Emergenze epidemiche e stigma sociale.
Quali insegnamenti trarre dalle precedenti epidemie di SARS ed Ebola da applicare nell’attuale pandemia CoViD-19?

Epidemic emergencies and social stigma.
Which lessons should we learn from SARS and Ebola epidemics for the current CoViD-19 pandemics?

ANTONIO LASALVIA1*
E-mail: antonio.lasalvia@univr.it

1Sezione di Psichiatria, Dipartimento di Neuroscienze, Biomedicina e Movimento, Università di Verona

RIASSUNTO. Le letteratura scientifica prodotta nel corso delle più recenti emergenze epidemiche internzionali, per esempio SARS ed Ebola, evidenzia che le persone colpite da tali infezioni vengano spesso etichettate, rifiutate, discriminate, assoggettate a una perdita di status a causa del legame percepito con la malattia. Tali esperienze di discriminazione possono avere effetti negativi non solo sui pazienti, ma anche sulle loro famiglie, sui loro amici e sulla loro comunità. È possibile che chi si è ammalato di CoViD-19 possa sperimentare vergogna, colpa e isolamento derivante dallo stigma sociale. Per questo è importante fare tesoro delle esperienze maturate nel corso delle precedenti crisi epidemiche, per mettere tempestivamente in atto misure atte a contrastare questa ulteriore ricaduta negativa della pandemia.

PAROLE CHIAVE: discriminazione, stigma sociale, CoViD-19.


SUMMARY. Scientific literature produced during the most recent international epidemic emergencies, such as SARS and Ebola, highlights that infected persons are often labeled, rejected, discriminated and subjected to loss of status due to their perceived link with the disease. Such experiences of discrimination may have detrimental effects on both patients, their family members, friends and communities. It is also possible that those who have been infected with COVD-19 may experience shame, guilt and sense of isolation arising from social stigma. It is therefore important to take full advantage of experiences gained during past epidemic crises, in order to implement timely measures to tackle this further negative consequence of the pandemic.

key words: discrimination, social stigma, CoViD-19.

INTRODUZIONE
La storia delle emergenze sanitarie – soprattutto di quelle epidemiche – insegna che i temi legati alla paura, all’incertezza e allo stigma ricorrono con elevata frequenza, rappresentando importanti ostacoli alla realizzazione di tempestivi ed efficaci interventi preventivi e curativi1. È noto, infatti, che le persone spaventate dalla malattia e intimorite dal rischio di essere pubblicamente additate come “infette”/“infettanti” tendono a sottrarsi alle campagne di screening ed evitano di richiedere aiuto nelle fasi iniziali o paucisintomatiche dell’infezione, favorendo in tal modo la diffusione del contagio.
Quello dello stigma è un tema di cui si parla ancora poco nella fase attuale della pandemia da SARS-CoV-2. Ma la questione è assai delicata e merita di essere approfondita. È necessario porre attenzione al fatto che le persone affette da CoViD-19 e le loro famiglie non sperimentino – oltre ai problemi legati all’infezione (compreso il rischio per la vita) – anche la vergogna e l’isolamento che può derivare dallo stigma sociale. Questo rischio, verosimilmente, potrà essere particolarmente elevato una volta terminata l’emergenza sanitaria vera e propria. Ma alcuni recenti resoconti di stampa indicano che la “caccia all’untore”, con la correlativa applicazione di tutto il penoso corteo di stereotipi negativi e atteggiamenti stigmatizzanti, è probabilmente già in corso in questa fase.
Il termine “stigma” viene utilizzato in ambito sociologico per indicare una condizione di discredito che affligge la percezione sociale di una persona (o di un determinato gruppo umano), impedendone l’accoglimento in un ordinario rapporto sociale2. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce lo stigma come «un marchio di vergogna, di disgrazia, di disapprovazione che fa rifiutare, discriminare ed escludere un individuo da contesti e situazioni proprie della vita sociale»3. Tale marchio può riguardare alcune caratteristiche personali che denotano una devianza sociale, l’appartenenza a un gruppo etnico, un handicap fisico, un disturbo mentale o una malattia somatica. Nei confronti della persona appartenente al gruppo screditato vengono messi in atto atteggiamenti di rifiuto, esclusione, evitamento e discriminazione.
Nel corso di un’epidemia può accadere che le persone colpite dall’infezione vengano etichettate, stereotipate, discriminate, allontanate e/o soggette a una perdita di status a causa di un legame percepito con quella malattia. Tale esperienza può avere un effetto negativo sulle persone colpite dalla malattia, nonché sulla loro famiglia, sui loro gli amici e sulla loro comunità. Anche le persone che non hanno contratto la malattia, ma che condividono alcune caratteristiche con questo gruppo, possono essere oggetto di stigma4.
LO STIGMA SOCIALE IN RELAZIONE ALLE EPIDEMIE DI SARS ED EBOLA
Le evidenze di letteratura che hanno dato conto dei meccanismi alla base dei processi di stigmatizzazione sociale in corso di emergenze epidemiche provengono da studi condotti in Cina e Canada in occasione dell’epidemia di SARS del 2003 e, più recentemente, nei paesi dell’Africa occidentale (soprattutto Liberia, Sierra Leone, Ghana e Senegal) durante l’epidemia di Ebola del 2014. Questa letteratura ha dimostrato come lo stigma sociale rappresenti una delle più perniciose conseguenze distali delle strategie di isolamento e/o quarantena delle persone infette o potenzialmente tali. Atteggiamenti di paura, diffidenza, rifiuto, distanziamento nei confronti degli “infetti” da parte dei “non infetti” sembrano, infatti, perpetuarsi anche a distanza di tempo dallo scoppio e dalla risoluzione dell’epidemia. Numerosi studi riportano che le persone sottoposte a misure di contenimento durante le epidemie di SARS e Ebola, una volta ritornate alla loro vita consueta, sono state trattate in maniera ingiustificatamente diversa da parte degli altri: in particolare, queste persone hanno riferito di essere state evitate da amici e conoscenti, di essersi sentite trattare con paura e sospetto, hanno riferito una riduzione (o addirittura l’interruzione) degli inviti a eventi sociali e di essersi sentite oggetto di commenti malevoli o critici5-14.
Uno studio effettuato in Liberia durante l’epidemia di Ebola ha evidenziato che lo stigma sociale conseguente alle misure di contenimento aveva condotto a una vera e propria privazione dei diritti civili di alcune minoranze etniche, in quanto quelle famiglie in quarantena erano state percepite come pericolose perché “diverse” dal resto della popolazione15. Gli effetti dello stigma legato all’Ebola hanno coinvolto non solo le persone in quarantena, ma anche coloro che erano sopravvissuti alla malattia e i loro familiari16. Queste ricerche hanno dimostrato che la paura rappresenta la forza trainante nel processo di stigmatizzazione, in quanto la malattia era molto virulenta, altamente mortale e priva di cure efficaci. Il sentimento di impotenza rappresenta il secondo drive principale. Il sensazionalismo con cui venivano riportate le notizie sull’epidemia e la diffidenza della popolazione nei confronti delle autorità statuali rappresentano fattori che amplificano la paura e aumentano lo stigma16. È stato anche visto che le persone sottoposte a quarantena, nel timore di venire stigmatizzate, non richiedevano aiuto sanitario per problemi di salute non legati all’infezione Ebola, preferendo mantenere segreta la propria condizione17, contribuendo in tal modo ad amplificare l’emergenza sanitaria e, indirettamente, i danni prodotti dall’epidemia. Interessante notare che le esperienze di stigmatizzazione sociale da parte di coloro che dopo aver contratto l’infezione erano sopravvissuti alla malattia tendono a mantenersi per almeno un anno dopo la guarigione18; e sono necessari non meno di due anni perché le esperienze di rifiuto e discriminazione si riducano significativamente19.
Gli effetti della stigmatizzazione sono stati studiati anche nei professionisti sanitari che hanno fornito assistenza a chi ha contratto la malattia. In uno studio, effettuato a Taiwan20 nel corso dell’epidemia SARS, che ha confrontato un gruppo di operatori sanitari sottoposti a quarantena rispetto ad altri non sottoposti a tale misura, è stato evidenziato che i primi riportavano più frequenti esperienze di evitamento e di rifiuto sociale. Risultati sostanzialmente sovrapponibili sono stati trovati in uno studio canadese condotto anch’esso in occasione dell’epidemia SARS in cui le preoccupazioni manifestate dal personale sanitario che aveva contratto la malattia erano legate, immediatamente dopo il contagio, oltre che al comprensibile timore per il proprio stato di salute e alla paura di diffondere il contagio a parenti e familiari, alla paura di essere allontanati e rifiutati dagli altri21. Gli operatori sanitari coinvolti nell’epidemia di Ebola in Senegal hanno riferito che la quarantena aveva indotto le proprie famiglie a ritenere che il loro lavoro fosse eccessivamente rischioso, generando in tal modo tensioni intrafamiliari e coniugali12. Nello stesso studio, alcuni operatori avevano riferito di non essere stati in grado di rientrare in servizio una volta terminato il periodo di sorveglianza sanitaria, in quanto i datori di lavoro avevano preferito tenerli a casa nel timore di un possibile contagio. Anche medici europei che avevano prestato servizio in ospedali africani durante l’epidemia di Ebola hanno riportato, una volta rientrati nei propri paesi, esperienze di stigmatizzazione legate alla paura da parte di amici o conoscenti di poter contrarre tramite loro l’infezione22. In questo caso è entrato in azione quel processo ben noto in letteratura come “stigma di cortesia” o “stigma per associazione” (courtesy stigma)2, attraverso cui persone che hanno un rapporto sociale di stretta prossimità con singoli individui stigmatizzati o che lavorano in contesti in cui si presta loro assistenza finiscono per subire – in via transitiva – gli effetti dello stigma. Il problema della stigmatizzazione degli operatori sanitari durante le epidemie rappresenta una questione particolarmente delicata, in quanto il timore di essere etichettati può evocare, nel personale già emotivamente provato e in burn-out, reazioni di rifiuto rispetto a eventuali proposte di aiuto specialistico, con il risultato di attivare un pericoloso circolo vizioso che alimenta isolamento e disagio psicologico (se non patologia mentale franca) in questa categoria particolarmente esposta. E questo, per altro, è un dato già messo chiaramente in evidenza nel personale sanitario cinese a Wuhan23 nel corso dell’attuale pandemia da CoViD-19.
È possibile che le informazioni diffuse dai mass media possano contribuire a generare atteggiamenti stigmatizzanti da parte della popolazione nei confronti di chi è venuto in contatto con la malattia. I mass media rappresentano, infatti, un potente strumento per plasmare l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti di un determinato fenomeno sociale. Ed è effettivamente provato che durante l’epidemia SARS titoli di giornale drammatizzanti e allarmistici hanno contribuito a produrre atteggiamenti stigmatizzanti24. Anche nel corso della più recente epidemia di Ebola è emerso che la rappresentazione della malattia fornita dai mass media ha giocato un ruolo centrale nell’aumentare la percezione del rischio di infezione nella popolazione generale, contribuendo ad accentuare atteggiamenti di ostilità e diffidenza nei confronti delle persone venute in contatto (anche solo per motivi lavorativi) con potenziali contagiati22. Fornire alla popolazione generale informazioni precise sulle caratteristiche della malattia e sul razionale delle misure di contenimento può rappresentare, quindi, uno strumento efficace per ridurre la stigma sociale in corso di epidemia. Uno studio effettuato in Ghana durante l’infezione da Ebola ha messo in luce che il livello di conoscenza del problema e il fatto di possedere informazioni non distorte sulla malattia e sulla sua trasmissione rappresentano fattori protettivi rispetto allo sviluppo di comportamenti stigmatizzanti25. Tutto ciò evidenzia la necessità da parte delle autorità sanitarie di fornire alla popolazione una informazione efficace, costituita da messaggi rapidi e chiari, allo scopo di promuovere un livello accurato di comprensione del fenomeno.
LO STIGMA SOCIALE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
Purtroppo non abbiamo ancora a disposizione una letteratura in grado di farci comprendere quale sia il rapporto tra l’infezione da SARS-CoV-2 e lo stigma sociale. Anche i dati provenienti dalla Cina sono molto scarsi.
La fase iniziale della pandemia CoViD-19 nel nostro Paese ha messo in luce, così come riportato da alcuni organi di stampa nazionale, episodici comportamenti discriminatori nei confronti di persone provenienti dalla Cina (o di chi in qualche modo presentava caratteri somatici ad esse riconducibili) e di chiunque si ritenesse essere stato in contatto con persone potenzialmente infette. Non abbiamo tuttavia a disposizione che informazioni aneddotiche al riguardo.
È possibile individuare tre elementi costitutivi alla base dello stigma sociale associato al CoViD-19: 1) la mancanza di informazioni certe sulla malattia (si tratta infatti di un’infezione di cui non si sa praticamente nulla e per la quale non esistono al momento vaccini e terapie); 2) la reazione emotiva di paura, del tutto comprensibile, legata a ciò che non si conosce; 3) la tendenza ad associare, con un facile cortocircuito, questa paura all’“altro” da sè. È comprensibile che ci siano confusione, ansia e paura tra la gente. Ma, purtroppo, queste reazioni emotive stanno anche facilitando lo strutturarsi di stereotipi pericolosi.
Lo stigma può minare la coesione sociale e può indurre all’isolamento dei gruppi oggetto di stigmatizzazione. Ciò può contribuire a creare una situazione in cui il virus ha maggiore probabilità di diffusione. Abbiamo visto che la letteratura indica chiaramente come lo stigma e la paura nei confronti delle malattie trasmissibili ostacolino l’implementazione di corrette risposte di sanità pubblica1. Serve, quindi, creare un clima di fiducia nei confronti dei servizi sanitari e delle raccomandazioni sanitarie affidabili, serve mostrare empatia con le persone colpite, spiegare la malattia e adottare misure efficaci e facili da mettere in pratica in modo tale che gli stessi cittadini possano proteggersi e proteggere i propri cari.
Allo scopo di prevenire lo sviluppo dello stigma sociale nei confronti delle persone colpite da CoViD-19, la Federazione Internazionale della Croce Rossa (IFRC), l’UNICEF e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) hanno prodotto un documento, che contiene una serie di raccomandazioni del Johns Hopkins Center for Communication Programs, READY Network, finalizzato ad aiutare gli operatori dei mass media a utilizzare un linguaggio adeguato, proprio in un periodo in cui “l’infodemia” della disinformazione, delle voci incontrollate e delle fake news sta penetrando nel tessuto della nostra società a una velocità decisamente maggiore di quella del virus. Il documento, denominato “Social Stigma associated with CoViD-19. A guide to preventing and addressing social stigma”, può essere scaricato nella versione originale inglese dal sito dell’OMS26. L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha realizzato una buona traduzione italiana del documento, anch’essa disponibile on line27.
Un linguaggio connotato in termini negativi che perpetua gli stereotipi esistenti, che rinforza false associazioni tra la malattia ed altri fattori, che genera paura o che disumanizza coloro che contraggono il virus può portare a comportamenti tali da indurre le persone a non farsi controllare, a non farsi visitare e non rimanere in quarantena. Quando si parla di coronavirus, alcune parole (per esempio, “caso sospetto”, “isolamento”) possono avere un significato negativo per alcune persone e dunque alimentare atteggiamenti stigmatizzanti. L’uso di espressioni colpevolizzanti o de-umanizzanti possono dare l’impressione che chi ha contratto il virus abbia commesso qualcosa di sbagliato o sia in qualche modo “meno umano” rispetto agli altri. Il linguaggio con cui vengono veicolate le informazioni su CoViD-19 è fondamentale per supportare le persone a intraprendere azioni efficaci a combattere la malattia e per impedire di alimentare la paura e lo stigma. È necessario creare un clima in cui la malattia e il suo impatto possano essere discussi e affrontati in modo aperto, onesto ed efficace. Il documento offre suggerimenti pratici su come affrontare lo stigma sociale legato alla malattia, raccomandando quali specifiche parole e frasi utilizzare (e, soprattutto, quali evitare) e come veicolare in maniera efficace messaggi corretti sull’infezione. Viene raccomandato l’uso di un linguaggio adatto ai vari canali di comunicazione, che sia rispettoso della dignità delle persone e che possa essere facilmente recepito da tutti. Le parole utilizzate sono particolarmente importanti, perché contribuiscono a dare forma al linguaggio popolare e alla percezione sociale del nuovo coronavirus. Espressioni negative nel racconto della malattia possono influenzare il modo in cui sono percepite e trattate le persone che si pensa possano essere venute in contatto con il virus, cioè i malati, le loro famiglie e le comunità colpite da CoViD-19. Nel documento vengono, infine, forniti esempi concreti su come l’uso di un linguaggio inclusivo e di una terminologia non stigmatizzante possa contribuire a controllare epidemie e pandemie, come nel caso dell’HIV, della TB e dell’influenza H1N1.
CONCLUSIONI
Il linguaggio – quello utilizzato da organismi governativi, autorità sanitarie e mezzi di comunicazione di massa – svolge un ruolo cruciale nell’alimentare, o al contrario ridurre, stereotipi e pregiudizi. È quindi importante correggere le credenze distorte, ma allo stesso tempo riconoscere che i sentimenti che prova la gente e i comportamenti a questi associati sono comprensibili, anche se l’assunto di base è sbagliato. È necessario promuovere la solidarietà collettiva e la cooperazione sociale per prevenire la trasmissione della malattia e alleviare le preoccupazioni delle comunità. È necessario diffondere racconti che generano empatia o storie che umanizzano le esperienze e le difficoltà delle persone colpite dal virus. È necessario esprimere sostegno e incoraggiamento a coloro che sono in prima linea nella risposta all’epidemia (operatori sanitari, forze dell’ordine, soccorritori, volontari, ecc.). È anche necessario, parallelamente, avviare le persone che sperimentano il peso dello stigma sociale (siano essi cittadini sopravvissuti alla malattia o operatori sanitari sottoposti a quarantena perché trovati positivi al virus) a specifici interventi di sostegno emotivo e/o di counseling. È importante, infine, fare tesoro delle esperienze maturate nel corso delle precedenti epidemie e dei dati che la letteratura ci ha consegnato, consapevoli del fatto che ogni epidemia è comunque dotata di specifiche dinamiche interne e che non tutte le indicazioni ritenute valide in un dato contesto socio-culturale e momento storico sono esportabili alla pandemia in corso. Tutto ciò per non farci cogliere impreparati nel momento in cui dovremo affrontare il problema dello stigma sociale nella fase post-epidemica. E per non commettere errori che potrebbero avere gravi conseguenze.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.
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27 IFRC (International Federation of Red Cross, and Red Crescent Societies), UNICEF e WHO. Social Stigma associated with COVID-19. A guide to preventing and addressing social stigma, versione italiana: https://bit.ly/38L16Ja