La psicoterapia del disturbo borderline di personalità:
aspetti critici e proposte terapeutiche
Psychotherapy of borderline personality disorder:
critical factors and proposals of intervention


SILVIO BELLINO, CHIARA BRUNETTI, PAOLA BOZZATELLO
E-mail silvio.bellino@unito.it

Centro per i Disturbi di Personalità, Clinica Psichiatrica, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Torino


RIASSUNTO. Il disturbo borderline di personalità (DBP) rappresenta un’importante sfida terapeutica. Le criticità del trattamento psicoterapico di pazienti con DBP sono rilevanti e sono insite nei nuclei psicopatologici del disturbo: l’instabilità affettiva e relazionale, l’impulsività comportamentale e la precaria definizione dell’identità. Tali nuclei vengono infatti sollecitati e disvelati dalla psicoterapia, che pone il paziente nelle condizioni di riprodurre gli schemi relazionali disfunzionali acquisiti nell’infanzia. Gli elementi specifici di criticità riguardano il paziente (rischio suicidario, condotte aggressive, cronicità del disturbo, stile di attaccamento disorganizzato), il terapeuta (competenza e formazione, atteggiamenti controtransferali, rischio di burnout) e il setting della psicoterapia (selezione dei pazienti, costruzione dell’alleanza terapeutica, necessità di istituire dei limiti, durata e conclusione della terapia). Otto Kernberg e Marsha Linehan hanno individuato nei loro modelli di psicoterapia del DBP obiettivi e modalità di intervento sostanzialmente sovrapponibili, con particolare attenzione a garantire la sicurezza del paziente, preservare i confini del setting terapeutico e promuovere lo sviluppo del processo psicoterapeutico. Il presente articolo si prefigge lo scopo di analizzare i singoli elementi di criticità riscontrati durante il trattamento dei pazienti con DBP, di delineare gli obiettivi e le priorità che il terapeuta deve prendere in considerazione per affrontare queste problematiche e di illustrare come la psicoterapia interpersonale adattata al DBP rappresenti uno dei modelli terapeutici che possono rivelarsi utili per gestire e risolvere tali difficoltà.

PAROLE CHIAVE: disturbo borderline di personalità, trattamento, psicoterapia interpersonale, setting, alleanza terapeutica, empatia, condotte suicidarie, condotte autolesive, attaccamento, relazioni interpersonali.


SUMMARY. Borderline personality disorder (BPD) represents a significant therapeutic challenge. Critical factors in psychotherapeutic treatment of patients with BPD are noticeable and strictly related to the psychopathological dimensions of this disorder: affective and relational instability, behavioral impulsivity and precarious definition of identity. These features are emphasized by therapeutic intervention and become evident during the course of the treatment. Psychotherapeutic setting induces BPD patient to actualize the dysfunctional relational patterns that have been acquired during childhood. Specific critical factors concern the characteristics of the patient (risk of suicide, aggressive behaviors, chronic course of the disorder, disorganized attachment style), of the therapist (therapeutic skills, training, countertransference, risk of burnout) and of the setting of psychotherapy (patients selection, therapeutic alliance, need to set limits, duration and end of therapy). In Otto Kernberg’s and Marsha Linehan’s models of psychotherapy specific for DBP the authors identify substantially overlapping objectives and modalities of intervention. In particular, therapists should take care of patient safety, maintain boundaries of therapeutic setting and promote the development of psychotherapeutic process. The aim of this article is to analyze the main critical factors affecting psychotherapeutic process in patients with BPD. Objectives and priorities that therapist should consider to address these issues will be discussed. We will also try to make clear why interpersonal psychotherapy adapted to DBP can represent one of the therapeutic models that may be useful to manage and resolve these difficulties.

KEY WORDS: borderline personality disorder, treatment, interpersonal psychotherapy, setting, therapeutic alliance, empathy, suicidal behaviors, self-harm behaviors, attachment, interpersonal relationships.

INTRODUZIONE
«I pazienti borderline sono da lungo tempo considerati una sfida davvero straordinaria per i clinici che li hanno in cura. Uno dei motivi principali delle difficoltà terapeutiche riscontrate è dato dalla ripetizione dei modelli relazionali stabiliti nell’infanzia e ricreati nella situazione terapeutica. Queste rappresentazioni interne sono attribuite in modo caratteristico a coloro con i quali creano delle relazioni di attaccamento: familiari, curanti, amici, amanti ecc.»1.
La sfida terapeutica è determinata dall’instabilità del disturbo borderline di personalità (DBP), che è di natura affettiva, relazionale e comportamentale e che implica numerose criticità e difficoltà nei trattamenti. Riproducendo, infatti, schemi relazionali disfunzionali acquisiti nell’infanzia, la psicoterapia sollecita e disvela i nuclei psicopatologici del disturbo borderline. Tali criticità coinvolgono certamente il paziente, ma anche il terapeuta e il setting stesso della terapia (Figura 1).
Autori di differenti orientamenti culturali e teorici si sono approcciati a tali difficoltà giungendo a individuare alcune problematiche target, da affrontare secondo una precisa gerarchia che miri, per quanto possibile, a garantire la sicurezza del paziente e a preservare i confini del setting terapeutico, consentendo lo svolgimento della psicoterapia. Nella definizione di tali scale di priorità, Marsha Linehan (Tabella 1), nell’elaborazione della psicoterapia dialettico comportamentale (DBT), e Otto Kernberg, all’interno del modello della psicoterapia basata sul transfert (TFT) (Tabella 1), sono giunti a conclusioni simili.
Il presente articolo si prefigge lo scopo di analizzare nel dettaglio i singoli elementi di criticità riscontrati durante il trattamento dei pazienti con DBP, di delineare gli obiettivi e le priorità che il terapeuta deve prendere in considerazione per affrontare queste problematiche e di illustrare come la psicoterapia interpersonale adattata al DBP (IPT-DBT) rappresenti uno dei modelli terapeutici che possono rivelarsi utili per gestire e risolvere tali difficoltà.
Procediamo esaminando uno alla volta i principali elementi critici che contraddistinguono la psicoterapia dei pazienti con disturbo borderline.






TENDENZE SUICIDARIE CRONICHE
Il rischio suicidario riguarda circa il 10% dei pazienti con DBP. Si tratta generalmente di pazienti non in trattamento al momento del tentativo anticonservativo oppure con anamnesi positiva per pregressi tentativi e/o per progetti terapeutici che hanno avuto esito negativo o che sono stati interrotti dai pazienti (dropout). Dal punto di vista clinico, sono stati messi in evidenza alcuni fattori predittivi di elevato rischio suicidario: presenza di intensi sentimenti di rabbia, comorbilità per depressione maggiore e abuso di sostanze.
Convivere con la consapevolezza di un tale rischio è una situazione emotivamente gravosa per il terapeuta, che deve essere formato e preparato a gestirlo. Esso si configura, infatti, come un terzo elemento intrinseco alla diade terapeutica. Paris2 sottolinea come i terapeuti che lavorano con i pazienti borderline debbano in primo luogo accettare tale rischio, in quanto non esistono dati o elementi che consentano ai clinici di eliminarlo o prevenirlo del tutto. È un’evenienza che va quindi compresa nei suoi significati impliciti ed espliciti e successivamente gestita con responsabilità ed esperienza clinica.
Il suicidio o il gesto suicidario possono avere ulteriori valenze oltre a quella esplicita del porre termine alla propria vita. Fine e Sansone3 evidenziano come in certi casi esso possa essere una strategia di coping paradossalmente adattiva: «Quando non si ha potere sulla propria vita, sapere di poter scegliere di morire consente di sopravvivere». Gli autori parlano di “bisogno” del paziente borderline di “essere un suicida” e suggeriscono cautela nel voler “rimuovere” un meccanismo che a tratti risulta protettivo. Nell’atto suicida inoltre possono riscontrarsi spesso valenze comunicative, lasciate altrimenti inespresse, e intenti manipolativi.
Alcuni indirizzi psicoterapeutici, quali quelli comportamentali, si approcciano a tale rischio contrattando l’incolumità, stipulando cioè un vero e proprio contratto scritto, in cui il paziente si impegna a rimanere in vita. Orientamenti psicodinamici e cognitivisti invece sottolineano come tale approccio sia limitante e rischioso. Da un lato infatti, esso dà per scontata l’esistenza di una condivisione di valori tra terapeuta e paziente, nonché la capacità di quest’ultimo di saper controllare l’impulsività. Dall’altro lato, impedendo attivamente l’autodistruttività del paziente, lo deresponsabilizza di fronte alla possibilità di raggiungere l’empowerment e attribuisce al terapeuta il ruolo di salvatore. Gestire la crisi e il rischio suicidario a essa correlato può quindi rappresentare una strategia terapeutica più utile che porsi l’obiettivo di evitarlo.
Resta al clinico la responsabilità della stima del rischio e la decisione sulle modalità corrette di gestione. Un’ottica preventiva o eccessivamente medicalizzante potrebbe essere antiterapeutica, contribuendo a rafforzare pattern comportamentali disadattivi. Per esempio l’ospedalizzazione, sia essa volontaria o coatta, oltre a inibire in qualche modo le capacità di mentalizzazione e di gestione delle emozioni, può diventare per il paziente un efficace strumento di manipolazione del terapeuta e degli altri significativi. Tutto questo può portare a un cortocircuito della terapia e al rinforzo dei vantaggi secondari offerti dal regime di ricovero e dal “ruolo” di paziente grave e incapace di provvedere a se stesso. Risulta anche insidiosa la possibile associazione tra accudimento e ospedalizzazione: in questi casi Gabbard 4 sottolinea come “sicuro” non sia per forza sinonimo di “utile” e invita a esplicitare tale ragionamento clinico ai pazienti. Il principio della “finta sottomissione” appare come una praticabile via d’uscita rispetto al ricatto e alla pressione avvertita dal terapeuta: concedere il ricovero privandolo esplicitamente del significato salvifico che a esso il paziente attribuisce può tutelare entrambi e impedire che si inneschi il ciclo dei pazienti cosiddetti “revolving door”. L’ospedalizzazione resta tuttavia una valida, non di rado unica, opzione terapeutica in assenza di sicure alternative di gestione clinica del rischio suicidario.
Una strategia alternativa rispetto all’ipermedicalizzazione appare quella che si prefigge di gestire la crisi ambulatorialmente, intensificando le visite, apportando modifiche terapeutiche e coinvolgendo i familiari nel supporto e nella gestione del paziente. Tale approccio contrasta i vantaggi secondari, promuove la maturazione delle capacità di mentalizzazione e gestione delle emozioni e favorisce una maggiore responsabilizzazione del paziente di fronte al proprio percorso terapeutico.
CONDOTTE AUTO-ETEROAGGRESSIVE
Le condotte autolesive rappresentano uno dei sintomi più caratteristici e più frequenti (69-80%) della patologia borderline. È un fenomeno distinto e più comune rispetto ai tentativi anticonservativi. Si differenzia dal gesto suicidario per la finalità. Tagliarsi, provocarsi bruciature o lesioni agli arti superiori e inferiori non sono infatti gesti annoverati tra quelli anticonservativi. Sono piuttosto stili comportamentali ricorrenti che assolvono a precise funzioni di regolazione emotiva, evidentemente disadattive. Tali condotte possono da un lato incrementare il rischio di suicidio involontario, dall’altro possono essere considerate gesti parasuicidari cronici che, allentando la tensione interna del paziente, prevengono veri e propri atti suicidari.
Zanarini e Frankenburg5 parlano di un’ipocondria emozionale, di un’incapacità di vivere e comunicare il dolore psichico se non attraverso la sua manifestazione corporea: rendere visibile la propria sofferenza appare l’unica strategia comunicativa efficace. Per i pazienti borderline il dolore psichico è insopportabile, prima che incomunicabile: pertanto l’atto autolesivo rende non solo visibile, ma anche sopportabile la sofferenza emotiva6,7. Infatti, alla condotta autolesiva segue spesso uno stato di sollievo e benessere. Essa ha in sé anche valenze dissociative: interrompe stati di anestesia emotiva, sentimenti di vuoto, talvolta è descritta come un “tornare a sentire” e nello stesso tempo consente di dissociare dall’esperienza cosciente e narrabile un’emozione molto dolorosa, che rimane pertanto non integrata. Autori quali Janet e Freud hanno a lungo dibattuto sulla valenza traumatica ( bottom-up) o difensiva (top-down) di tali aspetti dissociativi.
ATTEGGIAMENTI CONTROTRANSFERALI
Si può affermare che il terapeuta viene contagiato dall’esperienza emotiva del paziente. Avviene infatti una sorta di identificazione emotiva attraverso la quale egli giunge a sentire ciò che prova il paziente: la sua rabbia, il suo terrore, il suo sconforto. Concettualizzando il DBP come un disturbo post-traumatico da stress complesso, alcuni autori hanno parlato di un controtransfert traumatico o di una traumatizzazione vicaria8. Il terapeuta, infatti, può identificarsi alternativamente con il ruolo di vittima vissuto dal paziente, sperimentandone l’impotenza, oppure con il ruolo dell’aggressore, sviluppando, anche come conseguenza dell’aggressività, della scissione e dell’identificazione proiettiva del paziente, sentimenti di ostilità. Nel primo caso il terapeuta prova l’impotenza della vittima: egli tenderà pertanto a sottostimare le proprie conoscenze e le proprie competenze e a perdere di vista le risorse del paziente. Il risultato è inevitabilmente una progressiva svalutazione delle potenzialità del rapporto terapeutico. Da tali sentimenti il clinico si difende assumendo il ruolo di salvatore, eccedendo nell’accudimento e passando frequentemente all’atto. La pericolosità di questi atteggiamenti salvifici risiede nel fatto che essi colludono con un disperato bisogno del paziente di trovare una figura salvifica ( transfert traumatico) che lo metta al riparo dal terrore sperimentato durante l’infanzia9. Nella ricerca di questa figura il paziente sperimenta il suo deficit relazionale dato dal bisogno di affidarsi in contrapposizione con l’incapacità di fidarsi. Transfert e controtransfert convergono pertanto nel generare reciproche aspettative irrealistiche, che saranno puntualmente deluse e che apriranno la strada alla scissione, contribuendo a determinare la fragilità dell’alleanza terapeutica. Inoltre, l’atteggiamento paternalistico e protettivo del terapeuta costituisce una conferma implicita dell’incapacità del paziente di provvedere a sé e, oltre a perpetuare il transfert traumatico, inibisce lo sviluppo delle capacità di empowerment, obiettivo principale della terapia.
Meccanismi quali l’identificazione con l’aggressore, congiuntamente all’identificazione proiettiva, porteranno invece ad atteggiamenti di diffidenza, svalutazione e razionalizzazione dell’esperienza traumatica di abuso. Fino a sentimenti di odio e al desiderio di liberarsi del paziente.
Da quanto detto emerge chiaramente che il terapeuta non può affrontare correttamente la gestione di tali pazienti da solo. La rete di supporto professionale e la supervisione sono fondamentali affinché egli possa utilizzare il controtransfert come strumento al servizio della terapia, evitando di ricorrere a disinvestimenti affettivi o di assumere inadeguati e pericolosi ruoli salvifici. Il terapeuta, che si trova per certi aspetti nei panni di un testimone, deve riuscire a mantenere un atteggiamento di neutralità, utilizzando le proprie emozioni come strumento di conoscenza del mondo interno del paziente, come se esse ne rappresentassero uno specchio. Kernberg et al. 10 affermano come il «ruolo del terapeuta sia quello di identificare gli attori del mondo interno del paziente, usando il controtransfert come guida alla comprensione dell’esperienza del paziente». Egli tuttavia ritiene che tali attori non siano altro che rappresentazioni fantasmatiche dell’esperienza del bambino. Teorie più recenti sostengono invece che tali attori e le emozioni da essi rappresentate riflettono accuratamente le caratteristiche reali dell’ambiente relazionale precoce del bambino.
Poiché transfert e controtransfert sono componenti essenziali e inevitabili della relazione, risultano necessarie regole e limiti, che tutelino il ruolo di paziente e terapeuta all’interno del contratto terapeutico.
NECESSITÀ DI ISTITUIRE DEI LIMITI
Transfert e controtransfert possono attivare il sistema motivazionale dell’attaccamento, comportando il desiderio di cercare o fornire accudimento. Tuttavia, non è all’interno di una relazione di accudimento che si sviluppa il processo della psicoterapia. Esso infatti costituisce il risultato di un impegno esistenziale, preso da due persone che hanno ruoli specifici e complementari, unite da un obiettivo comune, costituito dalla guarigione del paziente, verso il quale sono entrambe responsabili, sia pure in modo e misura differenti 11. Tali caratteristiche possono essere ricondotte al sistema motivazionale della cooperazione12.
Il rischio di attivare nella psicoterapia del paziente borderline il sistema dell’attaccamento, di valicare i ruoli e di mettere sotto scacco la terapia stessa, rende necessaria l’istituzione di limiti con la definizione di una cornice operativa13. Confini ben delimitati creano infatti uno spazio fisico e mentale utile alla guarigione e configurano un’arena all’interno della quale paziente e terapeuta possano lavorare14. Essi sono stabiliti a tutela di bisogni, limiti, fragilità e diritti di entrambe le parti della diade terapeutica. Comprendono la preclusione di rapporti al di fuori della relazione terapeutica, la chiara definizione della frequenza e della durata delle sedute, della parcella e della modalità dei pagamenti e la definizione delle modalità di contatto consentite in situazioni di emergenza. La chiarezza dei limiti però non esclude, anzi richiede, un certo grado di flessibilità. Pur all’interno di setting precisi e definiti, il paziente borderline, infatti, spesso sperimenta zone di ambiguità, che per essere tollerate e superate necessitano di elasticità. Molti autori concordano sull’utilità di saltuarie eccezioni alle regole, purché ne siano esaustivamente indagati e compresi i significati all’interno della terapia. L’abilità del clinico risiede dunque nella capacità di bilanciare ortodossia ed empatia, rigida adesione alle norme professionali e disponibilità emotiva 2.
La rilevanza dei confini terapeutici non deriva solo dalla necessità di proteggere il setting, ma anche dal processo attraverso il quale essi vengono definiti. Non si tratta di un’austera imposizione, ma di una continua e dinamica negoziazione, a cui il paziente partecipa attivamente nell’ottica del raggiungimento dell’empowerment. Le regole sono interpretabili come “obiettivi in movimento”9, volti allo sviluppo di progressive capacità di mentalizzazione, tolleranza dell’ambiguità, sviluppo di strategie di coping sempre più adattive, maggiori capacità di gestione della crisi e, infine, contenimento del rischio di dropout.
FRAGILITÀ DELL’ALLEANZA TERAPEUTICA
I problemi nelle relazioni interpersonali che contraddistinguono il quadro clinico del disturbo borderline hanno comportato in ambito psicoterapeutico un progressivo spostamento dell’attenzione dall’insight del paziente alla relazione tra paziente e terapeuta11. Si è delineato infatti un modello di “psicologia a due”15, all’interno del quale le reazioni intersoggettive e l’esperienza terapeutica dell’essere accettato e compreso acquistano centralità16,17. All’interno di una relazione terapeutica sono stati identificati tre gradi di alleanza, che tendono a svilupparsi progressivamente durante il corso della psicoterapia. Inizialmente si parla di alleanza “contrattuale” o “comportamentale”, attraverso la quale vengono definiti gli obiettivi del trattamento e i rispettivi ruoli. Con il tempo si procede verso un’alleanza “relazionale” o “affettivo-empatica”, che si sviluppa in conseguenza dell’esperienza che il paziente fa del terapeuta come figura sincera, premurosa, comprensiva e piacevole. Infine, si sviluppa un’alleanza “di lavoro” o “cognitiva/motivazionale”, all’interno della quale paziente e terapeuta si concepiscono come alleati in vista di un obiettivo comune, ovvero la comprensione e il benessere del paziente stesso11. Autori cognitivisti parlano in maniera sostanzialmente sovrapponibile di sistemi motivazionali, individuando in quello cooperativo – e non in quello dell’attaccamento – l’unica strategia terapeutica utile ai fini della guarigione12.
Ognuno di questi livelli di alleanza è minacciato dalla psicopatologia del DBP: la tendenza a violare il setting e i suoi confini, uno stile affettivo improntato a rabbia, litigiosità e diffidenza, le resistenze al cambiamento, il rischio di scissione, nonché i desideri transferali di trovare una figura accudente e salvifica ostacolano o rallentano l’instaurarsi dell’alleanza di lavoro. Il terapeuta è infatti più spesso vissuto come un persecutore o un salvatore idealizzato, piuttosto che un alleato nel raggiungimento di un obiettivo comune. La “fragilità dell’alleanza terapeutica” è testimoniata dai tassi di dropout, che arrivano al 30-35% 18.
All’origine di tale fragilità si trova lo stile di attaccamento disorganizzato (attaccamento D) proprio di questi pazienti, che comporta deficit di mentalizzazione, un funzionamento mentale organizzato secondo il principio dell’equivalenza psichica e la necessità di esteriorizzare il Sé alieno. Tali deficit relazionali-affettivi sono dunque il target della psicoterapia, che attraverso l’esperienza correttiva della relazione terapeutica promuove lo sviluppo di capacità di mentalizzazione e integrazione.
CRONICITÀ DEL DISTURBO IN RELAZIONE ALLA DURATA DELLA TERAPIA
L’offerta terapeutica dei servizi psichiatrici è caratterizzata sempre più da psicoterapie a breve termine, manualizzate e adattate ai singoli disturbi mentali.
Questo indirizzo della psicoterapia – nel contesto, soprattutto, dell’assistenza pubblica – ha riguardato anche il trattamento del DBP. Tuttavia, data la natura pervasiva e almeno parzialmente egosintonica dei sintomi, così radicati nella personalità fino a fondersi con il concetto che il paziente ha di sé, si è sentita la necessità di progettare trattamenti di maggior durata rispetto alle 12-16 sedute tipiche delle psicoterapie brevi. Questa tendenza si è manifestata in modo trasversale rispetto agli orientamenti teorici di appartenenza. Le terapie che dispongono attualmente di maggiori evidenze di efficacia nel trattamento del DBP sono la terapia basata sulla mentalizzazione (MBT) 19,20 per quanto riguarda l’orientamento psicodinamico e la terapia dialettico-comportamentale (DBT)6 per quanto riguarda quello cognitivo-comportamentale. Con caratteristiche che possiamo con buona approssimazione considerare intermedie tra queste due, si colloca la più recente psicoterapia interpersonale adattata al disturbo borderline di personalità (IPT-DBP)21-24. Questi tre approcci prevedono tutti interventi di durata relativamente breve rispetto alle psicoterapie psicodinamiche classiche: l’MBT prevede infatti circa un anno e mezzo di trattamento, la DBT un anno e l’IPT-DBT 8-10 mesi.
La necessità di disporre di un periodo di terapia più esteso deriva da diverse esigenze. Innanzitutto, ogni psicoterapia breve individua un focus attorno al quale centrare il lavoro terapeutico. Questa definizione di un ambito circoscritto di “indagine” è resa molto difficile dalla complessità, pervasività e cronicità del disturbo, a causa delle quali risulta molto difficile mettere in evidenza associazioni temporali tra eventi di vita discreti e variazioni degli stati affettivi. Inoltre, questi pazienti richiedono tempi più lunghi per arrivare a instaurare un’alleanza di lavoro all’interno di un sistema motivazionale cooperativo. Markowitz e Bateman concordano sull’osservazione che la terapia stessa può diventare il focus di lavoro (transizione di ruolo iatrogena): l’esperienza correttiva vissuta dal paziente, all’interno di una cornice definita e protettiva, facilita la presa di distanza del Sé dal sintomo, crea uno spazio fisico e mentale di comprensione e accettazione, promuovendo lo sviluppo della mentalizzazione e di abilità relazionali più evolute.
LA CONCLUSIONE DELLA TERAPIA
In considerazione degli intensi vissuti abbandonici e di dipendenza dei pazienti con DBP, la fine del percorso psicoterapico rappresenta un momento di intensa criticità. La conclusione è spesso vissuta come l’ennesimo abbandono e rischia di provocare tutte quelle manifestazioni comportamentali tipicamente messe in atto per scongiurarlo. Non di rado i pazienti alla fine di un percorso terapeutico sperimentano un peggioramento dei sintomi, una sorta di regressione che pare vanificare i risultati ottenuti e tende a imporre la necessità della prosecuzione della terapia. Per ovviare a tale problema, le terapie manualizzate prevedono la definizione della durata della terapia già nel contratto terapeutico. Anche la durata e la conclusione prestabilita fanno parte dei confini della terapia. Durante la psicoterapia, Markowitz sottolinea come sia utile ricordare di tanto in tanto al paziente il termine ultimo e come, in fase finale, tale argomento sia meritevole di approfondimento. Da un lato va, infatti, validata l’esperienza affettiva di perdita del paziente: ogni conclusione rappresenta un lutto e come tale va elaborata e superata. Dall’altro lato è importante valorizzare il miglioramento dei sintomi e l’indipendenza acquisita dal paziente e va enfatizzata l’opportunità, realizzabile solo dopo la fine di un trattamento, di sperimentare le proprie capacità in autonomia, svincolandosi da schemi relazionali non più indispensabili per mantenere l’equilibrio psichico del paziente. Si possono comunque fissare degli appuntamenti di controllo, se ritenuti necessari, per rendere meno traumatico il distacco, oppure impostare una fase di mantenimento di 6-8 mesi con sedute a intervalli mensili in casi selezionati in cui la conclusione e l’autonomizzazione risultano particolarmente problematici.
COMPETENZA E FORMAZIONE DEL TERAPEUTA. RISCHIO DI BURNOUT
Muoversi terapeuticamente all’interno dell’“oceano borderline”25, nonostante la presenza di confini definiti dell’intervento, risulta per il clinico molto impegnativo, a tratti controintuitivo ed emotivamente provante. Per questi motivi i terapeuti che si occupano di pazienti borderline sono soggetti ad alto rischio di burnout. La formazione volta all’acquisizione di competenze e abilità specifiche, così come la possibilità di lavorare in rete e la supervisione, sono strumenti imprescindibili per l’equilibrio psichico del terapeuta e per il mantenimento della sua motivazione professionale. Flessibilità ed esperienza sono certamente qualità indispensabili, ma studi recenti hanno evidenziato come ricevere un training adeguato sia l’elemento fondamentale per l’efficacia della terapia, per il mantenimento della motivazione e fiducia dei clinici e per la riduzione dei tassi di burnout 26,27.
SELEZIONE DEI PAZIENTI E TAILORING DELLE TERAPIE
Come ogni psicoterapia, anche quella del paziente borderline pone il problema della selezione dei pazienti. Vi sono infatti aspetti psicopatologici, comportamentali e di comorbilità che incidono sull’efficacia del trattamento e che devono essere pertanto tenuti in debita considerazione.
Innanzitutto, risulta preliminare e fondamentale la valutazione delle caratteristiche del paziente candidato alla terapia e l’esplorazione delle sue motivazioni al cambiamento. Il rischio suicidario, così come l’abuso di sostanze, sono spesso criteri di esclusione per una psicoterapia (fatta eccezione per la DBT), oppure richiedono di adottare una modalità di gestione intensiva caratterizzata da setting maggiormente tutelanti e lavoro in team. La comorbilità psichiatrica risulta altrettanto discriminante: la copresenza di disturbi depressivi o ansiosi, così come di tratti di personalità del cluster A, sono spesso criteri di cautela nella selezione dei candidati.
Per quanto riguarda poi la scelta della psicoterapia più adatta a un determinato paziente, la ricerca ha da tempo messo in evidenza che l’efficacia terapeutica delle psicoterapie validate per il DBP dipende solo in parte da fattori specifici (interventi basati su esplorazione e interpretazione versus interventi comportamentali versus interventi cognitivi versus interventi orientati al supporto). I dati di letteratura ci dicono infatti che l’efficacia delle terapie dipende sostanzialmente e imprescindibilmente anche da fattori comuni e aspecifici. Tra questi si possono annoverare l’alto livello di strutturazione della cornice terapeutica, la partecipazione emotiva del terapeuta ai vissuti del paziente, lo sforzo di realizzare una forte e stabile alleanza terapeutica, la tolleranza dell’ostilità del paziente, lo scoraggiamento dei comportamenti autodistruttivi, la presenza di un focus chiaro di lavoro concentrando gli interventi sul qui-e-ora, la flessibilità e la modulazione dell’intensità della terapia sulla base dei bisogni, la personalizzazione delle cure, la promozione delle abilità di mentalizzazione e infine l’integrazione con i servizi psichiatrici presenti sul territorio 19,28,29. Tali interventi sono centrali per la correzione della disregolazione emotiva, affettiva e comportamentale di questi pazienti (Figura 2)29. Emerge, dunque, dalla letteratura scientifica come siano efficaci tutte quelle terapie che contemplano gli elementi di criticità messi in evidenza finora e che prevedono strategie idonee a gestirli.



FATTORI PREDITTIVI DI RISPOSTA ALLE PSICOTERAPIE
I dati di letteratura ci forniscono profili abbastanza simili di quelli che sono considerati fattori predittivi di risposta alle terapie: tali fattori riguardano sia le caratteristiche ambientali e cliniche dei pazienti, sia determinate tecniche e strategie terapeutiche18,30,31.
Fattori predittivi negativi sono considerati: un ambiente infantile violento; gravi disturbi del comportamento infantile; comportamenti antisociali; dipendenze da sostanze; egosintonicità dei sintomi; relazioni interpersonali gravemente disturbate; tratti narcisistici di personalità. Risultano inoltre associati a esiti negativi in pazienti borderline le tecniche comportamentali, gli interventi di interpretazione e il controtransfert negativo.
Fattori predittivi positivi sono invece: specifici tratti di personalità quali atteggiamenti di simpatia, disponibilità all’accoglienza, affidabilità e socievolezza; ricorso a meccanismi di sublimazione; tratti depressivi di personalità. Parallelamente a quanto esplicitato per i fattori negativi, sono stati individuati aspetti della terapia e tecniche più facilmente associate al buon esito della stessa: opportunità di accedere agevolmente al terapeuta; uso di tecniche di derivazione psicodinamica; uso di tecniche non verbali.
Rimane invece incerto e dibattuto il significato predittivo di alcuni fattori, quali la comorbilità per disturbi depressivi e ansiosi e le tecniche terapeutiche orientate alla mindfulness.
LA PSICOTERAPIA INTERPERSONALE E IL TRATTAMENTO DEL DBP
Sulla base di quello che è stato accennato sugli elementi di efficacia delle psicoterapie nel trattamento del DBP, l’IPT può rappresentare una valida proposta terapeutica per questo disturbo. Essa infatti da un lato presenta caratteristiche che corrispondono a molti dei fattori aspecifici di efficacia che abbiamo elencato, dall’altro si fonda su fattori specifici correlati all’azione focale su aree problematiche interpersonali, cioè su un elemento psicopatologico molto significativo del disturbo borderline. Secondo numerosi autori, il razionale d’impiego dell’IPT nel trattamento del DBP risiede nella relazione tra dinamiche sociali, incapacità di controllare l’impulsività e alterazione dell’umore, che è stata individuata nell’ambito dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby 32-34, contributo teorico essenziale nell’elaborazione del modello di terapia interpersonale. Nel valutare l’appropriatezza dell’indicazione terapeutica va infine considerata la frequente comorbilità del DBP con il disturbo depressivo maggiore, che costituisce l’indicazione clinica originaria dell’IPT di Klerman et al.35.
L’IPT, sviluppata in origine per il trattamento della depressione maggiore, unipolare, non psicotica35, si sviluppa sulla relazione biunivoca tra dimensione interpersonale e affettività. Si tratta di un intervento di breve durata (12-16 sedute), suddiviso in tre fasi di lavoro e di impostazione sostanzialmente medica. Il disturbo psichiatrico viene concepito infatti come una malattia sviluppatasi all’interno di un ambiente relazionale problematico e caratterizzato da modalità disfunzionali e al paziente viene attribuito un temporaneo ruolo di malato. Il miglioramento dell’umore si configura come conseguenza della costruzione attraverso la psicoterapia di relazioni interpersonali e sociali più stabili e funzionali.
Negli anni, l’IPT è stata applicata a un numero sempre maggiore di disturbi psichiatrici e tra questi anche al DBP, concepito all’interno di questo modello come una patologia che si caratterizza per una pervasiva e cronica instabilità, declinata in alterazioni dell’affettività, dell’impulsività, delle dinamiche relazionali e della definizione dell’identità, che si manifesta principalmente in riferimento a contesti sociali.
Tuttavia, la possibilità di applicare l’IPT in questi pazienti è risultata limitata da alcuni elementi di criticità intrinseci ai disturbi di personalità, quali per esempio la pervasività e la cronicità della sintomatologia, tanto da richiederne alcuni significativi adattamenti del modello originario20,21,23,24.
Markowitz et al.21 hanno elaborato una prima proposta di adattamento dell’IPT al DBP. I cambiamenti apportati dall’autore al manuale originale tengono in considerazione proprio quegli elementi di criticità, messi in luce nel presente articolo, che compromettono la riuscita di formule più classiche di psicoterapia. Tali adattamenti si configurano pertanto come strumenti terapeutici specifici per il DBP. Egli ha individuato come elementi specifici su cui centrare l’adattamento la concettualizzazione stessa del DBP, la cronicità del disturbo, la difficoltà di un’alleanza terapeutica duratura, il tempo del trattamento, il rischio suicidario, la conclusione del trattamento e la selezione dei pazienti. Tale adattamento si differenzia dall’IPT tradizionale sostanzialmente per la maggiore durata dell’intervento, la strutturazione dello stesso in due fasi e la maggiore flessibilità del setting, volta all’accoglimento delle peculiari esigenze cliniche e terapeutiche di questi pazienti (Tabella 2).



In anni più recenti, anche Bateman20 ha proposto un modello di intervento interpersonale nel trattamento del DBP che, rispetto a quello di Markowitz, contempla l’aggiunta di un quinto focus. Questo, ricavato dall’analisi del mondo interpersonale del paziente, è costituito dal “Sé in relazione agli altri” e aiuta a cogliere la relazione tra esordio dei sintomi, identità del paziente ed eventi interpersonali. Il DBP è stato concettualizzato infatti anche come disturbo dell’identità 36, vulnerabile soprattutto in contesti relazionali emotivamente stressanti. In tali circostanze, il paziente borderline tende a perdere la capacità di distinguere il proprio stato mentale, il proprio Sé, da quello dell’altro. L’attaccamento disorganizzato invalida la capacità di formare rappresentazioni dello stato mentale proprio o altrui. Ciò determina una disordinata organizzazione del Sé e una rudimentale capacità di pensare ai comportamenti in termini di stati mentali corrispondenti. Compito dell’IPT è dunque da un lato di porre in relazione la percezione dell’identità con il contesto interpersonale all’interno del quale essa viene perduta, dall’altro di aiutare a sviluppare una gestione delle emozioni più adattiva, allo scopo di prevenire la crisi dell’identità. Questo approccio ha come obiettivo principale la promozione della mentalizzazione, ritenuta la modalità di intervento più efficace nella psicoterapia del DBP.
Alla luce di questi adattamenti, risulta interessante analizzare la chiave di lettura che l’IPT-BPD propone rispetto alla debolezza dell’identità e all’autolesionismo dei pazienti borderline. L’approccio interpersonale consente infatti di evidenziare la relazione esistente tra questi due elementi psicopatologici e il contesto socio-relazionale. L’autolesionismo è considerato un tentativo di raggiungere un equilibrio interno e di rinsaldare una relazione percepita come instabile. Ha un ruolo difensivo, pertanto resistente al cambiamento. Tuttavia, dal punto di vista relazionale è distruttivo, in quanto mina la stabilità e la spontaneità dei rapporti e genera sentimenti di vergogna nel paziente. La vergogna provata, a sua volta, altera la percezione dell’identità, minando l’autostima del paziente e amplificando l’autosvalutazione e la distorsione dei sentimenti. L’IPT esplora la triade relazioni interpersonali, identità e autolesionismo e aiuta il paziente a mettere a fuoco la consequenzialità esistente tra questi fattori con atteggiamento autoriflessivo, mantenendo la sua attenzione sul proprio stato affettivo e sulla percezione della propria identità nel momento stesso dell’interazione con l’altro.
Il nostro gruppo di ricerca24 ha recentemente proposto un modello di revisione dell’IPT-BPD che rappresenta un ulteriore sforzo di adattamento alle esigenze cliniche e psicopatologiche dei pazienti con questo disturbo. Tale modello prevede un prolungamento della durata a 42 sedute, suddivise in due fasi di trattamento per complessivi 10 mesi. I contatti telefonici ammessi in una settimana sono incrementati a due, così come due sono i periodi di breve ospedalizzazione permessi nel corso della psicoterapia che proseguirà, se le condizioni cliniche lo permettono, durante il ricovero stesso (7-10 giorni di durata).
La difficoltà costituita dal termine del trattamento viene affrontata attraverso l’istituzione di tre sedute aggiuntive, che possono essere utilizzate per quei pazienti che vivono il distacco dal terapeuta con più intensi sentimenti di abbandono. Pazienti selezionati possono inoltre essere candidati a una terapia di mantenimento della durata di 8 mesi a cadenza mensile. Infine, viene proposto un counselling interpersonale della durata di 6 sedute mensili di un’ora a uno o due familiari, in modo da implementare il lavoro in rete di comprensione e cura dei pazienti.
Questi cambiamenti alla proposta di Markowitz rispondono soprattutto all’esigenza di integrare la psicoterapia individuale limitata nel tempo dei pazienti con disturbo borderline, attraverso l’introduzione di interventi che comprendono una certa flessibilità della durata della terapia, l’intensificazione del sostegno attraverso i contatti telefonici, il ricovero in caso di crisi, la terapia di mantenimento e il counselling rivolto ai familiari. Quest’ultimo intervento, anch’esso orientato secondo un indirizzo interpersonale, è un elemento che riteniamo di particolare importanza, poiché permette di affrontare e rivedere i meccanismi relazionali distorti che in molti casi caratterizzano le famiglie di questi pazienti e che costituiscono spesso un grave ostacolo alla costruzione dell’alleanza terapeutica e alla continuità e coerenza dell’intervento psicoterapico. Nel complesso, i cambiamenti che abbiamo introdotto nell’IPT-BPD sono orientati nella direzione, sostanzialmente condivisa dai principali modelli di psicoterapia progettati specificamente per il disturbo borderline, di rafforzare la componente supportiva e di contenimento delle condotte auto- ed eteroaggressive che deve necessariamente affiancarsi all’intervento esplorativo e trasformativo della personalità.
Considerando le criticità riguardanti la psicoterapia dei pazienti con disturbo borderline che abbiamo passato in esame e le evidenze disponibili circa gli elementi di efficacia delle psicoterapie per il DBP, possiamo affermare che l’IPT-BPD rappresenti la proposta di un utile strumento terapeutico per il trattamento del DBP, calibrato sulle esigenze cliniche di questi pazienti. La letteratura scientifica, inoltre, ha raccolto negli ultimi anni alcuni contributi di ricerca che ne confermano l’efficacia, soprattutto nell’ambito di terapie combinate con farmaci antidepressivi 21-23,37,38.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.
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