Sull’imprevedibilità del suicidio
On the unpredictability of suicide

MASSIMO BIONDI1, ANGELA IANNITELLI1,2, STEFANO FERRACUTI1
E-mail: massimo.biondi@uniroma1.it
1Dipartimento di Neurologia e Psichiatria, Sapienza Università di Roma
2Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e International Psychoanalytical Association (IPA)


RIASSUNTO. Il suicidio è divenuto una delle principali ragioni di procedimenti di responsabilità professionale per gli psichiatri. Si è diffusa la convinzione che il suicidio sia espressione sistematica di malattia mentale e che, come per molte malattie, sia prevenibile con mezzi idonei. Non vi sono, invece, dati di ricerca che consentano di affermare l’identificazione di variabili certe o clinicamente valide per identificare il rischio di suicidio, anche in persone che hanno già compiuto un tentativo di suicidio. Purtroppo queste convinzioni hanno condotto e conducono a giudizi di responsabilità professionale per gli psichiatri che non sono fondati su dati scientifici ma su esigenze sociali legate ai sentimenti di frustrazione e impotenza che si sviluppano dopo un suicidio e alla spinta a risarcire in qualche modo la famiglia della vittima di suicidio. Il suicidio è un fenomeno troppo complesso per poter essere riportato a una causalità al di là di ogni ragionevole certezza come, invece, richiesto dal Diritto Penale, né può essere affrontato con una progressiva perdita di libertà da parte dei pazienti.

Parole chiave: suicidio, malattie psichiatriche, depressione, responsabilità professionale psichiatrica, diritto penale.


SUMMARY. Suicide has become one of the main reasons of professional liability proceedings for psychiatrists. It is a widespread belief that suicide is a systematic expression of mental illness and that, as for many diseases is preventable by appropriate means. There is a lack of research data that can enable the identification of clinically useful variables to identify suicide risk, even in people who have already made a suicide attempt. Unfortunately, these convictions have led and lead to judgments of professional responsibility for psychiatrists that are not based on scientific data, but on social needs related to feelings of frustration and helplessness that develop after a suicide and by the urge to compensate in some way the family of suicide victim. Suicide is too complex a phenomenon to be reported to a causality beyond any reasonable certainty as instead required by the criminal law, neither can be faced with a progressive patients loss of freedom of our patients.

KEY WORDS: suicide, mental illness, depression, psychiatric professional liability, criminal law.

«Caro Sergej, ti comunico l’ultima novità:
mi sono tirato un colpo di pistola.
Non rattristarti, resta indifferente,
onestamente, è tutto ciò che l’incidente merita.
Addio, Max.
Le cause non sono importanti».

Cartolina scritta dall’amico fraterno Maximilian Schmidthof
al compositore Sergej Prokof’ev, il 9 maggio 1913

«Il suicidio è una delle possibilità umane», afferma James Hillman1, un evento drammatico, tra i più gravi che possano colpire una famiglia, gli amici e la stessa società. Il suicidio è una tragica esperienza umana spesso intrisa di contraddizioni. Più si è vicini all’uomo, «al cuore della vita» per citare Ameisen2, più si percepisce che insieme alla spinta vitale vi è anche l’opposto. La vita stessa, infatti, nasce e si sviluppa attraverso processi di autodistruzione (si pensi ai processi apoptosici) e l’autore cita Garcia Lorca per fornire una immagine adeguata: «Qui si vede la vita e la morte – la sintesi del mondo – che nello spazio profondo si guardano e s’intrecciano».
Da questo punto di osservazione, la metapsicologia freudiana costituisce un dispositivo utile per avvicinarsi alla comprensione del gesto suicidario. Nella prospettiva freudiana Eros e Thanatos, pulsioni originali fondamentali e primitive, sono in relazione consustanziale. Thanatos è definita dalla sua finalità, ovvero il ritorno all’inanimato e all’inorganico, realizzabile solo slegando le relazioni e i rapporti stabiliti da Eros. La pulsione di morte resta inesorabilmente e fondamentalmente muta, al punto da far affermare a Freud che risolvere l’enigma del suicidio, significa “risolvere l’enigma della vita” 3.
Il suicidio è stato diversamente considerato a seconda delle epoche storiche e delle prospettive antropologiche4. Generalmente considerato in occidente e nelle religioni monoteiste come grave violazione della legge divina, è intorno al XVII secolo, in Inghilterra, che si giunge all’idea del suicidio come comportamento patologico, soprattutto per proteggere la famiglia del suicida dalla perdita di beni, per confisca.
Attualmente, per ragioni culturali e politiche complesse, il suicidio è sempre più considerato come espressione di un disturbo psichiatrico e, in quanto tale, fenomeno prevenibile, diagnosticabile e curabile. Ciò è in linea con una tendenza del mondo contemporaneo a rimuovere la morte, come già osservato da Freud: «Inequivocabile tendenza a scartare la morte, a eliminarla dalla vita. Abbiamo cercato di mettere a tacere il pensiero della morte […]. In verità è impossibile per noi raffigurarci la nostra stessa morte» 5. Perciò, il porre volontariamente fine alla propria vita deve essere patologizzato dal senso comune come espressione inequivocabile di malattia. Nel ricondurlo alla malattia, possiamo quindi applicare le categorie mediche del trattamento e della prevenzione. Nella pratica clinica, invece, il suicidio è uno dei comportamenti più difficilmente prevedibili, anche perché non necessariamente espressione di un disturbo psichiatrico. Già nel 1897 Durkheim suddivideva i suicidi in “patologici”, di competenza psichiatrica, e “normali”, dovuti a una alterata integrazione del soggetto nell’ambiente di vita 6.

L’attenzione verso il suicidio come causa di morte è cresciuta progressivamente e conseguentemente burocratizzata dal sistema sanitario. In ambito ospedaliero, il tentato suicidio (TS) è qualificato come “evento sentinella” e la prevenzione del suicidio del paziente ospedalizzato è divenuto uno dei punti centrali organizzativi del rischio clinico in sanità7. Sono pertanto previste e richieste direttive e procedure per evitarlo che sono applicate tutte le volte che ci si trovi di fronte a questa situazione clinica. L’evento morte, tuttavia, può verificarsi nonostante l’attuazione delle procedure di protezione o avvenire il giorno dopo la dimissione convertendosi, quasi automaticamente, in una procedura giuridica di valutazione della responsabilità professionale dei clinici curanti che, comunque, qualsiasi cosa abbiano fatto, secondo i legali della vittima, non avrebbero fatto quanto invece dovuto per evitarlo 8.
Questo atteggiamento intercetta il desiderio di trovare a tutti i costi un responsabile sul quale appoggiare i sentimenti di fallimento, impotenza, incredulità da parte dei parenti, degli amici e dei professionisti chiamati a dare un parere su quanto accaduto e ha una finalità affettiva riparativa nei confronti dei sopravvissuti. Nella maggior parte dei casi non vi sono fondamenti scientifici per raggiungere la certezza di una responsabilità nei medici e negli infermieri, ma la Magistratura trova invece appropriato sostenere i superstiti e i familiari anche in assenza di dati scientifici in quanto i giudici interpretano il senso comune e, di fronte all’incertezza, utilizzano categorie di giudizio basate sulle correlazioni percepite e non su quelle statistiche.
Peraltro, è anche interessante notare come il luogo dove ci si suicida non sia indifferente ai fini di una possibile evoluzione sul piano della responsabilità: un suicidio in ospedale ha maggiori probabilità di evolvere in un contenzioso giuridico, presupponendo l’ospedalizzazione come una maggiore supposta tutela del paziente. È interessante notare che, nella quasi maggioranza dei casi che giungono davanti al Magistrato, l’addebito fa riferimento a una omissione di vigilanza, sorveglianza o applicazione di una qualche misura costrittiva, ovvero gli operatori sanitari sono valutati per una supposta omissione di privazione o limitazione di libertà nei confronti di una persona.

Negli ultimi anni si è registrato un incremento di studi sul problema del suicidio9,10 che, se da una parte ha consentito un aumento delle conoscenze relative ai fattori di rischio implicati nell’evento, dall’altra ha surrettiziamente e involontariamente collegato ulteriormente tale conoscenza con una sorta di certezza della sua prevenzione. Sebbene animati dalle migliori intenzioni, in una sequenza che solo apparentemente appare logica, i termini “prevedibile” e “prevenibile” sottintendono il concetto di evitabile e, di conseguenza, quello di responsabilità, nelle sue declinazioni umana, etica e professionale.
Di seguito verranno affrontati alcuni temi complessi che indicano come, ancora oggi, si sia molto lontani, in un certo numero di casi, dal poter prevedere, prevenire ed evitare un suicidio, anche in contesti professionali di cura (il 5-10% dei suicidi ha luogo nei reparti di psichiatria) e come il suicidio possa accadere nonostante ragionevoli attenzioni, sforzi nella cura farmacologica e psicoterapeutica, applicazione di tecniche e procedure consigliate. La letteratura in proposito è ampissima ed esula dalla presente trattazione. Ogni suicidio è il suicidio di quella persona, inscritto nella biografia individuale e, dal momento che non abbiamo il controllo delle menti altrui, delle circostanze esterne ambientali che sopravvengono, né di moti interni inconsci autodistruttivi, pertanto non comunicabili, che possono emergere d’improvviso, il suicidio ha la proprietà di non essere prevedibile o difficilmente prevenibile per i familiari, i vicini, il clinico.
Una delle migliori trattazioni recenti sul tema del suicidio si apre esemplarmente con il capitolo “Suicide Risk: Assessing the Unpredictable (Rischio di suicidio: valutare l’imprevedibile)11. Nel testo è onestamente e coraggiosamente scelto il termine “imprevedibile” in tema di valutazione del rischio di suicidio. Il concetto è empiricamente confermato da un recente studio longitudinale prospettico condotto presso la Sapienza Università di Roma su un campione di soggetti accolti al Dipartimento d’Emergenza e Accettazione (DEA) per un TS, dove sono state valutate quali variabili cliniche e attuariali, al primo TS, potessero far prevedere la messa in atto di un secondo tentativo nei mesi successivi. Pur avendo valutato la maggior parte delle variabili conosciute, lo studio ha dimostrato che il secondo TS non era prevedibile, nonostante lo sforzo di obiettivazione, rilevazione, quantificazione di numerosi parametri psicopatologici, psicosociali, epidemiologici 12. In senso analogo si esprime il lavoro di Chan et al.13, in cui le variabili indentificate come fattori di rischio sono definite “poco utili praticamente”, o la rassegna di Bolton et al.14 nella quale si afferma che i metodi di prevenzione del suicidio sono “elusivi”. Una meta-analisi del 199015 riporta l’assenza di elementi di rischio certi, come anche uno studio del 2007 di Nordentoft16. Di fatto, le evidenze scientifiche sono tali da consentire di affermare che il suicidio non è prevedibile con un grado di certezza tale da poter disporre di metodi scientificamente dimostrati per poterlo prevenire. Ciò non esime in nessun modo il discorso etico di cercare di fare di tutto per poter dare speranza alla persona e aiutarla a uscire dalla condizione esistenziale che ha determinato tale ideazione.
Prevedibilità ed evitabilità risultano perciò un obiettivo cui tendere con determinazione, competenza, impegno, professionalità ma, come l’esperienza personale di molti psichiatri clinicamente esperti testimonia, allo stato attuale si tratta di un obiettivo arduo, lontano, non possibile: «Ogni psichiatra ha il suo cimitero personale, grande o piccolo che sia», ci ricordava tempo addietro Luigi Frighi in una lezione universitaria.
Stabilire questi principi è importante almeno per tre aspetti:
1. l’effettivo riconoscimento di imprevedibilità del fenomeno;
2. lenire il dolore indicibile di chi, avuto un congiunto suicida, si tormenta al pensiero che avrebbe potuto prevenirlo e se sia stato fatto tutto il possibile per evitarlo;
3. sostenere l’angoscia del clinico curante che, purtroppo, poco ha potuto e la cui responsabilità professionale va grandemente ridimensionata alla luce di quanto stiamo discutendo.

L’aspetto medico-legale e forense non è di minore importanza anche perché le sue ripercussioni vanno ben oltre il caso specifico, influenzando comportamenti e scelte di fondo17. Accade, alle volte, che siano chiamati, a esprimere valutazioni su fatti che attengono agli aspetti più profondi e imperscrutabili della vita umana, dei professionisti (per es., consulenti o esperti chiamati nelle aule di tribunale o da giornali, in trasmissioni televisive o nella collaborazione alla scrittura di libri) che, pur di alto valore e qualità, non hanno esperienza diretta, ovvero in prima persona, di questi problemi e della loro variabilità, complessità, difficoltà e sfuggente fenomenologia.
L’evento “suicidio” porta perciò quasi automaticamente a pensare ai disturbi psichiatrici e, in primis, alla depressione (depressione e disturbo bipolare hanno tassi di prevalenza di suicidio che vanno dal 30 al 70%, seguiti dalle schizofrenie con il 10%; i disturbi di personalità si situano al 15,2%, se si considerano i pazienti psichiatrici, e al 3,2%, se si considera la popolazione generale)18. Dato che una certa percentuale di pazienti depressi si suicida, si è diffusa la convinzione che il suicidio sia il prodotto sempre e comunque di uno stato depressivo e che quindi depressione e sentimenti di disperazione antecedano l’evento e ne siano la causa. Ne discende che chi non avesse provveduto a riconoscere e/o a curare la depressione sarebbe professionalmente responsabile dell’evento. Tale sequenza di causa ed effetto è errata o quantomeno impropria, non solo per l’errore che si fa nel considerare la condizione psichica antecedente come fattore causale, ma per altri motivi che di seguito verranno esposti.

Nelle sentenze vi è la tendenza a confondere un fattore di rischio con un fattore causale19,20. Il fattore di rischio contribuisce in varia misura, non da solo, ma insieme ad altri fattori, ad aumentare la probabilità che un evento accada. Non ne è il determinante. A volte, quel fattore (per es., la depressione per il suicidio) non è nemmeno presente. Inoltre, pur con il concorso di molteplici fattori di rischio, non è detto che l’aumento delle probabilità con il loro sommarsi determini con certezza l’accadere dell’evento. Recentemente la Cassazione a ha riconosciuto che «la valutazione del rischio è in genere una operazione dal risultato matematicamente definibile solo a posteriori», assolvendo dei medici in un caso di suicidio di un paziente nel quale non vi erano stati segnali premonitori e riconoscendo l’imprevedibilità dell’evento.
“Si è suicidato perché era depresso” è dunque un’affermazione impropria, specie se fatta a priori, ovvero senza conoscere nel dettaglio la vita della persona. Si aggiunga che se è vero che i valori medi di punteggio di depressione a un test possono (ma non sempre sono) essere più alti in chi commette suicidio rispetto a chi non lo attua, tali valori sono espressione di una media di gruppo che nulla ci dice circa il singolo individuo, né tantomeno sono valori di prevedibilità di un comportamento suicida (nello stesso gruppo, a parità di depressione, un soggetto può suicidarsi, un altro no). Perciò le descrizioni ottenute da studi di gruppo in letteratura non sono applicabili al singolo caso e poco o nulla dicono sulla prevedibilità di questo o quell’atto. Ovvero, una depressione elevata non consente di prevedere di per sé, per certo, che il soggetto si suicidi. O, in modo ancora più forte: l’associazione tra variabili di per sé non indica mai una relazione di causalità. È tuttavia frequente, in ambito medico-legale, leggere pareri frutto di questa distorsione di ragionamento clinico e scientifico, considerazioni e pareri che sono intrinsecamente apodittici e perciò non verificabili né falsificabili.
Un altro argomento a rinforzo della tesi qui esposta è dato dal fatto che la depressione ha una prevalenza nella popolazione generale in tutti i paesi del mondo di circa il 10%, per raggiungere valori fino al 30% in alcuni gruppi, anziani e persone con disabilità fisiche. Nei pazienti oncologici oscilla dal 30 al 70%, eppure in questo gruppo i suicidi sono molto rari e pari alla popolazione generale21. Tuttavia, solo una porzione veramente minima di pazienti depressi si suicida. Sarebbe accettabile sul piano etico che per prevedere qualche suicidio si sottoponga a screening di massa la popolazione generale e la si tratti conseguentemente? Per giunta, vi sono molte persone che pur clinicamente affette da depressione non sviluppano mai un’ideazione suicidaria.

Nelle determinazioni giuridiche è accantonato il fatto che il fenomeno del suicidio ha sul piano sociologico, ambientale, etnologico, filosofico, psicologico e psicopatologico aspetti molteplici che si sovrappongono, interagiscono e possono condurre all’evento, mai con una causalità univoca e, di certo, non la sola depressione, o patologie psichiatriche sono di per sé l’unica ragione del suicidio. I dati epidemiologici confermano che una parte dei suicidi nulla ha a che vedere con la depressione ma con fluttuazioni dell’assetto sociale e politico espresse in modo chiaro, per esempio, dal forte incremento di esso in Russia e in Cina negli ultimi due decenni o da fattori come la povertà 22; che l’atto suicida possa essere una risposta a un sentimento dell’onore offeso, della vergogna sociale, della rabbia e dell’impulsività, senza rilevante depressione; che possa essere attuato per vendetta contro qualcuno o per protesta (come in carcere); per una pulsione distruttiva verso altri, come nel terrorismo; che possa essere espressione del valore supremo, come nella morte suicida per martirio, o della volontà di annullarsi e annullare sofferenze fisiche, come scelta; che esista un suicidio “razionale”, discusso da vari autori e da più angolazioni etiche e scientifiche; che esprima un atto di libertà e autodecisione, lucido, consapevole, autodeterminato, senza depressione rilevante. Studi controllati con la tecnica dell’autopsia psicologica hanno evidenziato che, per esempio, nelle popolazioni rurali cinesi l’associazione del suicidio con la malattia mentale è molto meno forte di quanto segnalato nella letteratura occidentale 23.
Si ha l’illusoria convinzione che lo psichiatra e lo psicoterapeuta abbiano il potere di conoscere tutti gli aspetti mentali del paziente grazie alle loro abilità, che possano agire e intervenire pienamente mediante cure (farmaci, interventi psicologici, ecc.) per evitare un suicidio.

Sono stati ipotizzati in letteratura marcatori biologici del rischio di suicidio, come alcuni valori biochimici nel sangue, nel liquor cefalo rachidiano (rapporto tra i valori di noradrenalina e serotonina) e altri. La letteratura tecnica del settore della psichiatria biologica, seppure scientificamente fondata, non consente certamente di calcolare un algoritmo che consenta di prevedere il comportamento suicidario. Come può allora un perito, spesso inesperto e non a conoscenza di tutti questi fattori così complessamente articolati, che non ha conoscenza di pazienti con sofferenza acuta, fornire un parere scientificamente fondato e stabilire che un suicidio sarebbe stato prevenibile e poi evitabile? Si spera che, qualora passi la cosiddetta “legge Gelli” sulla responsabilità professionale, nelle valutazioni peritali siano inclusi psichiatri che effettivamente svolgono il lavoro clinico e non quelli che non hanno mai lavorato in un reparto, come il testo di legge in discussione in parlamento prevede b.

Occorre considerare altri dati epidemiologici e calarli nella realtà e non nell’iperuranio giuridico. I TS visitati nel DEA di nostra competenza sono circa 1000 nell’arco di 3 anni, in una regione come il Lazio, e in Italia sono stimabili a circa 3265 per 100.000 abitanti l’anno24. Si comprende che non tutti questi casi possano essere ricoverati automaticamente né seguiti (in farmacoterapia, in psicoterapia, dai servizi sociali, ecc.), pur rappresentando un fattore di rischio più che importante e che, per le condizioni dei reparti psichiatrici, si ricorra al TSO solo nei casi che presentano i quadri clinicamente più gravi. Sarà il medico a valutare caso per caso, con scienza e coscienza, ma con un margine di errore che non è stimabile, come abbiamo già evidenziato. Quale professionista potrà prevedere il futuro dei prossimi giorni e settimane? Potrà essere ritenuto responsabile di tutto quello che avverrà nella vita della persona dimessa nei giorni successivi, di fatti susseguenti imprevisti e imprevedibili? Potrà aver valutato variabili e dinamiche psichiche profonde, che spesso nemmeno uno psicoanalista che conosce un paziente da anni può prevedere? Ancora, se pulsione di vita e pulsione di morte si presentassero allo stato puro, sarebbe più facile per il clinico esperto distinguerle. Esse, invece, sono sempre impastate l’una nell’altra, consustanziali per l’appunto e «perfino l’autodistruzione della persona non può compiersi senza soddisfacimento libidico» 25. Un altro esempio che spesso domina sensazionalisticamente le pagine dei giornali è dato dai suicidi dopo la perdita del lavoro, un ingiunzione di pagamento o eventi simili. Eventi reali, certamente, ma che a fronte del singolo drammatico caso di cronaca non tengono conto della frequenza e prevalenza di essi: i licenziati e i disoccupati sono milioni, così come le persone lasciate dal partner. Un recente studio ha peraltro evidenziato come le variabili climatiche siano connesse con quelle economiche e che, casomai, il riscaldamento globale dovrebbe essere fonte di preoccupazione per il possibile incremento di suicidi 26. È perciò poco sensato cercare in un singolo evento la causa di un suicidio, trattandosi nella maggior parte dei casi di una concomitanza di fattori precipitanti, sempre in una difficile prevedibilità, poiché il concorso di più fattori di rischio si somma in molte vite di persone che non si suicidano. Anzi, a tal proposito vale la pena di sottolineare la responsabilità dei media nel dare notizie dei suicidi e dell’effetto Werther, un contagio emotivo che avviene verso soggetti con strutture psichiche più fragili, effetto che di certo deve essere chiamato in causa per i recenti atti terroristici. Dal punto di vista medico-legale, comunque, non è agevolmente determinabile una causalità singola che possa essere attribuita con certezza a una condotta omissiva di un sanitario, almeno sotto il profilo penale, e in linea di massima andrebbe esclusa.

A partire dal mondo latino, con gli stoici e gli stessi epicurei che riconoscevano agli individui di poter scegliere il momento e il modo con cui darsi la morte, e passando attraverso innumerevoli autori, resta da considerare la constatazione dell’esistenza del suicidio razionale27-29 o addirittura la possibilità di scegliere il suicidio anche quando si è affetti da importanti disturbi psichiatrici, come nel caso di Lucio Magri30.
Certo, la speranza e l’impegno di poter fare di più, di poter prevedere, prevenire, aiutare e salvare rimane il nostro principale e più forte compito, che dobbiamo esercitare usando tutte le conoscenze, i modi e le procedure utilizzabili, fino al ricovero contro la volontà del paziente, ricorrendo al Trattamento Sanitario Obbligatorio, fatto che comunque non esclude la possibilità del gesto alla fine del ricovero. È evidente che il medico deve attuare tutte le misure di cui è a conoscenza e di cui è capace per gestire e contenere il paziente per il quale nutra il sospetto o l’evidenza clinica che vi possa essere una condotta autolesiva, ma è altrettanto importante che ciò non avvenga tramite una sistematica perdita di libertà del paziente, rispettando la sua persona il più possibile, senza attuare coercizioni che hanno spesso solo finalità di medicina difensiva ma dove, purtroppo, sempre più spesso, siamo censurati dalla Magistratura che arriva ad affermare una responsabilità per mancanza di misure contenitive o costrittive o stabilendo responsabilità dei medici a distanza di giorni e giorni dalla visita o in situazioni in cui non era prevedibile che vi potesse essere un’evoluzione suicidaria, se non con la cognizione post hoc. Questi giudizi, che secondo il comune senso clinico appaiono discutibili, hanno una logica risarcitoria nei confronti dei familiari superstiti, ma non hanno un reale senso clinico.
Sabbie mobili, queste, che riguardano la scelta di interrompere il proprio percorso erotico con la vita, in cui i professionisti della sofferenza mentale e della sua cura si addentrano ogni giorno, nel tentativo di comprendere il dolore psichico31 e le rovine della vita32.
«For when my outward doth demonstrate
the native act and figure of my heart
in compliment extern, ’tis not long after
but I will wear my heart upon my sleeve
for daws to peck at:
I am not what I am»c
(Shakespeare, Othello, I,I).
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