Approccio alla persona con disforia di genere: dal modello psichiatrico italiano al modello emergente basato sul consenso informato


Approaches to people with gender dysphoria: from the Italian psychiatric
model to the emergent model based on informed consent


ANDREA CRAPANZANO1, BERNARDO CARPINIELLO2, FEDERICA PINNA2*

*E-mail: fedepinna@inwind.it


1San Francisco State University, San Francisco, California, USA

2Sezione di Psichiatria, Dipartimento di Scienze Mediche e Sanità Pubblica, Università di Cagliari


RIASSUNTO. Negli ultimi anni il transgenderismo ha ricevuto una quantità di attenzioni senza precedenti sia da parte dei media sia da parte della comunità scientifica. L’aumento degli invii alle cliniche specializzate in terapie volte ad affermare l’identità di genere delle persone transgender, l’aumento nel numero di queste cliniche sul territorio, l’aumentata consapevolezza da parte delle persone transgender delle diverse opzioni e procedure terapeutiche disponibili, la depatologizzazione da parte del mondo psichiatrico di tale identità di genere e la maggiore presenza di persone transgender nei media sono solo alcuni dei fattori che hanno contribuito a una accresciuta consapevolezza da parte della società di questa complessa realtà. In questo articolo, dopo aver fornito una definizione di alcuni concetti chiave per la comprensione della complessità del mondo transgender, verrà descritto il dibattito esistente nella comunità scientifica e nel mondo transgender stesso rispetto alla controversa diagnosi di disforia di genere. Verranno in seguito presentati i diversi possibili percorsi di transizione che nascono da questo dibattito e il conseguente allineamento con le diverse e contradditorie conclusioni che ne sono seguite. In particolare, verranno illustrati un possibile percorso di transizione basato sul modello medico-psichiatrico strettamente legato alla diagnosi di disforia di genere (il modello italiano) e un modello che si sta sviluppando in alcune parti degli Stati Uniti basato sul consenso informato e la non necessità della diagnosi di disforia di genere al fine di accedere al percorso di transizione.


PAROLE CHIAVE: identità di genere, disforia di genere, transgender, percorsi di transizione.


SUMMARY. In recent years, the transgender community has received an unprecedented amount of attention from both the media and the scientific community. The increase in referrals to clinics specializing in therapies aimed at affirming transgender people’s identity, the spread of these clinics around the world, the increased awareness by transgender people of the different therapeutic options and procedures available, the depathologization by the psychiatric world of this gender identity and the greater presence of transgender people in the media are just some factors that have contributed to an increased awareness of this complex reality. In this article, after providing a definition of some key concepts for understanding the complexity of the transgender world, the authors will describe the debate that exists in the scientific community and in the transgender world itself regarding the controversial diagnosis of gender dysphoria. Several possible transition paths that arise from this debate and consequent alignment with the different and contradictory conclusions that followed will be presented. In particular, a possible transition path will be presented based on the medical-psychiatric model closely related to the diagnosis of gender dysphoria (Italian model) and a model that is developing in some parts of the United States based on informed consent and the non-need for diagnosis of gender dysphoria in order to access the transition path.


KEY WORDS: gender identity, gender dysphoria, transgender, transition paths.

INTRODUZIONE

Negli ultimi anni, la disforia di genere (DG), precedentemente definita “transessualismo” o “disturbo dell’identità di genere”, ha ricevuto una grande quantità di attenzioni, in tutte le forme di media, che hanno certamente contribuito a una maggiore visibilità e ad almeno una parziale “destigmatizzazione” delle persone interessate. Allo stesso tempo si è osservato un aumento nel territorio del numero di cliniche specializzate nell’identità di genere, un incremento degli invii alle cliniche e un aumento in letteratura degli studi sull’identità di genere. Pur trattandosi di un fenomeno difficile da stimare numericamente, risulta evidente un progressivo incremento negli anni della prevalenza, come dimostrato dall’aumento del numero di transessuali, sia maschi che femmine, negli studi più recenti1. Tuttavia, trattandosi principalmente di dati su persone che giungono all’attenzione del clinico, non si è attualmente in grado di fornire un quadro generale della prevalenza del fenomeno nella popolazione generale, laddove i tassi attesi sono di certo molto più elevati. Lo stesso DSM riporta nelle edizioni successive, a partire dall’introduzione nel manuale di questa categoria diagnostica, dati indicativi di una prevalenza in aumento, fino all’ultima edizione del DSM-52,3. Non è chiaro se tale incremento sia espressione di un reale cambiamento o se sia invece il risultato della maggiore facilità con cui queste persone fanno “coming out” come transgender, grazie alla maggiore, soprattutto in alcuni contesti, accettazione da parte della società, alla tendente depatologizzazione del fenomeno e alla crescente consapevolezza rispetto alle varie opzioni e procedure terapeutiche4. Comportamenti varianti rispetto al genere sono d’altronde da sempre esistiti nella storia dell’umanità e nelle diverse culture, assumendo, a seconda dei casi, connotazioni differenti, in alcuni casi positive, ma per lo più negative nella maggior parte dei contesti. È fondamentale ricordare che non ci stiamo riferendo a una popolazione omogenea e che esistono diversi modi di esprimere il proprio genere, molteplici vie e percorsi che non necessariamente portano unicamente a una svolta in direzione maschile o femminile o che comportano in queste persone una significativa sofferenza, una compromissione del funzionamento o il ricorso a specifici trattamenti ormonali (mascolinizzanti o femminilizzanti) o chirurgici. Negli ultimi anni, infatti, in modo sempre più condiviso dalla comunità scientifica, il genere viene visto non per forza come una variabile dicotomica – maschile o femminile – ma piuttosto come caratterizzato da una più ampia e complessa gamma di sfumature e tonalità intermedie5.

Partendo da quest’ottica, i livelli di “mancato allineamento” tra il sesso alla nascita, il corrispondente genere assegnato e l’identità di genere possono essere molteplici e solo una parte di queste condizioni sono inquadrabili come “DG” e prevedono in queste persone il desiderio di avviare un percorso di transizione che implichi l’assunzione di una terapia ormonale mascolinizzante o femminilizzante ed, eventualmente, laddove questo rappresenti un bisogno della persona, il sottoporsi a interventi chirurgici di riattribuzione chirurgica del sesso5. In questo articolo, dopo aver fornito una definizione di alcuni concetti chiave per la comprensione della complessità del mondo transgender, verrà descritto il dibattito esistente nella comunità scientifica e nel mondo trans-
gender stesso rispetto alla controversa diagnosi di DG. Verranno in seguito presentati i diversi possibili percorsi di transizione che nascono da questo dibattito e il conseguente allineamento con le diverse e contradditorie conclusioni che ne sono seguite. In particolare, verrà presentato un possibile percorso di transizione basato sul modello medico-psichiatrico strettamente legato alla diagnosi di DG (il modello italiano) e un modello che si sta sviluppando in alcune parti degli Stati Uniti basato sul consenso informato e la non necessità di una diagnosi di DG al fine di accedere al percorso di transizione.

LA COMPLESSITÀ DEL MONDO TRANSGENDER: CONCETTI CHIAVE

La terminologia nel campo dell’identità di genere è in costante evoluzione6. Transgender è un termine generico utilizzato per descrivere diverse categorie di persone che mettono in discussione l’idea che il sesso assegnato a un individuo alla nascita sia sempre in relazione lineare e causale con quella che sarà la sua identità di genere e orientamento sessuale. Fondamentalmente si tratta di un gruppo di persone la cui esperienza interiore e soggettiva del proprio genere non si allinea con il sesso assegnato alla nascita7.

Alcune parole chiave per comprendere questo argomento sono: sesso, genere (identità di genere e espressione di genere) e orientamento sessuale. Il sesso biologico di appartenenza è determinato dalle caratteristiche genetiche, ormonali e anatomiche (cromosomi sessuali, gonadi, organi riproduttivi interni e genitali esterni) che definiscono l’appartenenza al sesso maschile, femminile o a una condizione intersessuale. Il termine “genere” si riferisce, invece, agli atteggiamenti, ai sentimenti e ai comportamenti che una determinata cultura associa al sesso biologico di una persona. Il comportamento di un individuo può essere compatibile o incompatibile con le aspettative sociali e culturali della comunità di appartenenza. Il termine genere comprende al suo interno altri due concetti: il concetto di identità di genere e il concetto di espressione di genere. L’identità di genere si riferisce all’esperienza interiore di una persona, ovvero come un individuo si sente (sentirsi uomo o sentirsi donna o sentirsi qualcos’altro). L’espressione di genere si riferisce al modo in cui una persona si comporta al fine di comunicare il proprio genere all’interno della propria cultura di appartenenza (abbigliamento, modo di apparire, modelli di comunicazione e interessi). L’espressione di genere di una persona non sempre si allinea con i ruoli di genere socialmente e culturalmente prescritti. Infine, con l’espressione “orientamento sessuale” si indica l’attrazione emozionale, romantica e/o sessuale di una persona verso altri individui. Le categorie di orientamento sessuale generalmente hanno incluso l’attrazione per i membri del proprio sesso (uomini gay o donne lesbiche), l’attrazione per i membri del sesso opposto (eterosessuali) e l’attrazione per i membri di entrambi i sessi (bisessuali). In realtà, ricerche recenti hanno evidenziato come l’orientamento sessuale di una persona non appaia sempre rappresentato entro tali categorie definite e come tenda a manifestarsi, invece, lungo un continuum o spettro di possibili identificazioni sessuali. Inoltre, l’identità transgender non è direttamente collegata con l’orientamento sessuale. Ciò significa che una persona transessuale potrebbe identificarsi come eterosessuale, omosessuale, bisessuale o decidere di non applicare alcuna etichetta alla propria identità di genere e orientamento sessuale8.

Solitamente la comunità transgender preferisce utilizzare il termine transgender rispetto al termine transessuale. Tale preferenza può essere compresa in quanto il termine transessuale enfatizza il concetto di sesso biologico rispetto all’esperienza psicologica di genere. In altre parole, allorché si usa il termine transessuale, l’accento viene posto sugli aspetti anatomici, fisici e biologici rispetto agli aspetti più emotivi, affettivi e psicologici che il termine transgender riesce invece a cogliere. Inoltre, il termine transessuale si riferisce solitamente a persone che ricevono trattamenti ormonali e/o chirurgici onde modificare il proprio corpo e allinearlo al sesso opposto. Questo termine lascerebbe fuori, quindi, persone transgender che non si sottopongono a tali trattamenti ma si sentono e si identificano, comunque, come transgender.

Alcuni individui transgender, non tutti, decidono di allineare il proprio genere esperito interiormente al proprio aspetto esteriore. Si dice allora che queste persone decidono di affrontare una “transizione”, che è generalmente un termine usato per descrivere il processo attraverso il quale un individuo decide di modificare il proprio corpo e/o il proprio stato giuridico al fine di renderli congruenti e allinearli con la propria identità di genere. Le persone che scelgono di intraprendere questo percorso possono scegliere di sottoporsi a trattamenti definiti affermativi/confermativi del loro genere. Questi trattamenti affermativi/confermativi di genere comprendono trattamenti ormonali e interventi chirurgici volti a modificare le caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie per allineare l’aspetto fisico di una persona con la propria identità di genere. Sentiamo allora parlare di uomini transgender o uomini trans e donne transgender o donne trans. Gli uomini transgender sono persone nate biologicamente femmine che desiderano cambiare, stanno cambiando o hanno cambiato il proprio corpo e/o ruolo di genere verso un corpo e/o ruolo di genere più maschile. Le donne transgender, al contrario, sono persone nate biologicamente maschi (sesso assegnato alla nascita) che desiderano cambiare, stanno cambiando o hanno cambiato il proprio corpo e/o ruolo di genere verso un corpo e/o ruolo di genere più femminile9.

Sebbene queste siano definizioni importanti e utili al fine di inquadrare l’argomento e sviluppare un linguaggio comune nel parlare di questa categoria di persone, va anche precisato che nella realtà questi concetti sono molto più sfumati e meno definibili di quanto si pensi. A tal proposito, è importante aggiungere due fondamentali precisazioni. La prima precisazione si riferisce al fatto che nella realtà esistono diversi scenari di transizione. Infatti, pur essendo vero che alcuni individui desiderano “fare transizione” attraverso l’uso di ormoni e/o interventi chirurgici, è importante sottolineare che non tutti gli individui transgender desiderano sottoporsi a tali procedure. Esistono infatti diversi possibili scenari di transizione legati alle scelte personali delle persone. Per esempio, alcune persone si sottopongono a terapie ormonali e interventi chirurgici, altre solo a terapie ormonali, altre decidono di non sottoporsi a nessuna terapia e modificano semplicemente alcuni aspetti esteriori come per esempio l’abbigliamento, il trucco o l’acconciatura, altre ancora decidono di non modificare alcun aspetto, pur identificandosi comunque con una identità transgender. Questi diversi scenari sono giustificati sia dal fatto che le persone esprimono esteriormente la propria esperienza soggettiva del loro genere in maniera differente, sia dal fatto che le persone fanno scelte diverse a seguito di una esplorazione delle implicazioni fisiche, legali, psicologiche, sociali ed economiche del passaggio da una categoria di genere a un’altra9. La seconda precisazione si riferisce invece al fatto che nella realtà le scelte di genere non sono sempre riducibili a scelte di identità di genere binarie. Per esempio, non tutti gli individui transgender desiderano sempre “fare transizione” come maschi o femmine. Infatti, non tutte queste persone sposano un’identità binaria di genere (maschio/femmina). Mentre alcune persone effettuano la transizione e si identificano con la categoria binaria di genere che è “l’opposto” del sesso assegnato alla nascita (cioè maschio o femmina), altre persone si identificano con una identità transgender che non riflette sempre le opzioni di genere tradizionali. Esiste, infatti, un’esperienza diversificata rispetto al genere e alcune persone nella comunità transgender si identificano in modo non lineare e normativo7. Parliamo allora di non-conformità di genere, un concetto con il quale si intende il livello fino al quale l’identità di genere di un individuo (o il ruolo di genere o l’espressione di genere) si differenzia dalle norme culturali comuni per una persona di un determinato sesso. Esistono quindi diverse possibili identificazioni di genere che trascendono le opzioni limitanti dei termini “maschio” e “femmina” in quanto tali identificazioni binarie non riescono a catturare la specificità dell’esperienza transgender. Ad esempio, alcuni individui si identificano come “genderqueer”, il che significa che potrebbero identificarsi come maschi o femmine, nessuno dei due o da qualche parte nel mezzo. Altri esempi sono le identificazioni come individuo bi-genere, di genere neutro, appartenente a un terzo genere, poli-genere e di genere-fluido10.

INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO: LA DIAGNOSI DI DIFORIA DI GENERE

Il transessualismo resta escluso dalla classificazione del DSM fino al 1980, allorché viene incluso nella terza edizione del DSM, inquadrato tra i Disturbi Psicosessuali in una sezione riguardante i Disturbi dell’Identità di Genere11. Nella versione rivisitata della terza edizione12, il transessualismo viene spostato dalla sezione dei Disturbi Psicosessuali alla categoria “Disturbi tipicamente già evidenti nell’Infanzia, Fanciullezza o Adolescenza”. Tale spostamento viene giustificato dalle evidenze sulla precoce comparsa delle manifestazioni di questa condizione nella fase dello sviluppo. In questa edizione del DSM viene, inoltre, eliminata definitivamente l’omosessualità, fino a quel momento considerata un disturbo mentale, non più considerata un’entità clinica. Nel DSM-IV13 e nel DSM-IV-TR14 il transessualismo viene classificato come “Disturbo dell’Identità di Genere” (DIG), con la distinzione in base all’età attuale del soggetto in esame (DIG dell’infanzia, dell’adolescenza o dell’età adulta). L’eliminazione dalla categoria dei disturbi che usualmente compaiono in infanzia, fanciullezza e adolescenza è dovuta all’osservazione di casi con comparsa tardiva, in età adulta, dei sintomi tipici. In questa edizione del DSM i DIG si collocano, insieme alle parafilie e alle disfunzioni sessuali, all’interno dei “Disturbi Sessuali e dell’Identità di Genere” e, accanto ai DIG, qualora non siano pienamente soddisfatti i criteri per questo disturbo, è contemplata la categoria “Disturbo dell’Identità di Genere non Altrimenti Specificato”. Tra le novità importanti del DSM-IV vanno citate: l’esclusione dalla diagnosi degli stati intersessuali; l’introduzione di un criterio per la diagnosi di DIG che si riferisce al disagio provato dalla persona, con conseguente compromissione della qualità della vita; l’articolazione in differenti sottotipi in base all’orientamento sessuale. Nella più recente edizione del DSM, il DSM-52, si assiste al passaggio dalla diagnosi di “Disturbo dell’Identità di Genere” alla diagnosi di “DG”. Tale passaggio prevede la perdita del termine “disturbo”, privilegiando, con l’introduzione del termine “disforia”, la dimensione del disagio soggettivo provato dalla persona. Il focus non è più, quindi, sull’idea di un’identità disturbata, ma sul disagio che deriva in queste persone dall’incongruenza tra il genere esperito e il dato biologico. Per questa nuova diagnosi di DG viene pensata una collocazione a sé in una specifica categoria diagnostica, separata dalle parafilie e dai disturbi sessuali. Tale modifica appare di grande rilevanza in quanto indicativa di un passaggio nella diagnosi da una sfera prevalentemente comportamentale, sessuale e disturbata, a una sfera più ampia che coinvolge l’intera identità della persona. Allo stesso tempo la sostituzione del termine “sesso”, prevalente nel DSM-IV-TR, con il termine “genere” nella quinta edizione, rappresenta un’ulteriore evidenza di uno spostamento del focus su aspetti variegati inerenti l’identità e la personalità dell’individuo, rispetto al mero dato comportamentale. Un altro importante cambiamento è stato l’eliminazione dai criteri diagnostici del DSM-5 del criterio specificatore relativo all’orientamento sessuale. Tale modifica è indicativa dell’aver preso atto, a partire dai dati di letteratura, che l’orientamento sessuale non può essere considerato un predittore di outcome, diversamente da un tempo in cui si riteneva che l’orientamento eterosessuale rappresentasse un fattore predittivo favorevole nell’ambito di un precorso di transizione di genere15.

Entrando nello specifico dei criteri diagnostici della DG, per arrivare a porre diagnosi di DG vi dev’essere il riscontro di una marcata incongruenza tra il proprio genere esperito/espresso e il genere assegnato alla nascita della durata di almeno 6 mesi, come dimostrato dalla presenza di almeno 2 dei seguenti punti: una marcata incongruenza tra il proprio genere esperito/espresso e le caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie (o, nei giovani adolescenti, le previste caratteristiche sessuali secondarie); un forte desiderio di sbarazzarsi delle proprie caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie a causa dell’incongruenza con il proprio genere esperito/espresso (o, nei giovani adolescenti, desiderio di impedire lo sviluppo delle attese caratteristiche sessuali secondarie); un forte desiderio di ottenere le caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie dell’altro genere; un forte desiderio di appartenere all’altro genere (o a un genere alternativo diverso da quello assegnato); un forte desiderio di essere trattato come membro dell’altro genere (o di qualche genere alternativo diverso da quello assegnato); una forte convinzione di avere sentimenti e reazioni tipici dell’altro genere (o di qualche genere alternativo diverso da quello assegnato). Non si parla più, quindi, di “identificazione con il sesso opposto”, ma di “incongruenza tra il proprio genere, così come è esperito o espresso, e il genere assegnato”, allontanandosi da una concezione binaria di genere. Ai fini della diagnosi, la condizione deve essere associata a un disagio clinicamente significativo e/o a una compromissione dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento. È inoltre possibile far rientrare in questa categoria anche coloro che presentano associati disturbi dello sviluppo sessuale, per cui è previsto uno specificatore diagnostico (per es., una sindrome adrenogenitale congenita, un’iperplasia surrenale congenita o una sindrome di insensibilità agli androgeni). È poi possibile specificare se si tratta di una condizione “Post-transizione”, laddove l’individuo abbia effettuato la transizione e viva a tempo pieno nel genere desiderato, con o senza legalizzazione del cambio di genere, e si sia sottoposto, o si stia preparando a sottoporsi, ad almeno una procedura medica o regime di trattamento di cambio del sesso. In condizioni in cui i sintomi caratteristici della DG, che causano disagio clinicamente significativo o compromissione in area sociale, occupazionale, o altre aree importanti del funzionamento, prevalgono ma non soddisfano tutti i criteri per la DG, è possibile ricorrere alle diagnosi di “Altra DG Specificata” e “DG Non Specificata”. La categoria “Altra DG Specificata” viene utilizzata in situazioni in cui il clinico sceglie di comunicare la specifica motivazione per cui la manifestazione non soddisfa tutti i criteri per la DG. Questo viene fatto registrando “Altra DG Specificata” seguita dalla specifica motivazione (per es., “breve DG”). La categoria “DG Non Specificata” viene utilizzata in situazioni in cui il clinico sceglie di non specificare la ragione per cui non sono soddisfatti i criteri per la DG e include manifestazioni in cui vi sono insufficienti informazioni per porre una diagnosi più specifica2.

Se nel complesso il passaggio da “disturbo”, fino al DSM-IV-TR, a “disforia”, nel DSM-5, è stato rappresentativo di un importante cambiamento culturale, che sottolinea la volontà da parte della comunità scientifica di prestare maggiore attenzione alla sofferenza di queste persone e di ridurre lo stigma a esse associato, a tutt’oggi è tuttavia considerato un compromesso poco soddisfacente da coloro che auspicavano e auspicano una completa depatologizzazione di questo fenomeno con l’esclusione della diagnosi dai manuali diagnostici psichiatrici16.

A questo proposito, è stato di recente annunciato che nell’11a edizione del ICD (ICD-11), che entrerà in vigore nel 2022, la diagnosi di DG muterà in “Incongruenza di Genere”, con un passaggio dal capitolo dell’ICD inerente i disturbi mentali a un nuovo capitolo, appositamente creato, sulla salute sessuale, per le significative cure mediche che la condizione richiede.

IL MODELLO ITALIANO MEDICO-PSICHIATRICO DI TRANSIZIONE BASATO SULLA DIAGNOSI DI DG

La diagnosi di DG riveste un ruolo di estrema importanza in molte parti del mondo, tra cui l’Italia, laddove soddisfare i criteri per questa diagnosi rappresenta per le persone transgender l’unico canale di accesso a un percorso di transizione coperto dalle assicurazioni o, come in Italia, dal Sistema Sanitario Nazionale. In Italia la legge riconosce il diritto della persona che sente di non corrispondere al genere assegnato alla nascita di poter adeguare il proprio corpo alla propria identità psichica. I centri che a livello nazionale si occupano dei percorsi di transizione di genere per lo più si basano sugli standard proposti dall’ONIG, l’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere (www.onig.it). In tale contesto è indicato un approccio multi e interdisciplinare con un’integrazione tra diverse figure professionali (psichiatra, psicologo, endocrinologo, chirurgo) cui vengono richieste competenze specifiche e qualificate, data la complessità del fenomeno. La procedura terapeutica si struttura in: un’accurata valutazione e diagnosi, un’esperienza di vita reale, preferibilmente accompagnata da un percorso di psicoterapia, laddove la persona vive nel ruolo di genere desiderato, una terapia ormonale (mascolinizzante o femminilizzante) e una terapia chirurgica di riassegnazione chirurgica del sesso (RCS). La legge italiana prevede che, limitatamente alle persone con diagnosi di DG, tutti i presidi terapeutici utili nell’ambito del percorso di adeguamento dei caratteri sessuali primari e secondari siano a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). A partire dal 1° ottobre 2020, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), con le Determine nrr. 104272/2020 e 104273/2020, ha stabilito l’erogabilità delle terapie ormonali sostitutive per persone in transizione, a totale carico del SSN, previa diagnosi di disforia/incongruenza di genere formulata da un’équipe multidisciplinare e specialistica dedicata. Perché possa essere avviata la terapia ormonale è in genere sufficiente una certificazione da parte dello psichiatra di una diagnosi di DG e di un’assenza, in atto, di incompatibilità sul piano psicopatologico ad avviare una terapia ormonale. La terapia chirurgica e la rettifica anagrafica sono disciplinate in Italia dalla Legge 164 del 1982, “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso” (L. n. 164/1982, s.d.). La legge prevede, anzi prevedeva fino a qualche tempo fa, due passaggi successivi attraverso il tribunale: il primo passaggio prevedeva l’autorizzazione del giudice all’adeguamento medico-chirurgico (la riattribuzione chirurgica); il passaggio successivo prevedeva l’autorizzazione alla rettifica anagrafica, quindi il cambio del nome, in linea con il genere esperito. Se fino al 2011, quindi, era necessario procedere con la riattribuzione chirurgica (RCS) prima di procedere con la rettifica anagrafica, da qualche anno è possibile procedere con la rettifica anagrafica prima o contestualmente alla RCS. Attualmente si parte, infatti, dal presupposto che se la persona raggiunge un discreto benessere senza usufruire della chirurgia o usufruendo solo di una parte degli interventi, ad esempio la mastectomia o la mastoplastica addittiva, piuttosto che la falloplastica e la vaginoplastica, debba essere libera di farlo senza rischiare di non ottenere l’autorizzazione alla rettifica anagrafica, viste le ripercussioni che questo avrebbe sul piano psicologico e, più in generale, del funzionamento. Quindi allo stato attuale vengono meno la necessità e/o l’obbligatorietà dell’intervento di riassegnazione chirurgica, per quanto il riconoscimento della nuova anagrafica rimanga a discrezione del giudice che abitualmente richiede l’esplicitazione, nella relazione clinica rilasciata dall’equipe per il tribunale, dell’irreversibilità, parziale reversibilità e/o reversibilità dei cambiamenti somatici indotti dalle terapie ormonali che devono essere assunte per un periodo congruo, in genere un anno, prima della richiesta al giudice. La domanda di rettificazione deve essere presentata al tribunale di residenza del paziente, con concomitante presentazione delle relazioni psicologica, psichiatrica ed endocrinologica, prima di affrontare un eventuale intervento chirurgico di riassegnazione del sesso e non prima che siano trascorsi almeno 12 mesi di esperienza di vita reale. Per quanto il limite temporale attualmente non rientri più negli Standards of Care (SOC-7) della WPATH, tuttavia l’esperienza di vita reale (real life experience, RLE), rappresentando un’occasione per la persona di adattarsi dal punto di vista sociale al ruolo di genere desiderato, continua a essere un criterio fondamentale da soddisfare prima di poter procedere con la chirurgia genitale irreversibile17. Nella RLE la persona vive stabilmente negli abiti e nel ruolo di genere desiderato, avendo la possibilità di valutare appieno le implicazioni in termini di benessere soggettivo e funzionamento. Laddove emergano e vengano diagnosticate concomitanti condizioni psicopatologiche, quindi in presenza di altre diagnosi psichiatriche in comorbilità con la DG, la priorità dovrà essere data al trattamento di queste ultime, ferma restando la possibilità di accesso agli interventi medico-chirurgici di RCS una volta raggiunta da parte del paziente una condizione di buon compenso psicopatologico. È infatti raro, fatta eccezione per le condizioni di maggiore gravità dal punto di vista clinico, che possono tra l’altro ostacolare la diagnosi, che la presenza di una comorbilità psichiatrica escluda completamente la possibilità di procedere con gli interventi medico chirurgici affermativi del genere. Soprattutto in concomitanza con la RLE è raccomandabile che la persona venga coinvolta in un percorso psicologico che dovrebbe avere primariamente lo scopo di aiutare la persona a esplorare e a elaborare i propri vissuti correlati al genere e le implicazioni psicologiche, relazionali e, in generale, sul funzionamento, delle modificazioni indotte dalle terapie. I pazienti possono, infatti, trarre grande beneficio da un supporto psicologico mentre navigano i cambiamenti fisici, mentali e psicosociali legati alla transizione di genere18. È importante sottolineare che la psicoterapia non è destinata ad alterare l’identità di genere di una persona, ma piuttosto può aiutare un individuo a esplorare le questioni di genere e a trovare il modo di alleviare la disforia, qualora sia presente. Tipicamente, l’obiettivo terapeutico generale è quello di aiutare le persone transessuali, transgender e di genere non-conforme a ottenere dei benefici a lungo termine nell’espressione della loro identità di genere, con realistiche possibilità di successo nei loro rapporti interpersonali, in ambito scolastico e lavorativo. La psicoterapia può essere un prezioso aiuto per le persone transessuali, transgender e di genere non-conforme per tutto ciò che segue: 1) chiarire ed esplorare l’identità e il ruolo di genere; 2) affrontare l’impatto dello stigma e Minority Stress sulla propria salute mentale e sul proprio sviluppo; 3) facilitare il processo di coming-out che per alcuni individui può includere cambiamenti nell’espressione di ruolo di genere e l’uso di interventi medici femminilizzanti/mascolinizzanti. In quest’ottica, il professionista della salute mentale può aiutare a sviluppare un piano individuale con obiettivi e scadenze specifici. Poiché la modifica di ruolo di genere può, infatti, avere profonde conseguenze sociali e personali, questa decisione deve essere presa con la consapevolezza di ciò che probabilmente saranno le sfide a livello familiare, interpersonale, educativo, professionale, economico e giuridico, in modo da poter vivere con successo il proprio ruolo di genere. Il professionista della salute mentale può, quindi, aiutare questi pazienti a esplorare e ad anticipare le implicazioni dei cambiamenti di ruolo di genere e definire il ritmo del loro processo di attuazione10. Il trattamento chirurgico può essere intrapreso da persone che abbiano compiuto la maggiore età e solo in seguito ad autorizzazione da parte del Tribunale di residenza. Per la legislazione italiana, infatti, si richiede un’autorizzazione del Tribunale prima di effettuare interventi che prevedano l’asportazione chirurgica di organi sani. In assenza del consenso del giudice, l’asportazione di tali organi rappresenterebbe lesione colposa gravissima, punibile ai sensi degli articoli 582 c.p. (lesione personale) e 583 c.p. (circostanze aggravanti). In caso di soggetti minorenni si rimanda a specifiche “Linee guida per la presa in carico dei minorenni con sviluppo atipico dell’identità di genere” (www.onig.it). La fase chirurgica prevede l’asportazione degli organi genitali primari e secondari e la ricostruzione di strutture somiglianti il più possibile agli organi sessuali del genere desiderato/esperito.

DIBATTITO E CONTROVERSIE SULLA DIAGNOSI DI DG E SUL MODELLO MEDICO PSICHIATRICO

L’uso del modello medico-psichiatrico di accesso ai servizi di transizione di genere fondato sulla diagnosi di DG è stato ampiamente criticato come un modello di “gatekeeping” (filtro, ostacolo). L’ostacolo sarebbe rappresentato dal ruolo coperto dai professionisti della salute mentale, che avrebbero il compito di prendere decisioni terapeutiche per conto delle persone transgender spesso basate su ipotesi sul genere che non si applicano sempre all’esperienza vissuta dalle persone transgender. Le persone transgender che ricevono assistenza secondo questo modello definiscono spesso come l’obbligo di vedere un professionista della salute mentale sia un processo patologizzante e stigmatizzante7. Inoltre, questo modello sembrerebbe perpetuare forme di “normatività” per quanto riguarda l’assistenza clinica delle persone transgender, cercando di imporre una visione specifica della vita delle persone transgender che può essere definita “transnormativa”19. Il termine “transnormatività” si riferisce alle narrazioni dominanti che determinano ciò che significa essere transgender, enfatizzando un insieme particolare e ristretto di cliché a cui ci si aspetta che tutte le persone transgender aderiscano. Alcuni di questi stereotipi sono, per esempio, legati alla narrativa del nascere nel corpo sbagliato, oppure la credenza che tutte le persone transgender richiedano cure mediche o vogliano diventare del sesso opposto20.

Secondo gli attuali standard di cura descritti dalla World Professional Association for Transgender Health (WPATH), è responsabilità di un professionista qualificato della salute mentale essere il “primo contatto” con una persona transgender in cerca di un intervento medico. Il compito del professionista della salute mentale è accertare l’idoneità di un individuo per interventi medici legati al genere (ormoni e interventi chirurgici). I trattamenti medici possono essere avviati con un “invio” da parte di un professionista qualificato della salute mentale che è responsabile di fornire al medico o al chirurgo del paziente la documentazione clinica necessaria al fine di iniziare cure ormonali o interventi chirurgici. Il ruolo principale del professionista della salute mentale è valutare e diagnosticare individui transgender con DG e garantire che la DG non sia meglio spiegata da altre diagnosi10. Gli standard di cura non sono stati solo adottati dalle organizzazioni professionali, ma sono stati anche adottati dalle compagnie assicurative e dal sistema giudiziario, che hanno entrambi un ruolo negli aspetti finanziari e legali del processo di transizione di genere. Ad esempio, per le persone in cerca di modifiche del nome legale e/o dei marcatori di genere, i tribunali possono richiedere loro di fornire prove del fatto di essere in psicoterapia a lungo termine e/o una diagnosi psichiatrica di DG. Allo stesso modo, le compagnie assicurative richiedono agli individui di essere in psicoterapia e di avere una diagnosi di DG al fine di soddisfare i criteri per la copertura di servizi medici come terapie ormonali ormoni e interventi chirurgici9.

Pur essendo vero che la diagnosi di DG presenta alcuni vantaggi, la stessa diagnosi presenta anche molte limitazioni che verranno di seguito descritte.

Da un punto di vista storico, l’ingresso nel DSM di una categoria diagnostica che comprendeva individui transgender risale al 1980. Tale ingresso ha decretato la trasformazione del transessualismo in disturbo mentale. L’elevato numero di studi e di casi osservati a partire dagli anni ’60 ha portato a identificare tale fenomeno come realtà clinica a sé stante, consentendo così di annoverare, con l’uscita del DSM-III, il transessualismo tra i disturbi mentali11. Nello specifico, il riscontro in queste persone di un marcato disagio e di una compromissione in importanti aree del funzionamento, aspetti fondamentali per l’inquadramento di una condizione clinica in termini di “disturbo mentale”, ha consentito l’inserimento di questa nuova categoria diagnostica nel Manuale. È proprio sulla definizione di “disturbo mentale” che nel corso degli anni si è scatenato il dibattito sulla legittimità o meno di una diagnosi in questo contesto. All’interno della stessa comunità transgender si incontrano punti di vista discordanti rispetto alla legittimità di una diagnosi psichiatrica21. In molti si dichiarano contrari a una patologizzazione di identità di genere non conformi e, in generale, a un etichettamento diagnostico considerato stigmatizzante, attribuendo all’azione stigmatizzante della diagnosi la causa principale di malessere nelle persone transessuali. Altri, al contrario, sono favorevoli alla diagnosi sottolineandone l’importanza sia ai fini di un rimborso delle spese mediche necessarie ai trattamenti inerenti la transizione sia in termini di maggiori garanzie sul piano legale (tutela dei diritti, accesso legittimato ai trattamenti, ecc.). In molte parti del mondo, infatti, la “transgender-specific care” è coperta da assicurazioni sanitarie che forniscono agevolazioni economiche, ma solo in caso di una diagnosi psichiatrica. In questo senso, l’eliminazione della diagnosi potrebbe produrre l’effetto di considerare gli interventi previsti ai fini della transizione di genere non più “necessari” dal punto di vista medico quanto, piuttosto, interventi meramente di tipo estetico, con potenziale perdita delle agevolazioni economiche e della rimborsabilità da parte del Sistema Sanitario Nazionale. Allo stesso tempo, la diagnosi psichiatrica, quindi l’approccio medico-psichiatrico, potrebbe avere la sua importanza nel facilitare e garantire un supporto psicologico/psichiatrico e un’adeguata diagnosi di eventuali altri disturbi in comorbilità, oltre che per guidare e favorire la ricerca in quest’ambito.

Il complesso dilemma tra mantenimento ed eliminazione della diagnosi è stato espresso, qualche anno prima della pubblicazione del DSM-5, da Drescher22, membro del Work Group on Sexual and Gender Identity Disorders (WGSGID) dell’APA: “Il principio guida in medicina è innanzitutto, non arrecare danni […]. Il danno del mantenere la diagnosi è lo stigma, e il danno della sua rimozione è la potenziale perdita dell’accesso alle cure. Quindi questo è il dilemma, come creare una situazione dove l’accesso possa essere non solo disponibile ma incrementato, e la discriminazione possa essere ridotta. Come lo risolveremo, questo resta da vedere”. Per i suddetti motivi la World Professional Association for Transgender Health10 è giunta in quegli anni alla conclusione che questa condizione dovesse ancora essere contemplata nei manuali diagnostici suggerendo, allo stesso tempo, una rivisitazione del nome e dei criteri diagnostici onde ridurre lo stigma. Tali raccomandazioni sono state accolte dall’APA che nell’ultima edizione del Manuale ha convertito il “Disturbo dell’identità di Genere” in “DG”2 adeguando i criteri diagnostici. Più di recente, nell’ultima imminente edizione dell’ICD-11, il termine “incongruenza di genere” è stato proposto in alternativa al termine “DG”, nella misura in cui si ritiene che non tutti gli individui che si identificano con un genere diverso rispetto a quello assegnato alla nascita manifestano necessariamente una disforia23.

Riassumendo, i vantaggi del modello medico-psichiatrico vengono solitamente individuati nel fatto che tale approccio, che prevede una diagnosi di DG, garantisce l’accesso alle cure per le persone transgender, facilita e garantisce una valutazione e un supporto psicologico e psichiatrico, laddove indicato e necessario, rappresenta una sorta di guida nel prendere decisioni terapeutiche e costruire protocolli di ricerca e infine, nel porre in evidenza la necessità di interventi medici, giustifica, di conseguenza, i costi per tali interventi e la rimborsabilità degli stessi7.

Tuttavia, come già in parte descritto, basarsi su una diagnosi di salute mentale per garantire l’accesso ai servizi medici è stato oggetto di molte controversie tra professionisti, ricercatori e individui transgender stessi. Queste critiche comprendono tre principali punti di discussione. Per prima cosa, i criteri per la diagnosi di DG si concentrano sul malessere individuale della persona transgender e non viene considerata la possibilità che il disagio interno che le persone transgender presentano sia invece il risultato della non accettazione della società e della discriminazione nei confronti della comunità transgender. Questo concetto è stato ben illustrato da Meyer attraverso il Minority Stress Model24. Secondo tale modello, stigma, pregiudizio e discriminazione verso le minoranze creano un ambiente così ostile e stressante da avere un effetto negativo sulla loro salute mentale. Sarebbe quindi la reazione ostile della società verso espressioni non normative di genere a essere la fonte del malessere delle persone transessuali e non l’essere transgender di per sé.

In secondo luogo, il modello diagnostico radica l’esperienza transgender in una narrativa di angoscia individuale e personale, rafforzando nel contempo il sistema binario di genere. Tuttavia, per alcune persone identificate come transgender la loro identità non è necessariamente una causa di angoscia, ma è invece una preziosa esperienza di vita. Infatti, alcuni individui transgender, anche dopo aver cambiato il proprio corpo attraverso interventi medici come ormoni e interventi chirurgici, possono abbracciare e celebrare la loro identità transgender. In questo caso, il risultato desiderato della transizione non è necessariamente quello di diventare un genere “diverso”, ma è un processo più intenzionale di costruzione di un nuovo sé riconosciuto come tale da altri nelle comunità transgender. In sintesi, si può ancora desiderare di cambiare in assenza di odio per se stessi e si può ancora celebrare se stessi, ma allo stesso tempo richiedere l’accesso ai servizi.

Infine, a causa della dipendenza dai criteri diagnostici, coloro che non segnalano una componente di sofferenza rispetto alle loro identità possono essere considerati inappropriati a ricevere servizi medici. Un effetto collaterale importante di tale modello è rappresentato dal fatto che gli individui transgender spesso istruiranno se stessi sugli standard descritti nel modello diagnostico prima di entrare in contatto con un professionista della salute mentale e diranno cosa ci si aspetta da loro per ottenere la documentazione che desiderano ottenere7.

MODELLO DI TRANSIZIONE BASATO SUL CONSENSO INFORMATO

Le suddette critiche al modello medico-psichiatrico basato sulla diagnosi di DG hanno portato negli ultimi anni allo sviluppo di modelli alternativi. Tra questi ritroviamo il “Modello del Consenso Informato”, un modello che si sta sviluppando e che viene applicato in alcune parti degli Stati Uniti, che consente ai clienti transgender di accedere a trattamenti ormonali e interventi chirurgici senza la necessità di sottoporsi a una valutazione della loro salute mentale o di ottenere un “invio” da parte di uno specialista in salute mentale. In sintesi, questo approccio all’assistenza sanitaria transgender cerca di superare la “medicalizzazione dell’identità di genere” e promuove una deviazione dall’uso della diagnosi di DG come prerequisito per accedere ai servizi di transizione. In tale modello la persona occupa un posto centrale nel percorso di transizione e ne viene rispettata l’autonomia e il diritto di autodeterminazione. L’assunto alla base del modello è che i medici lavoreranno per facilitare le decisioni dei pazienti sul corso della propria vita e percorso di cura18.

Secondo tale modello, i pazienti transgender stessi sono in grado di decidere se sono pronti ad accedere ai servizi sanitari legati alla transizione. Di conseguenza, il ruolo dell’operatore sanitario che effettua la valutazione, che negli Stati Uniti può essere rivestito da diverse figure (counselor, educatore, assistente sociale, infermiere, farmacista, psicologo, medico di famiglia o psichiatra), è quello di fornire ai pazienti transgender informazioni su rischi, eventi avversi, benefici e possibili conseguenze delle cure di conferma del genere e di ottenere il consenso informato del paziente. Ciò che viene valutato dall’operatore sanitario non è il disagio che la persona transgender potrebbe possedere rispetto alla propria identità, ma la capacità cognitiva di intraprendere una decisione “informata” in merito all’assistenza sanitaria richiesta. Tale decisione informata comprende, per esempio, una valutazione della comprensione dei rischi, dei benefici e delle informazioni necessarie per procedere con i servizi medici relativi alla transizione. A tal fine, un consulente o un fornitore di servizi medici, che sia necessariamente formato e sensibile sui percorsi affermativi di genere e la popolazione in questione, discute con la persona transgender gli aspetti sociali, finanziari, occupazionali e familiari e le conseguenze della ricezione dei servizi di transizione medica. In questo modello la psicoterapia è considerata un’opzione, non un requisito o un prerequisito per l’accesso agli ormoni e agli interventi chirurgici. Va sottolineato che il consenso informato non è “ormoni su richiesta”, in quanto vengono rispettati la competenza e il giudizio del medico curante, che dovrebbe essere un medico specializzato sui percorsi di affermazione di genere. L’identificazione del miglior trattamento possibile dovrebbe in questo modo risultare da una collaborazione tra paziente e medico curante. Inoltre, tale modello non preclude la possibilità di accedere, eventualmente, a trattamenti psichiatrici e psicologici allorché l’operatore che discute il possibile percorso di affermazione di genere al fine di ottenere il consenso informato lo ritenga opportuno per il paziente o nella situazione in cui lo stato psichico di un paziente risulti tale da compromettere la capacità di fornire un reale consenso informato7.

Sebbene il modello basato sul consenso informato sia stato a tutt’oggi accolto da un numero crescente di strutture sanitarie e singoli professionisti che servono la comunità trans-
gender, trattandosi di un modello di recente introduzione, vi sono ricerche ancora limitate inerenti l’efficacia del ricevere le cure secondo questo modello, che esplorano gli esiti per i clienti che ricevono servizi sanitari transgender in assenza di una valutazione approfondita della loro salute mentale o di un invio da parte di un medico della salute mentale.

Deutsch25 ha condotto uno studio all’interno di alcune cliniche americane che utilizzano il Modello di Consenso Informato per valutare i rischi legali della fornitura di assistenza secondo questo modello e per accertare se ci fossero casi di “rimpianto”. Da questa ricerca sono emersi pochissimi casi di “rimpianto” e non sono stati segnalati casi di “reclami per cattiva pratica medica”. Infine, solo nel 33% dei contesti laddove sono state effettuate le interviste è stata segnalata la necessità di un coinvolgimento di un operatore della salute mentale, indicando che le esigenze mediche di base dei pazienti transgender in queste strutture sembrerebbero state apparentemente soddisfatte senza la necessità di una diagnosi, di una valutazione o, in generale, di un coinvolgimento di un professionista della salute mentale.

Un’altra ricerca pubblicata più di recente fornisce uno studio approfondito del centro sanitario Fenway Health (Boston, Massachusetts), noto per fornire servizi sanitari rivolti alla comunità transgender secondo il Modello di Consenso Informato26. A partire dal 2007, questa clinica è stata un pioniere nel fornire assistenza a persone transgender senza richiedere il coinvolgimento di un professionista della salute mentale e ha rimosso le barriere per la ricezione di trattamenti affermativi di genere quali le valutazioni da parte di operatori della salute mentale e la necessità della diagnosi psichiatrica. Tra il 2007, quando è stato implementato il Modello di Consenso Informato, e la fase dell’analisi dei dati nel 2013, il numero di clienti attivi è passato da meno di 200 a oltre 100026. L’accettazione diffusa di questo modello da parte dei professionisti e dei clienti transgender sembra indicare un passaggio dalla visione dell’identità transgender come un disturbo a un modello di diversità di genere.

CONCLUSIONI

Ancora oggi molte persone transgender incontrano notevoli difficoltà nell’accedere ai trattamenti affermativi e confermativi del proprio genere. Barriere comuni comprendono problemi finanziari e assicurativi, mancanza di disponibilità di servizi con personale medico qualificato e specializzato in questo settore, oltre a paure e preoccupazioni relative alla mancata accettazione e rifiuto da parte dei familiari e della società in generale. Un gruppo di figure professionali qualificato e specificamente dedicato è senza dubbio la migliore risposta che si può offrire a queste persone, senza incorrere nel rischio di ulteriori discriminazioni. Allo stesso tempo, fondamentale importanza riveste l’educazione, non solo dei professionisti della salute e di tutti coloro che si interfacciano a queste persone nelle varie fasi del percorso, ma anche della società e del mondo della scuola, in modo da superare lo stigma e i pregiudizi intorno a questa tematica, così gravemente impattanti sulla salute dell’individuo.

A tutt’oggi, tuttavia, persiste una forte mancanza di consapevolezza e formazione in quest’ambito da parte del personale sociosanitario, che certamente non aiuta a offrire alle persone transgender la tipologia di aiuto e sostegno di cui hanno bisogno27. Ne deriva che le persone transgender sono costantemente esposte a forme di discriminazione in ambiti quali la scuola, il lavoro, la ricerca di una casa, l’assistenza pubblica e l’assistenza sanitaria. A questo si sommano gli episodi di violenza psicologica, fisica e sessuale di cui sono troppo spesso vittime a causa della profonda transfobia che ancora esiste nella nostra società. A ciò si aggiunge, in molti casi, una transfobia interiorizzata, una forma di auto stigma consistente in un disagio rispetto alla propria identità trans-
gender conseguente all’interiorizzazione dei pregiudizi sociali, con la costante aspettativa di essere sottoposti a discriminazione e la tendenza a nascondere la propria identità.

Il modello medico-psichiatrico attualmente in uso in Italia e in molti altri paesi in Europa e nel mondo è oggetto di numerose controversie, per i limiti ampiamente esposti. Allo stesso tempo non si possono non riconoscere gli indubbi vantaggi di questo modello nel favorire l’accesso alle cure, nel garantire una valutazione e un supporto psicologico e psichiatrico, laddove indicato e necessario, oltre che nel garantire una rimborsabilità degli interventi che non sarebbe concessa in caso di disconoscimento/eliminazione della diagnosi. I punti di forza del modello medico psichiatrico rappresentano i principali limiti del modello basato sul consenso informato, che tuttavia ha l’indubbio vantaggio di eliminare l’azione stigmatizzante della diagnosi psichiatrica e di superare gli evidenti limiti della diagnosi e di criteri diagnostici che non possono e non riescono a comprendere le innumerevoli sfaccettature e sfumature del mondo transgender focalizzandosi, per molti versi, sugli stereotipi dominanti che gravano su queste persone ed escludendo un’ampia gamma di individui che non aderiscono a tali stereotipi. Ciò potrebbe avere l’effetto di indurre alcune persone transgender, pur di accedere alle certificazioni necessarie, a mimare condizioni inesistenti, in linea con le aspettative dello specialista e con i criteri diagnostici, e a non riferire questioni di salute rilevanti che potrebbero ostacolare il rilascio delle suddette certificazioni, con il conseguente ridimensionamento dei vantaggi di una valutazione e presa in carico psichiatrica. Rimane inoltre controversa la questione inerente, laddove il modello basato sul consenso informato dovesse diffondersi in Italia, quali figure sanitarie e con quale livello di formazione dovrebbero occuparsi di effettuare la valutazione iniziale, andando a valutare la capacità cognitiva di intraprendere una decisione “informata” in merito all’assistenza sanitaria richiesta e il livello di disagio/malessere psicologico/psichiatrico, correlato o meno alla problematica di identità di genere, che presupporrebbe l’invio a uno specialista della salute mentale. Appare evidente come sia auspicabile, in quest’ambito, la formulazione e l’adozione di modelli e di approcci che possano da una parte facilitare il “coming out”, che non fungano da ostacolo per la persona transgender, che siano quanto più possibile accoglienti e rispettosi dei bisogni specifici della singola persona, ma che, allo stesso tempo, possano garantire la massima tutela della salute psicofisica. L’individuazione e l’adozione del modello più adatto a soddisfare i complessi e variegati bisogni della popolazione trans-
gender potrebbe certamente essere di grande aiuto a superare il disagio, a ridurre l’alto rischio suicidario e a garantire una buona qualità di vita in queste persone.


Conflitto d’interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto d’interessi.

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