Evoluzione normativa del delitto di infanticidio

Regulatory evolution of the crime of infanticide


FRANCESCA CHESSA1, GIANCARLO NIVOLI1, CRISTIANO DEPALMAS1, PAOLO MILIA1,
ALESSANDRA NIVOLI
1, LILIANA LORETTU1*

*E-mail: llorettu@uniss.it


1Dipartimento di Scienze Mediche Chirurgiche e Sperimentali, Università di Sassari


RIASSUNTO. Obiettivo di questo studio è proporre un’analisi giuridico-antropologica su un fenomeno, l’infanticidio, di grande attualità e presente in maniera significativa sulle principali pagine di cronaca. È stata rivolta particolare attenzione all’evoluzione normativa del delitto di infanticidio, avvenuta in concomitanza con la mutazione dei contesti socio-culturali, e che ha subito un arresto dal 1981. La paralisi dei meccanismi legislativi ha messo in evidenza le criticità e l’inadeguatezza dell’attuale norma, non sempre in grado di fornire una risposta esauriente alla complessità dei casi. Il processo di umanizzazione del diritto, che ha portato all’introduzione nel nostro sistema penale del reato di infanticidio in “condizioni di abbandono materiale e morale”, è stata fonte di incertezza e ambiguità sul fronte interpretativo, apportando l’evidente rischio di relegare la fattispecie normativa dell’infanticidio a casi del tutto eccezionali. Il presente studio ha cercato di evidenziare le criticità e di ipotizzare eventuali prospettive di riforma.


PAROLE CHIAVE: infanticidio, evoluzione giuridica, malattia mentale.



SUMMARY. The objective of the present study consists of the juridic-anthropological analysis of the infanticide, a phenomenon that nowadays is highly existent within the context of crime-settings. Particular consideration has been given to the legal developments of the infanticide act, which occurred simultaneously with the mutation of the socio-cultural contexts. Because the legislative process of the infanticide act has not evolved since 1981, it was possible to underline the criticisms and the inadequacy of such norm. Indeed, the legal norm has not always been able to provide an exhaustive answer concerning cases of infanticide. The process of humanisation of the law led to the introduction of a legal system, which describes the infanticide act as a condition of material and moral abandonment. This has become uncertain and ambiguous to interpret, risking to relegate the legislative matters of infanticide only to exceptional cases. The current study aims to highlight the criticisms and hypothesised different reform perspectives.


KEY WORDS: Infanticide, legal evolution, mental desease.


INTRODUZIONE

Viene definito infanticidio l’uccisione del neonato nel primissimo periodo dopo il parto. La madre che priva della vita il proprio figlio desta nell’immaginario collettivo turbamento e allarme sociale. Questo delitto scatena un sentimento di orrore perché si viene a trovare su una corrente opposta al comune concetto culturale di madre e di donna, che racchiude in sé una sorta di sacralità divina, rappresentante una figura geneticamente e culturalmente predisposta a donare, accudire e proteggere la vita del proprio bambino.

Sorge spontaneo domandarsi quali possano essere le ragioni che spingono una madre a uccidere il proprio bambino e, spesso, una risposta in grado di rassicurare è attribuire alla donna una patologia mentale, perché è rassicurante l’idea di una donna che uccide il proprio figlio in quanto imprigionata nella sua follia mostruosa. Tale prospettiva aiuta a respingere l’ipotesi che anche noi, soggetti apparentemente sani, potremmo in futuro, macchiarci dello stesso crimine1.

Tuttavia, è del tutto errato convenire all’ipotesi secondo cui una madre che uccide il proprio neonato sia sempre affetta da una patologia mentale. Perciò, anche se agli occhi della comunità l’infanticidio può apparire come un qualcosa del tutto irrazionale, innaturale e patologico, nella realtà clinica l’infanticidio si posiziona in una dimensione più ampia, in cui si trovano sia le madri che uccidono il proprio figlio nell’ambito di una psicopatologia, senza capire l’atrocità del gesto, sia le madri che con una mente terribilmente lucida, consapevole e intenzionale uccidono il proprio figlio2.

CENNI STORICI

Per una comprensione della complessità dell’infanticidio è utile intraprendere un excursus storico. Storici e antropologi evidenziano le ragioni per cui in molte civiltà l’uccisione dei propri figli trovava piena giustificazione non solo nei valori culturali, ma nella legge stessa3. Con lo sguardo rivolto al passato, si evince una netta diversità di visione e di attribuzione di valori all’infanticidio. Nell’età classica non solo era considerata pratica di uso comune per eliminare un neonato deforme, malato o semplicemente perché un peso per le finanze famigliari, tale da non destare un ben che minimo stupore, ma anzi era la legge stessa ad ammetterlo (Cesare). Vigeva il principio ius vitae ac necis, letteralmente il diritto di vita e di morte per ogni figlio, esercitato dal pater familias. Secondo lo ius sacrum e lo ius gentium, il pater familias aveva sicuramente il dovere di nutrire e allevare i figli; ma al contempo il diritto gli lasciava libero arbitrio nel decidere di sopprimerli qualora fossero nati con malformazioni o affetti da patologie, in quanto considerati privi di capacità giuridica4. Avveniva la cosiddetta “esposizione infantile” da parte dei genitori, i quali abbandonavano i propri figli appena dati alla luce in balia del freddo e della fame; una pratica con il tempo divenuta tristemente presente nella storia dell’umanità3.

È solo con l’avvento del Cristianesimo che l’infanticidio acquisisce i connotati del crimine grave, degno di essere punito con la pena capitale, in quanto considerato una massima degenerazione umana e alto tradimento alla vocazione materna. Con l’Illuminismo si genera una mutazione del contesto sociale, con una conseguente sensibilizzazione dell’opinione pubblica. È stata, anche, un’epoca ricordata per un diffuso aumento di nascite illegittime, dovute ad abusi sessuali che i signori o soldati di passaggio perpetravano nei confronti di giovanissime umili donne, approfittando della loro ignoranza e necessità di sopravvivenza. Con il contributo di scrittori e pensatori illuminati, in concomitanza con una evoluzione economica e sociale, nasce una nuova visione dell’infanticidio5. Durante l’ondata illuministica si crea un movimento che vede protagonisti grandi esponenti del mondo filosofico e giuridico, tra cui Kant, Beccaria, Carrara, Romagnosi, volto a punire meno severamente le donne che si macchiavano di tale crimine, attribuendogli carattere di specialità, in quanto ritenevano che la causa sceleris non potesse costituire il fondamento di una accentuata severità, ma al contrario dovesse porre le basi per una netta mitezza della pena. La loro linea comune di pensiero tendeva a inquadrare l’infanticidio come un delitto differente dall’omicidio, il cui fattore caratterizzante doveva individuarsi nella causa d’onore, elemento fondante della mitigazione della pena, e si dovevano considerare rilevanti sia il ruolo della diminuita capacità psichica della partoriente sia le condizioni socio economiche del contesto in cui avveniva tale crimine6.

È solo attraverso un’attenta riflessione sulle reali e profonde motivazioni che stavano alla base di questi gesti estremi e sulla base di argomentazioni di natura politica criminale di portata sociologica che si arriva a una graduale formazione della figura delittuosa dell’infanticidio7. Successivamente, nei decenni a venire, non viene apportata nessuna modifica al concetto di infanticidio, né dal punto di vista giuridico né sociologico, ci si limita a un richiamo delle posizioni penalistiche dell’800.

EVOLUZIONE GIURIDICA

È con il primo Codice del Regno d’Italia, il Codice Zanardelli del 1889, all’art. 369, che troviamo una regolamentazione dedicata al delitto dell’infanticidio, il quale viene configurato come un’ipotesi circostanziata e attenuata dell’omicidio, con un trattamento sanzionatorio più favorevole, in quanto giustificato perché commesso sotto l’impulso di un nobile motivo, quello di proteggere la propria famiglia e il proprio onore. L’onore rappresenta infatti un valore di natura pubblica, la cui perdita aveva un impatto psicologico talmente acuto, capace di generare uno stato psicofisico anomalo, tale da indurre il soggetto a preferire l’uccisione di una vita piuttosto che subire una sua pubblica rovina6.

Ma è nel 1930, con la promulgazione del Codice Rocco, che si apportano importanti modifiche all’art. 369, una tra queste è la trasformazione del reato, all’art. 578, da omicidio comune a delitto autonomo. Per poter parlare di infanticidio, così come recita l’art. 578 c.p. del 1930, era necessario che l’uccisione del bambino avvenisse subito dopo il parto, ovvero l’uccisione di un feto durante il parto, per salvare il proprio onore o quello di un congiunto; la punizione prevista era la reclusione da tre a dieci anni. Nel nuovo testo, dunque, l’uccisione di un neonato viene equiparato a quella di un feto nascente; di conseguenza, il soggetto passivo della norma è sia il neonato sia il feto. L’articolo disciplina, oltre al reato di infanticidio, anche quello di feticidio, e in tutte e due i casi il bene giuridico tutelato è la vita umana6. Nel codice Rocco si poteva parlare di infanticidio per causa d’onore solo qualora l’atto criminoso fosse avvenuto nell’immediatezza del parto, per alterate condizioni psicofisiche connesse a esso. In assenza di tali fattori, l’uccisione di un essere umano appena nato rientra nella fattispecie dell’omicidio comune, in quanto non vi è differenza della condotta di un soggetto attivo fra l’uccisione di un bambino e quella di un individuo adulto7. L’art. 578 non assume il carattere di “disposizione privilegiata”, ma semplicemente una “umanizzazione” del diritto penale, che rappresenterà l’Europa nella prima metà del secolo8.

Una svolta si ha con l’emanazione della legge n. 442 del 1981, data in cui si è deciso di sopprimere in maniera definitiva la causa d’onore, si è riformulato l’art 578 e si è attribuita maggiore rilevanza giuridica ad aspetti fino a quel momento tralasciati. Il disagio sociale, lo svantaggio economico, uno stato di emarginazione, di miseria, di solitudine e isolamento, di carenza di aiuti e clandestinità al momento del parto divengono delle variabili importanti, dalla cui presenza dipende la sussistenza dello stato di abbandono morale e materiale, che in base a quanto determinato dall’art. 578 in parte vanno a giustificare la condotta criminosa, inquadrando la pena attraverso una dimensione più moderna e attenta all’umanità dei soggetti coinvolti9.

CRITICITÀ E PROSPETTIVE

La dottrina ritiene che la dicitura riportata dall’art. 578, in riferimento alle «condizioni di abbandono morale e materiale», sia alquanto generica e ambigua, tanto da essere oggetto di interpretazioni contrapposte da parte dei giudici6. Secondo una prima interpretazione, per definizione oggettiva, la donna dovrebbe trovarsi in uno stato di isolamento tale che non le consenta di poter chiedere aiuto a presidi sanitari o ad altra persona. Accogliere un’interpretazione così rigida andrebbe a restringere l’ambito di applicazione della norma in questione, in quanto potrebbe sembrare abbastanza improbabile, al giorno d’oggi in Italia, che una donna possa in concreto trovarsi in una realtà così ai margini e così grave da non poter ricevere nessun tipo di assistenza. Ragion per cui, in alcune sentenze, ritroviamo la tendenza a dare maggiore rilevanza a un’interpretazione “maggiormente psicologica” ai requisiti previsti dalla norma6. In relazione a questa linea di pensiero, l’abbandono materiale e morale si va a identificare in una solitudine interiore, determinata dall’assenza di un qualsiasi sostegno e di assistenza durante la gestazione, che aumenta durante il parto, provocando nella donna uno stato di derelizione, di incomunicabilità e di sconforto.

La Corte di Cassazione più volte si è espressa in favore di un’interpretazione maggiormente psicologica, portando in evidenza il concetto secondo il quale la condizione di abbandono materiale e morale, pur rappresentando un carattere essenziale che deve sussistere in concreto, non deve avere carattere di assoluta oggettività, in quanto al fine di integrare la situazione tipica è sufficiente anche solo la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale9. In sentenze più recenti si è ravvisata un’ulteriore modalità interpretativa, tendente a rilevare il vizio di mente, attraverso degli iter tortuosi, come tecnica di clemenza nei confronti delle donne infanticide tutte le volte in cui non si evidenzia la natura dolosa del fatto, evitando di configurarlo come omicidio aggravato6. In questi anni ci si è trovati davanti a una paralisi dei meccanismi legislativi, in particolare quelli inerenti la riforma del codice penale. Tra le cause il continuo tournover delle commissioni ministeriali legate al cambio ai vertici del governo.

A differenza dei nuovi codici europei, propensi sempre di più all’eliminazione del delitto di infanticidio come titolo autonomo di reato, in Italia le commissioni tendevano a una conservazione dell’art. 578 c.p., con una previsione di una formulazione più ampia. Una proposta, della Commissione Pagliaro identificava l’infanticidio come un reato commesso “in condizioni di isolamento psicologico” e tendeva a valorizzare la condizione di abbandono materiale e morale considerandole anche in maniera alternative piuttosto che congiuntamente. Tale proposta avrebbe contribuito a rendere più chiaro e di più facile applicabilità l’art. 5786. L’eliminazione dell’art. 578 dal nostro codice penale farebbe ricadere l’infanticidio direttamente nel delitto di omicidio di cui all’art. 575 c.p., e questo costringerebbe il giudice a valutare non più un delitto di infanticidio, ma un comune omicidio doloso, aggravato dalla circostanza di cui all’art. 577 n.1 c.p. (omicidio del discendente); e questo comporterebbe l’impossibilità di attribuire l’unica attenuante di cui all’art. 62 n. 1 c.p.

CONCLUSIONI

Risulta evidente come l’attuale formulazione dell’art. 578 non sia in grado di dare delle risposte esaurienti alle esigenze dell’attuale politica criminale. Si è infatti ormai palesemente lontani anni luce dall’individuare il più benevolo trattamento sanzionatorio per la madre infanticida, nella totale mancanza di assistenza pubblica e sanitaria, in quanto l’abbandono invocato dalla norma diverrebbe ipotesi del tutto eccezionale; e si è giunti anche a una maggior distanza da tutte quelle pronunce giurisprudenziali che prospettano una vaga vulnerabilità dal punto di vista psicologico nell’imminenza del parto quale elemento insito nell’abbandono morale, e che invece potrebbe considerarsi come condizione di minor responsabilità psicologica, o come attenuante e, in casi più gravi, come presupposto per discutere di difetto di imputabilità.

Si evince dunque la necessità di una riformulazione dell’art. 578 il più possibile coordinata all’evolversi della società italiana e con i più recenti studi psicologici intorno al fenomeno della maternità. Sicuramente l’orrore che suscita il delitto di infanticidio porta la nostra coscienza a non accettare e a ritenere assurdo qualsiasi trattamento di natura favorevole alla madre infanticida. Tuttavia, al di là della capacità di intendere e volere, non si può non prendere in considerazione e non riconoscere rilevanza penale a tutti quei casi in cui l’uccisione del neonato avviene effettivamente in una condizione psicologica alterata o in uno stato di abbandono materiale e morale. Si potrebbe però ricondurre un regime sanzionatorio “privilegiato”, come circostanza attenuante o come fattispecie autonoma, in una nuova ipotetica figura criminosa dell’omicidio pietoso10.

Il volere ricondurre l’infanticidio all’omicidio pietoso è basato sul fatto che in entrambi il giudizio di minore disvalore è determinato da una minore colpevolezza del soggetto agente. In entrambi i casi non si ha nessun dubbio che la condotta criminale sia equiparabile a quella dell’omicidio doloso comune; di conseguenza è preferibile adottare per le due figure criminose il medesimo trattamento, configurandole come figure autonome con una pena edittale sensibilmente ridotta rispetto all’omicidio doloso, o prevedendole come speciali circostanze attenuanti dell’omicidio. Sarebbe utile un adeguato riconoscimento giuridico al reato di infanticidio che eviti di ricorrere alla formula della infermità mentale temporanea, nell’ambito di una “clemenza sociale” nei confronti della madre che uccide. Oltre un intervento normativo sarebbe auspicabile un intervento socioassistenziale strutturato, volto a proteggere l’unità madre-bambino sin dalle primissime fasi, fornendo un supporto e un sostegno di facile accesso e fruibilità, consapevoli che ancora oggi «l’infanticidio nasce dalla durezza della vita piuttosto che dalla durezza del cuore»11.


Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

bibliografia

 1. Nivoli GC. Medea tra noi: le madri che uccidono il proprio figlio. Roma: Carocci Editore, 2002.

 2. Lorettu L, Roy R, Nivoli A. Violenza al femminile: l’altra faccia della medaglia. Noos 2018; 24: 25-33.

 3. Pinker S. Il declino della violenza. Milano: Mondadori, 2011.

 4. Pessina E. Elementi di diritto penale II, vol.1. Napoli, 1882.

 5. Amore A. L’infanticidio. Analisi della fattispecie normativa e prospettive di riforma. Padova: CEDAM, 2011.

 6. Carrara F. Programma del corso di diritto criminale, vol.1. Lucca, 1872.

 7. Pronuncia Corte di Cassazione, sez. 1, sentenza n. 49993 del 7 ottobre 2010.

 8. Ambrosetti E. Infanticidio e la legge penale. Padova: CEDAM, 1982.

 9. Antolisei F. Manuale di diritto penale, parte speciale 1. Milano: Giuffrè, 1996.

10. Caraccioli I. Manuale di diritto Penale, parte generale. Padova: CEDAM, 2006

11. Milner LS. Hardness of heart/hardness of life: the stain of human infanticide. Lanham, MD: University Press of America, 2000.