Jean Dubuffet e l’arte dei folli

A cura di Martina Giubila
Sapienza Università di Roma
E-mail: martina.giubila91@gmail.com





Jean Dubuffet è una delle personalità più interessanti dell’arte europea del periodo postbellico, per la complessità del suo linguaggio insieme colto e primitivo, intellettuale e istintivo, coerente e imprevedibile.
Animato da una insaziabile curiosità e da una vastità di interessi che lo porta a sconfinare nei campi più disparati dell’arte visiva, questo artista eclettico è attratto dalle manifestazioni grafiche dei popoli primitivi, dalla produzione istintiva e spontanea degli artisti di strada, dei graffitisti, dei bambini e dei pazzi.
Lo interessano le persone prive di formazione culturale, che vivono ai margini della società, autodidatti, estranei ai circuiti dell’arte tradizionale, dal linguaggio figurativo personale che esprime un proprio mondo dell’immaginario, talvolta sconcertante, riconoscendo alla tensione emotiva che si accompagna alla creatività febbrile del vero artista la possibilità di rompere i contatti con la realtà e portare alla follia, stato mentale favorevole alla creazione artistica.
L’interesse degli psichiatri ai prodotti “artistici” dei malati risale in realtà alla metà dell’Ottocento. In quest’epoca nacquero all’interno dei manicomi le prime collezioni di disegni, pitture, sculture, quaderni di scritti. Ma è solo intorno agli anni Trenta del Novecento, che in Francia l’art des fous, o l’arte dei pazzi, iniziò a interessare tanto i critici quanto i ricercatori medici. I surrealisti in particolare arrivarono alla conclusione secondo la quale, alla pari dei loro dipinti e della loro poesia, l’art des fous sembrava toccare aree del cervello di solito inesplorate.
Jean Dubuffet sviluppò quest’idea negli anni Quaranta incorporando l’art des fous nell’arte da lui definita art brut, che includeva anche dipinti naïf e primitivi; era un’arte dei non acculturati, che sfuggiva ai condizionamenti sociali e al conformismo borghese, al di fuori della tradizione e delle mode, al di fuori del sistema delle arti, delle scuole, delle gallerie, dei musei e anche delle convenzioni estetiche, arte genuina e immediata, che recuperava il substrato primitivo dell’arte arcaica, con selve di segni e disegni casuali, incontrollati e liberi.
Dubuffet spenderà il resto della sua lunga vita a darle credito, a ottenerle riconoscimenti e a scovarle una sede museale capace di tramandare ai posteri questa sua creatura.
Quest’arte era fragile, minacciata nella sua esistenza non già per qualche sua intima carenza, o per un assoluto distacco dalle attese del pubblico, ma per quel codicillo che fin dall’origine appartenne al suo statuto, che le impose di nascere e di crescere lontana da ogni logica di mercato. Altre avanguardie, è vero, avevano proclamato a gran voce la stessa esigenza; ma si poteva, alla fine, non tenerne conto, considerare quell’esigenza di purezza alla stregua di un’ennesima stramberia dell’artista alla perenne ricerca di nuove provocazioni.
Il caso dell’art brut era però diverso. Essa era nata nei manicomi e nelle prigioni, o al più in qualche grotta lontana dalla civiltà, promossa da uomini e donne segregati dalla società ben oltre quel confine che prevede la possibilità di un atto comunque costruttivo, e come tale riconoscibile. Dubuffet lo insegnava a chiare lettere ai suoi adepti; anzi, insegnava loro solo questo: impegnatevi, diceva loro, a rendere i vostri quadri invendibili. E loro obbedivano o meglio, continuavano a fare, una volta scoperti da lui, proprio quello che avevano sempre fatto: a nascondere le loro opere sotto i materassi, a ricoverarle nel buio di una caverna, a rinchiuderle in scatole accuratamente sigillate. Per questo l’ art brut era fragile, perché contestava alla radice uno dei capisaldi del sistema dell’arte; per questo, c’è da crederlo, Dubuffet trovò tanta ostilità nel cercare di darle un solido e durevole credito; per questo egli fu tradito persino da uno dei suoi primi sostenitori, André Breton, che alla fine stabilì che l’arte dei pazzi non poteva avere cittadinanza nel regno dell’arte; per questo, infine, Dubuffet non trovò nella pur civilissima Parigi un solo luogo dove quei materiali potessero continuare e vivere la loro vita volutamente troppo marginale. E dovette emigrare. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta terrà, infatti, numerose retrospettive in Europa e in America.
Ciò che caratterizzerà sempre la vocazione artistica di Dubuffet, come tra l’altro dichiara lui stesso, è che non bisogna andar lontano per cercare le rarità, basta guardarsi attorno, perché anche le cose brutte nascondono meraviglie insospettate. Anche l’uomo medio, coi mezzi comuni a sua disposizione può creare autentici capolavori. Afferma senza mezzi termini che «quel che si guasta nell’opera d’arte quando si vuol far meglio è l’ingenuità». Quella che ha chi non è del mestiere e dipinge per uso proprio o passione. I suoi interessi non si limitano a tradursi in semplici dichiarazioni di principio. Organizzerà così mostre di lavori di alienati mentali ed emarginati. Sarà sempre affascinato dal loro modo istintivo e immediato di lavorare. Una naturalezza che lo conduce a elaborare egli stesso forme elementari e infantili.
per approfondire
• Da Costa V, Hergott F. Jean Dubuffet: œuvres, écrits, entretiens. Paris: Éditions Hazan, 2006.
• Danchin L. Jean Dubuffet. Peintre philosophe. Paris: Éditions de l’Amateur, 2001.
• Dubuffet J. Asfissiante cultura. Milano: Abscondita, 2006.
• Franzke A. Dubuffet. Paris: Éditions Gallimard, 1975.
• http://www.artdreamguide.com/_arti/dubuffet/work.htm
• http://dasservizi.uniroma1.it/pdf/dispense/cavallo/4_artepsichiatria.pdf
• http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1988/03/15/un-totem-di-pietra.html
• http://www.treccani.it/enciclopedia/jean-dubuffet/