più che su quello auto-regolativo.

È possibile ipotizzare che l’attaccamento ambivalente si riveli più adattivo in un ambiente familiare e/o socioculturale fondato su rapporti di dipendenza, condizionando la caratterizzazione delle relazioni interpersonali future.

Rothbaum et al.54 hanno affermato che per indagare il costrutto di attaccamento si utilizzano strumenti che risentono delle influenze occidentali poiché danno maggiore rilevanza ad aspetti quali l’autonomia, l’individuazione e l’esplorazione. In Giappone, questi stessi costrutti vengono considerati in modo diverso. Secondo gli autori occorre perciò porre attenzione all’universalità degli assunti della teoria dell’attaccamento. Rothbaum et al.54 non hanno negato la predisposizione biologico-evolutiva alla base dell’attaccamento, piuttosto hanno notato che biologia e cultura sono aspetti interconnessi e che insieme costituiscono l’ambiente entro cui l’individuo cresce. Nello specifico, la sensibilità e la responsività materna, probabilmente, riflettono valori e obiettivi di origine culturale. È stato osservato, infatti, che i genitori giapponesi preferiscono anticipare i bisogni dei loro bambini anziché aspettare che sia il bambino stesso a comunicare i propri bisogni prima di prendere iniziative48,56. Le diverse espressioni di sensibilità e responsività hanno suggerito che, per i caregiver nipponici, la responsività ha più a che fare con la vicinanza emotiva laddove, per i caregiver statunitensi, essa si riflette nell’incontro con il bisogno del bambino di realizzare i propri desideri rispettando, dove possibile, i suoi sforzi autonomi in direzione dell’appagamento57.

MODELLI PSICOLOGICI A CONFRONTO

Alla luce di quanto finora esposto, per comprendere il fenomeno dell’hikikomori si potrebbe ipotizzare che l’insieme delle pratiche educative trasmesse e diffuse nel sistema culturale giapponese, rivelatosi finora funzionale all’adattamento, rischia di facilitare la diffusione dell’autoreclusione. Quanto evidenziato nei precedenti paragrafi, rispetto al rapporto madre-figlio caratteristico della cultura nipponica e alla relazione di attaccamento, acquista maggiore rilevanza se considerato contestualmente ai processi di industrializzazione, al cambiamento degli stili di vita e alla progressiva apertura all’occidente. Per esempio, Furlong25 fornisce dati e indicazioni sull’impatto che il cambiamento nel mercato del lavoro ha avuto negli ultimi anni in Giappone. L’autore riporta i numeri relativi alle offerte per neodiplomati: si è passati da 1,7 milioni nel 1992 a 0,2 nel 2003. Inoltre, poiché nel sistema giapponese i risultati scolastici e le raccomandazioni degli insegnanti continuano ad avere un’importanza fondamentale per la selezione del personale da parte delle aziende, si può facilmente immaginare che ciò si traduca in livelli più elevati di investimento emotivo e stress per gli studenti. Allo stesso tempo, ed è questo un aspetto fondamentale, l’obiettivo ultimo dell’assunzione viene elaborato e vissuto all’interno delle dinamiche di amae: essere assunti equivarrebbe a essere accettati e accolti dall’“azienda-madre” giapponese20. Quindi, il legame tra i cambiamenti socioeconomici e il fenomeno hikikomori è significativo e riflette una condizione anomica25. Dato che le tradizionali opportunità lavorative e la prevedibilità dei percorsi individuali per la popolazione più giovane sono diminuite in un breve arco di tempo, le persone non sanno più che direzione prendere e i tradizionali punti di riferimento diventano inutili25.

L’evoluzione dei processi produttivi ha modificato il panorama urbano dei piccoli e dei grandi centri e ha costretto un numero sempre maggiore di persone a spostarsi nelle città. È, quindi, via via diminuita la rilevanza dei microsistemi economici locali, all’interno dei quali si rivelavano funzionali i rapporti di dipendenza reciproca. È, altresì, accelerato il processo di alfabetizzazione e, quindi, la diffusione e lo sviluppo dei saperi. Sempre più adolescenti hanno avuto la possibilità di “scegliere” un percorso formativo personale e specializzante. Se in passato, all’interno di comunità relativamente piccole, le nuove generazioni trovavano poche difficoltà a inserirsi e a proseguire le principali attività produttive ed economiche locali (agricoltura, artigianato e piccole attività commerciali), oggi la specializzazione tende ad allontanare i giovani dal proprio nucleo d’origine fisicamente e culturalmente. Contemporaneamente, però, l’affiliazione continua ad avere un ruolo predominante nella cultura giapponese48,50. Pertanto, i cambiamenti avvenuti, ai livelli sociale ed economico, sembra abbiano contribuito a delineare una situazione disadattiva per coloro che non sono particolarmente motivati a essere assertivi, sia socialmente sia a livello esplorativo.

In linea con alcuni studi che hanno evidenziato l’influenza sul ritiro sociale di fattori come stile genitoriale iperprotettivo e intrusivo, attaccamento ambivalente e rifiuto dei pari durante l’infanzia e l’adolescenza58,59, Krieg e Dickie60 hanno proposto un modello evolutivo psico-sociale della patogenesi dell’hikikomori. I dati della loro ricerca, effettuata su un campione di 24 soggetti autoreclusi, hanno mostrato che:

• l’attaccamento ambivalente prediceva l’auto-reclusione in misura maggiore rispetto all’ attaccamento evitante;

• tra i comportamenti di rifiuto parentale misurati, la minaccia di perdita della relazione da parte dei genitori era l’unico fattore significativamente correlato all’hikikomori;

• i soggetti hikikomori riportavano punteggi più elevati del campione di controllo sulla Trait Shyness Scale, strumento che misura la predisposizione all’espressione della vergogna;

• i soggetti hikikomori sono stati spesso vittime di rifiuto da parte dei pari sia durante l’infanzia sia nella prima adolescenza.


I risultati di tale studio hanno evidenziato, inoltre, che l’attaccamento ambivalente e il rifiuto dei pari predicevano, insieme, il ritiro sociale.

I soggetti hikikomori sembrano, quindi, profilarsi come persone che, già limitate nelle iniziative di esplorazione durante i primi anni di vita, vivono il rifiuto dei pari come un fallimento delle strategie sociali precedentemente apprese, così da ricorrere al ritiro per proteggersi e limitare i vissuti di vergogna che hanno segnato la loro esperienza. Considerati i fattori sociali, culturali ed economici finora discussi, sembra evidente che la prevalenza di un “copione culturale” così orientato alla ricerca dell’oggetto sociale, a scapito dell’oggetto fisico54, può rendere intollerabile la vita relazionale nel momento in cui il bisogno affiliativo dominante resta costantemente insoddisfatto.

Uchida e Norasakkunkit61 hanno proposto un altro modello psicologico per la comprensione del fenomeno, ipotizzando che l’hikikomori e il Not in Education, Employment or Training (NEET), indice della popolazione con età tra i 15 e i 29 anni che non risulta occupata, né inserita in un percorso di formazione o istruzione, facciano parte di uno stesso spettro di funzionamento psicologico correlato al rischio di marginalità sociale24. A tale proposito hanno validato la NEET-Hikikomory Risk Factors Scale (NHR), che esplora le tendenze psicologiche associate a forme di ritiro sociale e occupazionale e hanno evidenziato la presenza di tre fattori, vale a dire freeter lifestyle preference, bassa auto-competenza e incertezza riguardo alle ambizioni professionali, che consentono di evidenziare differenze significative tra campione di controllo, NEET e autoreclusi.

Più recentemente, Teo et al.62 hanno sviluppato e validato l’Hikikomori Questionnaire (HQ-25) in una popolazione di adulti, al fine di facilitare il processo valutativo dell’hikikomori discriminando tra individui a rischio e non a rischio. Lo stesso strumento è stato utilizzato in un recente studio63 per esplorare la relazione tra ritiro sociale, utilizzo problematico di internet e smartphone in giovani adulti giapponesi. I risultati hanno evidenziato una relazione tra maggiore tempo trascorso su internet, utilizzo problematico delle tecnologie indagate e rischio per hikikomori.

STUDI SULL’AUTORECLUSIONE NELLE CULTURE OCCIDENTALI

Negli ultimi anni sono stati condotti studi su campioni più ampi tesi a indagare la presenza del fenomeno in Occidente e le caratteristiche sociodemografiche e cliniche associate. Chauliac et al.64 hanno esaminato 66 individui di età compresa tra 18 e 34 anni che avevano fatto riferimento a “Psymobile”, un’unità mobile di psichiatria della città di Lione, in Francia, per ritiro prolungato e su richiesta di terzi (come familiari, datori di lavoro e professionisti della salute). Questo gruppo costituiva un quarto di tutti i pazienti che avevano richiesto assistenza presso Psymobile in un arco temporale di due anni e mezzo. Dall’analisi dei dati sociodemografici si evinceva che quasi la metà dei pazienti viveva in una famiglia con un solo genitore e l’80% era di genere maschile. Veniva riferita, inoltre, una durata media del ritiro, al momento della prima consultazione, di poco più di due anni e un’età media all’esordio di 20 anni circa. Poco meno della metà (42%) del campione usava cannabis e più della metà (73%) riferiva disturbi del ritmo sonno-veglia. Circa un terzo (27%) dei pazienti non lasciava mai la propria abitazione. Il 19% dei ritirati non intratteneva relazioni sociali, mentre, il 74% manteneva i legami familiari. Precedentemente, alla metà dei pazienti era stato diagnosticato un disturbo psichiatrico. Al momento dello studio, il 13% del campione non soddisfaceva i criteri per una diagnosi psichiatrica secondo l’ICD-10, mentre, le diagnosi più comuni in comorbilità riguardavano disturbi psicotico (37%), dell’umore (23%) e di personalità (15%).

In un recente studio65 condotto in Ucraina sono state esaminate le differenze tra gruppi di hikikomori primario, hikikomori secondario e gruppo di controllo nelle caratteristiche psicologiche e psicopatologiche. I partecipanti avevano un’età compresa tra 18 e 40 anni. Per la valutazione dell’hikikomori è stata utilizzata un’intervista semistrutturata che ne esplorava i criteri e sono stati somministrati, inoltre, questionari self-report per la valutazione di alessitimia, ostilità e comportamento auto-distruttivo, qualità della vita, tratti di personalità ed esperienze di vita traumatiche. Nel 40% dei casi il ritiro si era manifestato prima dei 18 anni di età. Una lunga durata dell’autoreclusione aveva compromesso il completamento degli studi (il 40% non aveva finito l’università), il funzionamento lavorativo (il 50% non lavorava) e le relazioni sociali (assenti nell’80% dei casi). Rispetto alle caratteristiche psicologiche esaminate, l’unica differenza significativa tra gruppo di hikikomori primario e secondario è stata evidenziata rispetto all’ostilità fisica, per cui il primo gruppo riportava punteggi superiori al secondo. Rispetto al gruppo di controllo, i due gruppi di hikikomori hanno riferito una più elevata frequenza di eventi di vita passati avversi e traumatici, difficoltà maggiori nell’identificare e verbalizzare le emozioni, comportamenti auto-aggressivi legati a livelli più elevati di risentimento, tensione interna, ansia, insicurezza e, infine, una peggiore qualità della vita.

Malagón-Amor et al.66 hanno indagato il ritiro sociale in comorbilità con diagnosi psichiatriche, caratteristiche cliniche e risposte al trattamento. I disturbi diagnosticati più frequentemente in comorbilità erano disturbi psicotici, d’ansia, di personalità e affettivi. La presenza di un disturbo affettivo o ansioso in comorbilità era associata a un peggior outcome a distanza di un anno, anche nei termini di persistenza dell’isolamento. Infine, gli autori hanno esplorato l’efficacia del trattamento, un aspetto ancora poco indagato in letteratura. È stato osservato che quando i pazienti ricevevano un trattamento meno intensivo (per esempio, ambulatoriale) abbandonavano il trattamento più frequentemente come risultava al follow-up a 12 mesi. Un trattamento più intensivo (come l’ospedalizzazione) faceva, invece, registrare miglioramenti maggiori e stabili nel tempo, con un miglioramento della rete sociale e il mantenimento dei controlli psichiatrici. Secondo gli autori, il trattamento più efficace è, dunque, di tipo intensivo, a casa o in ospedale, inizialmente teso a creare una relazione terapeutica, per poi migliorare la consapevolezza del disturbo e la collaborazione con le figure curanti focalizzandosi, successivamente, sulla riabilitazione delle abilità sociali e sulla reintegrazione sociale66.

Infine, riportiamo dei dati iniziali rispetto al contesto italiano. Dal 2012, il “Consultorio Gratuito per gli adolescenti ritirati che abusano delle nuove tecnologie”, della Cooperativa Minotauro, offre percorsi psicologici gratuiti rivolti agli adolescenti con difficoltà psicologiche e ai loro familiari. Nel 2014 sono stati presentati dei dati clinici su ragazzi ritirati in carico al Consultorio o seguiti negli ultimi dieci anni all’interno di attività cliniche precedenti alla nascita del Consultorio67. I dati sono stati raccolti attraverso la collaborazione dei terapeuti che seguivano gli adolescenti. Dei 139 casi totali seguiti dal Consultorio, il 48-55% viene preso in carico dal servizio perché adolescenti isolati, ritirati da scuola, chiusi in casa, in conflitto con i genitori, dipendenti da internet e con un’età media di 16,5 anni (range di età: 11-24 anni)68. Tuttavia, dal report non è chiaro se queste difficoltà fossero contemporaneamente presenti o meno. Le analisi condotte per esaminare la presenza di differenze psicopatologiche tra gruppi di adolescenti isolati e adolescenti che non presentavano ritiro sociale erano non significative dal punto di vista statistico, sebbene non risultasse chiaramente descritta la numerosità dei gruppi utilizzati per queste analisi68.

L’Ufficio Scolastico Regionale per l’Emilia-Romagna ha pubblicato nel 2018 gli esiti di una rilevazione nelle scuole dell’Emilia-Romagna degli alunni che non frequentano, ritirati in casa, per motivi psicologici69. Nel comunicato vengono presentati anche alcuni dati della Sanità Regionale e dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna. Il Sistema Informativo dei Servizi di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza ha fornito dati quantitativi sul codice ICD-10 F40.1 corrispondente alla Fobia sociale. Nel 2015 i pazienti in carico per Fobia sociale sono stati 78, di cui 65 di età compresa tra 11 e 17 anni. Invece, nel 2016 i casi, seguiti dagli iscritti all’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, che presentano difficoltà sociali sono 258, di cui 193 con un’età compresa tra 11 e 17 anni, e 41 tra 6 e 10 anni. Occorre notare come questi siano dei dati parziali, in quanto non tengono conto delle specificità della condizione di hikikomori.

L’indagine effettuata dall’Ufficio Scolastico Regionale, a febbraio 2018, ha coinvolto 687 istituzioni scolastiche su un totale regionale di 702. Delle 346 segnalazioni di abbandono e assenteismo scolastico presentate da queste istituzioni, in 99 casi venivano riportate uscite estremamente rare e 63 casi in cui nessuno veniva accolto in casa69. Pertanto, poiché diversi ragazzi uscivano ancora di casa (con amici o da soli), il numero totale dei presunti hikikomori tra gli alunni della scuola primaria e secondaria di I e di II grado sarebbe stato 16269. Se si considera che nell’anno 2018 gli studenti della regione Emilia-Romagna iscritti alla scuola primaria e secondaria di I e di II grado erano 509.92970, la percentuale di presunti hikikomori sarebbe di 0,03%.

Gli studi esaminati riportano dati preliminari e suggeriscono che l’hikikomori concettualizzato come culture-bound syndrome potrebbe non essere appropriato. Tuttavia, ciò non significa che il fenomeno debba essere interpretato e affrontato attraverso un’unica modalità che non tenga in considerazione il contesto sociale e culturale in cui esso si manifesta. È possibile che il ritiro sociale prolungato costituisca, inoltre, una modalità di risposta alle difficoltà che gli adolescenti e i giovani adulti possono sperimentare nell’affrontare i loro compiti di sviluppo in una società interconnessa. Recenti studi indicano, infatti, una relazione tra uso problematico delle tecnologie e sintomi di ritiro sociale71.

CONCLUSIONI

Nel presente lavoro sono stati passati in rassegna i dati provenienti dalla letteratura internazionale sull’hikikomori e sono state messe in evidenza le difficoltà riscontrate nell’inquadramento diagnostico ed epidemiologico del fenomeno.

Relativamente al contesto italiano, a oggi non sono disponibili in letteratura studi epidemiologici e sperimentali sull’argomento14, sebbene siano state condotte delle analisi iniziali. In Europa, sono state condotte ricerche in Francia64, Spagna66 e Ucraina65. Le indagini condotte da studiosi di provenienza diversa hanno aiutato a delineare più chiaramente la natura del fenomeno che considera il dolore degli adolescenti hikikomori che veicolano la sofferenza esperita attraverso vissuti di vergogna e di inadeguatezza, rendendosi invisibili.

L’analisi del ritiro sociale dovrebbe indurre a una più approfondita riflessione psicologico-clinica sulle modalità di espressione della sofferenza24 e del disagio e come esso si esprime soprattutto nei più giovani sottolineando come il malessere che contraddistingue le nuove generazioni sia una condizione capillarmente diffusa al di là delle differenze culturali e, pertanto, debba essere considerato con attenzione particolare e preoccupazione.


Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

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