Dettagli di montaggio nell’arte figurativa

A cura di Eleonora Del Riccio
Sapienza Università di Roma
E-mail: elo-dr@hotmail.it





Questo lavoro ha lo scopo di verificare l’esistenza di una connessione tra il concetto di montaggio elaborato nella
Teoria generale di Sergej Michajlovicˇč Ejzenštejn, scritta tra il 1935 e il 1937, e l’Atlante delle immagini architettato da Aby Warburg pochi anni prima di morire. Lo scopo di questo parallelo è quello di ripercorrere e ampliare molti dei temi affrontati nel corso del tempo in questa rubrica.
Le immagini che compongono l’Atlante, che significativamente è intitolato alla Memoria, sono di diverso tipo: la maggior parte sono riproduzioni fotografiche di opere d’arte, ma compaiono anche ritagli di giornale, francobolli e fotografie di eventi o personaggi contemporanei a Warburg. Le immagini erano montate su pannelli di legno foderati di lino nero secondo degli accostamenti che, impropriamente, si possono definire tematici e che spaziavano dall’astrologia, alla mitologia, alla sopravvivenza dell’antico nelle sue forme espressive durante il Rinascimento e il Barocco. Non si può parlare davvero di raggruppamenti tematici fine a se stessi perché le tavole mostrano una serie di percorsi che coinvolgono i più diversi ambiti disciplinari, così come le più diverse relazioni ambientali e temporali.
Tuttavia, ci sono due grandi temi attorno ai quali ruota questo complesso apparato: l’espressione e l’orientamento. L’espressione è, in prima battuta, quella modalità attraverso la quale lo sconvolgimento patetico che permea la statuaria greca ed ellenistica si manifesta concretamente. Si pensi all’espressione dolorante del volto del Laocoonte, al momento fugace che viene cristallizzato nel marmo dello sfortunato sacerdote che aveva profetizzato la sconfitta di Troia. Ma questa irrequietezza classica non doveva dimostrarsi solo una particolarità del Laocoonte, al contrario essa era una caratteristica essenziale della civiltà antica che trova la sua espressione concreta in alcune figure femminili, tipizzate poi come ninphae, e che trasmigra nei secoli arrivando fino al Rinascimento fiorentino che troverà in questo genere di sconvolgimento dionisiaco le qualità formali a cui corrisponde un determinato contenuto che può riemergere proprio grazie a quelle forme. Queste ultime, le formule di pathos, perdono quindi qualsiasi accezione meramente estetica per diventare i veicoli di una necessità espressiva propria del genere umano e che, trasmigrando attraverso i secoli e i luoghi pur non perdendo contatto con la radice originaria, si tramutano diventando ora le menadi di Albrecht Dürer che afferrano e dilaniano Orfeo, ora la fanciulla dalle fogge in movimento di Domenico Ghirlandaio nella Cappella Tornabuoni. Si potrebbe sostenere che la vera opera d’arte nasce proprio grazie a questa tensione tra la forma, che da sola non è in grado di manifestare ciò che per sua natura non lo è, e il contenuto, che aspira a mostrarsi e che può riuscire in questo intento solo tramite le forme significanti.
La polarità tra apollineo e dionisiaco, tra mito e scienza, tra logos e pathos, tra ripetizione e innovazione è il terreno da cui germoglia l’immagine e in cui questo conflitto riesce a trovare un temporaneo equilibrio tra forze che si neutralizzano. Questo terreno intermedio è lo spazio del pensiero: Donald Winnicott lo definirà come lo “spazio intermedio” o “potenziale”.
Quale sia la relazione che intercorre tra quanto detto e la Teoria generale del montaggio deve essere ancora chiarita, e per farlo si partirà dalla duplice definizione di questo termine. Sia che si intenda il montaggio come uno strumento attraverso cui scomporre analiticamente gli oggetti e gli eventi per poi averli restituiti insieme al senso del loro divenire, sia che lo si veda come lo strumento che rinvia al confluire degli eventi separati nello spazio e nel tempo in una simultaneità che sia un’unità e non una semplice giustapposizione, il confronto con le teorie warburghiane non solo è possibile, ma è anche doveroso per comprendere quanto la necessità della rappresentazione della sequenzialità del movimento – sia esso espressivo, come nei casi che si sono già presi in considerazione, o semplicemente dativo – sia stata una priorità per la produzione figurativa.
La scomposizione e la seguente ricomposizione in nome di un’unità più alta è all’origine del concetto di montaggio a tal punto che Ejzenštejn intitolò un paragrafo a Dioniso come mito fondante della nascita di questo processo. L’azione di culto del dio, intesa come lo smembramento del capo tribù o il divoramento dell’animale totemico che aveva luogo durante i riti dionisiaci, trapassa gradualmente nel simbolo del rito stesso in cui si conserva il cerimoniale e l’atto del mangiare. Lo stadio finale di questo passaggio è la creazione dell’immagine artistica patetica, quella che ha a che fare con la lotta, il sacrificio, il rapimento o la danza delle menadi in preda all’estasi. E inoltre, questa ricomposizione si conserva nei miti della morte e resurrezione di cui Dioniso è l’esempio tipico, ma che si possono rintracciare in tutti i miti della caduta e dell’ascesa, come quello di Fetonte, di Callisto o di Orfeo.
La disgregazione poi è una caratteristica che può essere traslata sulle forme che la pratica cubista e futurista esercita al fine di assicurarsene la produzione di nuove. Così come il fare a pezzi può diventare il contenuto stesso dell’opera, è il caso della “tana” di Louise Bourgeois significativamente intitolata Distruzione del padre (1974).
Per quanto riguarda l’altra definizione del concetto di montaggio che ha a che vedere con la simultaneità, la storia dell’arte abbonda di esempi in cui, principalmente per esigenze narrative, l’artista cerca di rendere la simultaneità degli eventi. Il Pagamento del Tributo della Cappella Brancacci di Masaccio ne è un esempio, ma anche la Primavera di Botticelli soprattutto nella resa della metamorfosi della ninfa Clori in Flora. Anche Ejzenštejn, attraverso la lettura di Lessing, si diverte a ricercare esempi di questo tipo trovandoli nel baldacchino bronzeo di San Pietro, nel Ratto delle Sabine di Parmigianino (in realtà l’opera oggi è attribuita ad Amico Aspertini) o nella storia del figliuol prodigo di Tiziano (anche quest’attribuzione è errata, potrebbe trattarsi di Palma il Giovane). In questi esempi la pittura si dichiara a tutti gli effetti rudimento dell’immagine cinematografica, perché alla spazialità cerca di aggiungere la successione temporale degli eventi, che non riuscendo a esistere contemporaneamente vengono presentati in sequenza.
Se è poi vero che la principale caratteristica del pezzo di montaggio è la capacità di suggerire l’intero della configurazione, il confronto con Warburg e la storia figurativa diventa ancora più stringente. Il dettaglio in cui è “celato il buon Dio” è una costante nel pensiero dello studioso amburghese che assume diverse valenze: da indicatori formali di paternità attributiva, a elementi intermedi tra il contenuto e la forma per l’identificazione delle espressioni umane, a spie formali di un contenuto ben preciso e che, cristallizzato, ha attraversato il tempo.
Ed ecco che sembra di essere ritornati al punto di partenza. I dettagli sono quelli che raccontano della sofferenze di Laocoonte e dei suoi figli, ma sono anche quelli con i quali Warburg comincia a costruire una sorta di psicologia dell’espressione umana guardando e misurando attentamente il volto dell’Adamo, dipinto da Masolino a Firenze.
C’è da chiedersi, in conclusione, di quale tipo sia il montaggio riscontrato in Mnemosyne. Personalmente, trovo che esso si classifichi in una via di mezzo tra quello orizzontale e una visione complessiva della scena. Perché sebbene sia vero che le immagini si presentano all’occhio del fruitore in una sorta di sequenza evidenziata dalla successione dei pannelli, è altrettanto vero che all’interno di ciascun pannello le immagini condensano nei loro dettagli una corrispondenza con i più disparati elementi del sapere umano, dando vita a una lettura del tutto priva di coordinate e che lascia in eredità all’uomo solo la “pausa eternamente transeunte tra impulso e azione”. Tale pausa è quella immortalata in alcune opere vitali, è l’intervallo tra i fotogrammi, è il Denkraum su cui deve interrogarsi l’odierna teoria del cinema: mettere a punto i processi attraverso i quali le immagini possano attuare procedure complesse di elaborazione del pensiero e delle emozioni.
bibliografia di riferimento
• Cieri Via C. Introduzione ad Aby Warburg. Roma-Bari: Laterza, 2011.
• Cieri Via C, Montani P. Lo sguardo di Giano. Torino: Nino Aragno Editore, 2004.
• Ejzenštejn SM. Teoria generale del montaggio. Venezia: Marsilio Editore, 1985.
• Gombrich EH. Aby Warburg. Una biografia intellettuale. Milano: Feltrinelli, 1983.
• Warburg A. Atlante delle immagini. Torino: Nino Aragno Editore, 2002.