Imputabilità, coscienza morale e psicopatologia.
Profili comparatistici internazionali

Liability, moral consciousness and psychopatology.
International comparative profiles

VINCENZO MASTRONARDI1, LUIS MARIA DESIMONI2, NICOLETTA VENTURA3
E-mail: vincenzo.mastronardi@uniroma1.it

1Cattedra di Psicopatologia Forense, Dipartimento di Neurologia e Psichiatria, Sapienza Università di Roma
2Direttore del Master Internazionale in Scienze Criminologiche e Forensi, Università UCES di Buenos Aires
3Diritto Penale Minorile, Facoltà di Scienze Politiche, Università Aldo Moro, Bari


RIASSUNTO. Il lavoro prende in considerazione i concetti di intenzionalità, discernimento, volontà, consapevolezza e i relativi studi scientifici, psicologici, psichiatrici e neurofisiologici, ivi incluso il concetto di “coscienza morale” e di evoluzione degli standard morali, ben delineati da Kolberg e Piaget. Non mancano diversi riferimenti a una prospettiva “psicopatologica”, per la quale il vizio di mente è indipendente dall’accertamento di un substrato organico e di una sua classificazione nella nosografia ufficiale (si è affermato, quindi, che, “se è esatto che il vizio di mente può sussistere anche in mancanza di una malattia di mente tipica, inquadrata nella classificazione scientifica delle infermità mentali, è pur sempre necessario che il vizio parziale discenda da uno stato morboso, dipendente da un’alterazione patologica clinicamente accertabile” (così Cass, Sez. I, n. 9739/1997). Il concetto di infermità, quindi, si allarga, fino a comprendere non solo le psicosi organiche, ma anche i disturbi morbosi dell’attività psichica, come le psicopatie, le nevrosi, i disturbi dell’affettività: oggetto dell’indagine, quindi, non è più la persona-corpo, ma la persona-psiche. Nella scienza psichiatrica attuale sono presenti orientamenti che affermano un “modello integrato” della malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo psichico sulla base di diverse ipotesi esplicative della sua natura e della sua origine: trattasi, in sostanza, di “una visione integrata, che tenga conto di tutte le variabili, biologiche, psicologiche, sociali, relazionali, che entrano in gioco nel determinismo della malattia”, in tal guisa superandosi la visione eziologica monocausale della malattia mentale, pervenendosi a una concezione “multifattoriale integrata”.

PAROLE CHIAVE: imputabilità, coscienza morale, psicopatologia, vizio di mente, capacità di intendere e volere.


SUMMARY.  The paper considers the concepts of intentionality, judgment, desire, awareness and the relative scientific, psychological, psychiatric and neurophysiological studies, including the concept of “moral consciousness” and the evolution of moral standards, marked out by Piaget and Kolberg. There are several references to a psychopathology point of view, for which mental infirmity is independent from the verification of an organic substrate and classification in official nosology (it is said, then, that “it is true that mental infirmity can exist even in the absence of a typical disease of the mind, framed in the scientific classification of mental illness, it is still necessary that a defect in part descended from a morbid state, dependent on a pathological changes in clinically ascertained” (as Cass, Sec. I, n. 9739/1997). The concept of illness, then widens to include not only the organic psychoses, but psychic morbid disorders such as psychopathy, neuroses, disorders of affect too: under investigation, therefore, it is no longer the person-body, but the person-psyche. In psychiatry there are existing guidelines which assert an “integrated model” of mental illness, able to explain mental disorder based on different explanatory hypotheses of its nature and origin: essentially consisting of “an integrated vision that takes into account all the variables, biological, psychological, social, relational, that come into play in causing the disease”, in such a manner developing from the monocausal etiology of mental illness vision, to a “multifactorial integrated” conception.

KEY WORDS: criminal responsibility, conscience, psychopathology, mental infirmity, mental capacity, control of intentions and wishes.

INTRODUZIONE E CENNI STORICI
Dal XVIII secolo in poi, i codici penali di origine europea hanno previsto l’esenzione di colpa per chi si fosse reso responsabile di un crimine qualora, al momento del fatto, per “insufficienza cognitiva” o per stato di alterazione mentale, non fosse stato consapevole del suo gesto criminale. Una volta accertato lo status psicopatologico, il Tribunale ordinava l’internamento della persona in manicomio criminale, dal quale non sarebbe più uscita salvo nuova decisione del tribunale, previo parere del pubblico ministero e previo giudizio clinico dei medici esperti che ne dichiarassero la non pericolosità per sé o per gli altri. Quindi, nei casi di proscioglimento per i motivi di cui sopra, la Corte poteva ordinare l’internamento dell’imputato in un istituto idoneo, fino alla scomparsa delle condizioni che lo avevano reso pericoloso. I più antichi precedenti storici risalgono al diritto romano e successivamente al diritto spagnolo antico, in particolare: 1) Diritto romano: Digesto, Lib. XXI, Tit. I, Atto IX. 2) Diritto spagnolo antico: Parte I, Tit. I, Atto XXI, Parte VII, Tit. I, Atto IX, Parte VII, Tit. VIII, Atto IV 1.
È stato necessario un lungo iter prima di giungere alla distinzione della malattia mentale dall’imputabilità giuridicamente intesa – essendo stato in precedenza il soggetto alienato condannato comunque prima di giungere alla più recente disamina dei comportamenti prettamente antisociali.
Allo stato attuale, e come risultato di un lavoro interdisciplinare, è possibile evidenziare quanto la soluzione della questione non sia fino a poco tempo fa pienamente acquisita nell’interazione tra i giuristi e gli studiosi della psiche. Ancora oggi si può constatare, nell’ambito del Master Internazionale di Criminologia in Scienze Criminologiche e Forensi di Buenos Aires (Coordinatore L.M. Desimoni), quanto gli psicologi si oppongano al positivismo, mentre i giuristi auspicano l’applicazione di sanzioni più elastiche, gli uni mirando a una minimizzazione della colpa in base a giustificazioni psicologiche e sociali di ogni genere, gli altri facendo strettamente riferimento all’impianto accusatorio.
Il dibattito in oggetto induce ad assumere riflessioni esplorative di tipo giuridico per confrontarle con le opinioni fondate su alcune ricerche di eminenti psichiatri forensi e psicologi-clinici che dimostrano quanto il tema, che si presta alle più articolate interpretazioni, sia meritevole di una migliore sistematizzazione operativa.
Dal punto di vista giuridico, ricordiamo che diversi autori classici hanno da sempre esplicitato che: “Non è punibile… chi, al momento del fatto… ecc.”. Coloro che sostengono questa posizione ritengono che il titolo dovrebbe mutarsi in inimputabilità tout court, ma, arenandosi su tale minuzia bizantina tipica dei secoli scorsi, hanno tralasciato di considerare il fatto che il titolo riguarda l’imputabilità e le circostanze che esentano i rei dalla responsabilità in determinate situazioni, le quali non è altro che: il diverso grado di inimputabilità dell’autore di un delitto e che l’imputabilità fa riferimento al grado di responsabilità; la legge equipara lo status giuridico penale dell’autore di un delitto a quello dell’autore di un medesimo delitto, però, per colpa o negligenza, e dopo aver esaminato varie situazioni di imputabilità correlate ai minori, sulla recidività, sull’affido, ecc., giunge a determinare le circostanze attenuanti o aggravanti della responsabilità penale in generale.
È della massima importanza l’accurata disamina del concetto di inimputabilità per problemi di assenza di consapevolezza accertata.
Si tratta di una legislazione sulla responsabilità attenuata; secondo il maestro Garofalo, tale disposizione dovrebbe assolutamente applicarsi in tutti i casi, poiché si potrà sempre riscontrare, in qualsiasi soggetto criminale, e quali che siano le circostanze, qualche elemento di compromissione della responsabilità; inoltre, questi elementi dovrebbero essere ricercati e individuati in ogni soggetto, perché l’omissione, secondo la sua analisi, potrebbe comportare il rischio di un’ingiustizia manifesta. Tale punto di vista, benché molto corretto sotto il profilo umano, inferisce sul diritto sostanziale, e l’introduzione della dottrina della semiresponsabilità, nella forma intesa dall’eminente docente italiano, potrebbe togliere qualsiasi validità alle pene previste per i delitti, e si giungerebbe dunque a dover applicare un diritto penale personalizzato; la semiresponsabilità così concepita sostituirebbe tutte quelle disposizioni del diritto penale positivo che fissano le pene per i delitti, e sarebbe sufficiente che per un determinato crimine ci fosse una disposizione di legge che fissa la pena massima; applicando la semiresponsabilità si giungerebbe a fissare la pena in relazione all’imputato e al fatto da lui commesso.
Nonostante il trascorrere del tempo, in pieno XXI secolo molti tribunali latinoamericani si imbattono in impasse correlate alle prese di posizione degli esperti forensi che condizionano in parte i magistrati al momento di emettere una sentenza.
Di norma, il diritto penale moderno si orienta verso la considerazione e l’analisi del fatto delittuoso in sé, e solo a posteriori verso l’approfondimento delle condizioni inerenti alla consapevolezza dell’imputato che hanno spinto quest’ultimo a commettere l’atto.
Da questo punto di vista, la storica pretesa di semiresponsabilità soddisfaceva le aspirazioni delle correnti psicoanalitiche che si opponevano al positivismo e al controllo sociale repressivo. Sostenere la dottrina della semiresponsabilità in alcuni casi molto specifici è concepibile; tuttavia, in generale, non è possibile pensare di poterla introdurre autonomamente in un corpo normativo come riferimento centrale. In ogni caso, affinché sia possibile applicare proficuamente la medesima, sarebbe necessario che tutte le istituzioni fossero strutturate in maniera categorica, diversamente il caos regnerebbe sovrano. Parafrasando Freud, “senza l’esistenza di norme costrittive, non vi sarebbe civiltà possibile”.
Queste le cause storiche per cui, almeno in Argentina, nel Codice Penale non fu introdotto un articolo che trattasse della semiresponsabilità applicabile ai casi psichiatrici nei quali si potesse constatare che «i rei avevano compreso la natura criminale delle loro azioni, ma degli impulsi interiori psicopatologici li avevano indotti a commettere ugualmente il delitto».
A titolo di esempio, citiamo una circostanza avvenuta nel 2008 a Buenos Aires, in cui fu giudicato il primo caso in assoluto di mass murderer (assassino di massa), fenomeno fino allora sconosciuto nel nostro ambiente, sottoposto a processo per aver aggredito con un’arma da fuoco persone a lui sconosciute in un centro commerciale, causando un decesso e altre vittime di lesioni e danni gravi. Il Tribunale lo dichiarò non imputabile per la presenza di una diagnosi di schizofrenia. La decisione non fu pacifica in quanto, in un altro processo a carico dello stesso soggetto, non vi fu coincidenza di diagnosi, e la difesa stimò che potesse presentarsi il pericolo di andare incontro a uno strepitus fori di dichiarazioni contraddittorie concernenti il grado di responsabilità dello stesso imputato.
Oggi senza dubbio riteniamo che, qualunque sia la scuola di riferimento, classica o positiva, con i postulati sul libero arbitrio che determina la responsabilità morale, legale e sociale, rispettivamente si debba giungere a punire e/o a esentare dalla pena solamente il soggetto attivo che in quest’ultimo caso abbia commesso un delitto in determinate circostanze, quali in uno stato di palese compromissione di consapevolezza circa il crimine commesso. E va da sé che le varie scuole abbiano concordato sul fatto che in questi casi il soggetto non è imputabile.
Il concetto di inimputabilità come istituto nasce insieme alla codifica conseguente alle riforme successive alla Rivoluzione Francese che hanno portato al diritto sostanziale e formale, affinché lo Stato potesse garantire ai cittadini un’amministrazione giudiziaria imparziale. Infatti, nella Francia del XVII e XVIII secolo non ve n’era traccia; il confinamento ospedaliero veniva applicato non in relazione all’accezione di salute o infermità mentale come inteso al giorno d’oggi, bensì come punizione per cattiva condotta o indisciplina che il potere religioso o secolare infliggeva senza un debito processo. In questo modo veniva esercitato un controllo sociale su tutti quei soggetti che non rispondevano ai parametri di comportamento imposti a quei tempi da chi deteneva il potere 2. Non dimentichiamo a titolo esemplificativo i casi in cui si veniva assolti per omicidio e viceversa condannati per eresia.
LA COSCIENZA MORALE
Come precedentemente esposto, sebbene i fondamenti intesi a giustificare la pena abbiano subito variazioni nel tempo, e per quanto si sia arrivati a considerare in una maniera diversificata il grado di determinazione del soggetto a compiere un delitto, così come per gli elementi necessari alla determinazione del suo grado di responsabilità, quale che sia la scuola di pensiero accreditata, nel diritto penale moderno si è costantemente giunti alla conclusione finale che per esservi imputabilità sia necessaria la sussistenza di un atto volontario.
È necessario ricordare che, poiché il Codice Penale argentino non tratta in maniera specifica di quando un soggetto sia penalmente “capace di comprendere la natura del crimine”, i requisiti o gli elementi necessari per la determinazione della punibilità devono necessariamente emergere dallo studio delle disposizioni che stabiliscono in cosa consiste questa impunibilità di cui parliamo, non dovendo confondersi tali disposizioni con quelle che costituiscono ciò che in dottrina viene denominata «causa di giustificazione», tema estraneo all’argomento in oggetto.
In particolare, vi è imputabilità quando un soggetto è suscettibile di essere ritenuto responsabile di un delitto, al quale corrisponde l’applicazione di una pena, per aver agito con intenzionalità, discernimento e volontà, e che nonostante la piena consapevolezza del disvalore della sua azione abbia voluto perseguirla e, di fatto, l’ha perseguita, e/o non ha saputo resistere all’impulso di aggredire o vendicarsi.
Tale definizione, che probabilmente non rivendica di essere categorica, data la complessità dei fenomeni psichici che non possono essere inquadrati in forme semplici, dovrebbe includere, anche sommariamente, i requisiti di maturità mentale, salute generale e raziocinio da riscontrarsi nel soggetto al momento del compimento del fatto.
In conclusione, gli studi interdisciplinari consentono di cogliere sfumature che in precedenza i giuristi, gli studiosi della psiche, gli antropologi e i sociologi non potevano inquadrare esaustivamente dai loro singoli settori.
Di conseguenza, i punti ritenuti essenziali per il lavoro degli esperti sono:
a. Raggiungere il più alto grado possibile di certezza processuale, con la finalità di produrre chiarezza al magistrato, riferendosi a validi studi scientifici psicologici, psichiatrici e/o neurofisiologici, circa lo stato di consapevolezza dell’imputato e del crimine da lui commesso.
b. Per quanto riguarda gli psicopatici è essenziale giungere a poter discernere, mediante colloquio psichiatrico e test, se la mancata comprensione del crimine commesso, anche dagli atti delle inchieste, sia autentica o simulata, considerando che le caratteristiche salienti di molti soggetti sono l’alto grado di freddezza, l’assenza di senso di colpa e palese tendenza all’istrionismo. Per il capitolo simulazione si rimanda al lavoro di Mastronardi e Del Casale di questo stesso Supplemento.
c. Nel caso degli psicotici e degli schizofrenici è necessaria la disamina peculiare della diagnosi in relazione al fatto commesso e quindi sul loro stato psichico e le cause determinanti che li hanno spinti a commettere quel reato.
Pertanto, per esempio, una rapina in banca commessa da uno schizofrenico può non avere alcuna rilevanza sul piano della inimputabilità in quanto, pur soffrendo il soggetto di franca infermità di mente, si presenta ben in grado di percepire il disvalore dell’atto antigiuridico che stava per compiere; era consapevole dei vantaggi economici che la rapina avrebbe fruttato. Viceversa se la rapina in banca in uno psicotico delirante serve per donare poi danaro ai bambini dei paesi in via di sviluppo che senza di lui non saprebbero altrimenti come fare, ecco che il suo delirio di grandezza e di onnipotenza sarebbe ben inquadrabile nei casi di non imputabilità.
d. Il dilemma posto al giurista sul discernimento delle personalità criminali, onde valutare se le cause determinanti del reato penale abbiano ubbidito a fattori individuali e/o sociopatici subculturali e/o a fattori di destrutturazione mentale per cronica intossicazione.
Nella relazione di Vincenzo M. Mastronardi e Nicoletta Ventura tenuta al Congresso dell’International Academy of Mental Health svoltosi a Berlino dal 17 al 23 luglio 2011 in tema di “Malattie mentali e imputabilità: la concezione legislativa italiana”, si ribadiva quanto, nel sistema penale italiano, l’imputabilità (2-14) rappresenti una categoria penalistica di significativo rilievo, poiché dalla sua configurabilità dipende l’operatività degli ordinari meccanismi sanzionatori nei confronti dell’autore del reato (15). L’art. 85 c.p. esclude, infatti, la punibilità dei soggetti che, al tempo della perpetrazione di un fatto criminoso loro ascrivibile, non fossero imputabili ossia non in possesso della capacità di intendere e di volere, da considerarsi – quest’ultima – come abilità sia a comprendere il reale, il «valore sociale» di quanto accade e di ciò che si pone essere, sia «ad autodeterminarsi», ovverosia a maturare consciamente dei propositi, a bramarne la realizzazione ed a perpetrare una condotta conforme alle intenzioni (16,17). Secondo l’interpretazione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione italiana n. 9163 del 25 gennaio 2005 depositata l’8 marzo 2005, ai fini dell’applicabilità degli artt. 88 e 89 c.p., «rientrano nel concetto di infermità anche i gravi disturbi della personalità, come quelli da nevrosi o psicopatie, a condizione che il giudice ne accerti la consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere» (18-22). Tali asserti sono stati avallati da decisioni più recenti (23), le quali hanno sottolineato, per un verso, l’importanza della sussistenza di «un nesso eziologico per effetto del quale il fatto di reato possa ritenersi causalmente determinato dal disturbo mentale» (Cass. pen., sez. VI, 27 ottobre 2009, n. 43285, in C.E.D. Cass., n. 245253) così come da esempio della rapina in banca summenzionato e per altro verso, l’ininfluenza sia di ulteriori «anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati», sia di «stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di «infermità» (24-26). La concezione normativa e giurisprudenziale italiana appare incline, dunque, a concepire le patologie mentali come «un concetto cerniera» che permette di relazionare uno stato clinico ad entità categoriche di matrice giuridica (27), subordinando l’adozione di queste ultime alla ricorrenza o meno di una malattia di natura psichica. Per meglio chiarire il concetto, riportiamo alcuni emblematici passaggi di massima importanza della summenzionata sentenza:
«5.1 Quanto al contenuto della formula normativa dettata dall’art. 85 del codice sostanziale, la capacità di intendere pacificamente si riconosce nella idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni, ad “orientarsi nel mondo esterno secondo una percezione non distorta della realtà”, e quindi nella capacità di rendersi conto del significato del proprio comportamento e di valutarne conseguenze e ripercussioni, ovvero di proporsi “una corretta rappresentazione del mondo esterno e della propria condotta” (Cass., Sez. I, n. 13202/1990); mentre la capacità di volere consiste nella idoneità del soggetto medesimo “ad autodeterminarsi, in relazione ai normali impulsi che ne motivano l’azione, in modo coerente ai valori di cui è portatore”, “nel potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo che appare più ragionevole o preferibile in base ad una concezione di valore”, nella attitudine a gestire “una efficiente regolamentazione della propria, libera autodeterminazione” (Cass., Sez. I, n. 13202/1990, cit.), in sostanza nella capacità di intendere i propri atti ( nihil volitum nisi praecognitum), come ancora si esprime la dottrina; la quale pure avverte che, alla stregua della prospettiva scientifica delle moderne scienze sociali, in verità, “una volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio, non esiste”, dovendo piuttosto la volontà umana definirsi libera, “in una accezione meno pretenziosa e più realistica, nella misura in cui il soggetto non soccomba passivamente agli impulsi psicologici che lo spingono ad agire in un determinato modo, ma riesca ad esercitare poteri di inibizione e di controllo idonei a consentirgli scelte consapevoli tra motivi antagonistici”».
Possiamo parlare, secondo la stessa dirimente sentenza, di “crisi di identità della psichiatria”, risultando «la classificazione dei disturbi psichici quanto mai ardua e relativa, non solo per la mancanza di una terminologia generalmente accettata, ma per i profondi contrasti esistenti nella letteratura psichiatrica»; in effetti, «non può propriamente parlarsi di crisi dell’imputabilità, semmai di crisi del concetto di malattia mentale». Secondo il più tradizionale paradigma medico di scuola classica, le infermità mentali sono vere e proprie malattie del cervello o del sistema nervoso, aventi, per ciò, un substrato organico o biologico. Tale modello nosografico (compiutamente elaborato da Emil Kraepelin sul finire dell’Ottocento) afferma, in sostanza, la piena identità tra l’infermità di mente e ogni altra manifestazione patologica sostanziale, postula la configurazione di specifici modelli di infermità e della loro sintomatologia, propone il disturbo psichico come infermità certa e documentabile. Non mancano, tuttavia, diversi riferimenti a una prospettiva c.d. psicopatologica, per la quale il vizio di mente è indipendente dall’accertamento di un substrato organico e di una sua classificazione nella nosografia ufficiale (si è affermato, quindi, che, «se è esatto che il vizio di mente può sussistere anche in mancanza di una malattia di mente tipica, inquadrata nella classificazione scientifica delle infermità mentali, è pur sempre necessario che il vizio parziale discenda da uno stato morboso, dipendente da un’alterazione patologica clinicamente accertabile» (così Cass., Sez. I, n. 9739/1997). Non possiamo non riportare peraltro quanto, egregiamente recependo l’avvento della psicoanalisi, la stessa stigmatizzante sentenza così recita al paragrafo:
«7.2 Agli albori del ’900, sotto l’influenza dell’opera freudiana (e con la scoperta dell’inconscio, di un mondo, cioè, nascosto dentro di noi, “privo di confini fisiologicamente individuabili”, attraverso l’esame dei tre livelli della personalità: l’Es, il livello più basso e originario, permanentemente inconscio; l’Io, la parte ampiamente conscia, che obbedisce al principio di realtà; il Super-io, che costituisce la “coscienza sociale” e consente la interiorizzazione dei valori e delle norme sociali), prese a proporsi un diverso paradigma, quello psicologico, per il quale i disturbi mentali rappresentano disarmonie dell’apparato psichico, nelle quali la realtà inconscia prevale sul mondo reale, e nel loro studio vanno individuate le costanti che regolano gli avvenimenti psicologici, valorizzando i fatti interpersonali, di carattere dinamico, piuttosto che quelli biologici, di carattere statico. I disturbi mentali vengono, quindi, ricondotti a “disarmonie dell’apparato psichico in cui le fantasie inconsce raggiungono un tale potere che la realtà psicologica diventa, per il soggetto, più significante della realtà esterna” e, “quando questa realtà inconscia prevale sul mondo reale, si manifesta la malattia mentale”. Il concetto di infermità, quindi, si allarga, fino a comprendere non solo le psicosi organiche, ma anche altri disturbi morbosi dell’attività psichica, come le psicopatie, le nevrosi, i disturbi dell’affettività: oggetto dell’indagine, quindi, non è più la persona-corpo, ma la persona-psiche».
«7.3 Intorno agli anni ’70 del secolo scorso si è proposto un altro indirizzo, quello sociologico, per il quale la malattia mentale è disturbo psicologico avente origine sociale, non più attribuibile a una causa individuale di natura organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell’ambiente in cui il soggetto vive; esso nega la natura fisiologica dell’infermità e pone in discussione anche la sua natura psicologica e i principi della psichiatria classica, proponendo, in sostanza, un concetto di infermità di mente come “malattia sociale”. Dal nucleo di tale indirizzo si sono, quindi, sviluppati orientamenti scientifici che rifiutano l’esistenza della malattia mentale come fenomeno organico o psicopatologico (la c.d. “antipsichiatria”, o “psichiatria alternativa”)».
«7.4 Nella scienza psichiatrica attuale sono presenti orientamenti che affermano un “modello integrato” della malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo psichico sulla base di diverse ipotesi esplicative della sua natura e della sua origine: trattasi, in sostanza, di “una visione integrata, che tenga conto di tutte le variabili, biologiche, psicologiche, sociali, relazionali, che entrano in gioco nel determinismo della malattia”, in tal guisa superandosi la visione eziologica monocausale della malattia mentale, pervenendosi ad una concezione “multifattoriale integrata”. In dipendenza di tale prospettiva, trovano nuovo spazio gli orientamenti ispirati ad una prevalenza del dato medico, valorizzanti l’eziologia biologica della malattia mentale (psichiatria c.d. biologica), e, contro i rischi di un facile approccio biologico, si sviluppa la c.d. “psichiatria dinamico-strutturale”, che considera il comportamento umano sotto il duplice aspetto biologico e psichico. Si assiste anche ad una rivalutazione del metodo nosografico, cui, tuttavia, non si attribuisce, come per il passato, un ruolo di rigido codice psichiatrico di interpretazione e diagnosi della malattia mentale, ma piuttosto quello di “una forma di linguaggio che deve trovare il più ampio consenso onde, raggiunta la massima diffusione, consenta la massima comprensione”. In tale contesto, i più accreditati sistemi di classificazione (ad esempio, il DSM-IV, o l’ICPC o l’ICD-10) dovrebbero assumere il valore di parametri di riferimento aperto, in grado di comporre le divergenti teorie interpretative della malattia mentale e fungere, quindi, da contenitori unici».
Riguardo alla coscienza morale, riportiamo nella Tabella 1 uno schema sintetico relativo all’evoluzione degli standard morali conquistati attraverso gli anni di crescita del bambino prima, dell’adolescente e poi dell’adulto relativamente agli studi sugli standard morali così come già affrontati da Piaget e da Kohlberg.
È chiaro che se viene commesso un atto antigiuridico nello stadio preconvenzionale o convenzionale, lo stesso atto potrebbe avere a che fare con concetti di immaturità, ma non avrebbe nulla a che fare con concetti di non imputabilità, anche se i più recenti studi di neuropsicologia renderebbero ragione del vecchio concetto di “agenesia morale”, ma gli studi in merito e le recentissime, sia pur sparute, note giurisprudenziali italiane saranno oggetto di ulteriori più specifici approfondimenti in altra sede.



Continuando la disamina dei passaggi più emblematici della summenzionata sentenza delle Sezioni riunite della Corte di Cassazione italiana, la stessa al cap. 8.0 così recita:
«[…] le anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono solo le malattie mentali in senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie o quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche, contraddistinte, queste ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità”, sicché “esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere non rilevanti ai fini dell’applicabilità degli artt. 88 e 89 c.p., in quanto hanno natura transeunte, si riferiscono alla sfera psico-intellettiva e volitiva e costituiscono il naturale portato di stati emotivi e passionali” (Cass., Sez. VI, n. 26614/2003); le manifestazioni di tipo nevrotico, depressive, i disturbi della personalità, comunque prive di un substrato organico, la semplice insufficienza mentale “non sono idonee a dare fondamento ad un giudizio di infermità mentale” (Cass., Sez. I, n. 7523/1991); solo “l’infermità mentale avente una radice patologica e fondata su una causa morbosa può fare escludere o ridurre, con la capacità di intendere e di volere, l’imputabilità, mentre tutte le anomalie del carattere, pur se indubitabilmente incidono sul comportamento, non sono idonee ad alterare nel soggetto la capacità di rappresentazione o di autodeterminazione” (Cass., Sez. I, n. 13202/1990); l’eventuale difetto di capacità intellettiva determinata da semplici alterazioni caratteriali e disturbi della personalità resta priva di rilevanza giuridica (Cass., Sez. V, n. 1078/1997); le semplici anomalie del carattere o i disturbi della personalità non influiscono sulla capacità di intendere e di volere, “in quanto la malattia di mente rilevante per l’esclusione o per la riduzione dell’imputabilità è solo quella medico-legale, dipendente da uno stato patologico veramente serio, che comporti una degenerazione della sfera intellettiva e volitiva dell’agente” (Cass., Sez. I, n. 10422/1997). In particolare, dovendosi distinguere tra psicosi e psicopatia, si rileva che solo la prima è da annoverare nell’ambito delle malattie mentali, mentre la seconda va considerata una mera “caratteropatia”, ovvero una anomalia del carattere, non incidente sulla sfera intellettiva e, quindi, inidonea ad annullare o fare grandemente scemare la capacità di intendere e di volere (Cass., Sez. I, n. 299/1991). E per tali ragioni, non vengono ricomprese tra le cause di diminuzione od eliminazione della imputabilità le c.d. “reazioni a corto circuito”, in quanto collegate a condizioni di turbamento psichico transitorio non dipendente da causa patologica, ma emotiva o passionale (Cass., Sez. I, n. 9701/1992)».
Altre decisioni fanno riferimento al valore di malattia, secondo uno dei criteri elaborati dalla psichiatria forense, che così individua quelle situazioni che, indipendentemente dalla qualificazione clinica, assumono significato di infermità e sono idonee ad incidere sulla capacità di intendere e di volere; si ricomprendono, così, nella categoria dei malati di mente anche soggetti affetti da nevrosi e psicopatie, quando tali disturbi si manifestino con elevato grado di intensità e forme più complesse, tanto da integrare le connotazioni di una vera e propria psicosi (Cass., Sez. I, n. 19532/2003; id., Sez. I, n. 3536/1997; id., Sez. I, n. 4492/1987; id., Sez. I, n. 2641/1986); e in tale contesto interpretativo si è dato rilievo ad alcune situazioni classificabili borderline (Cass., Sez. I, n. 15419/2002; id., Sez. I, n. 6062/2000).
Il divieto di perizia su qualità psichiche non patologiche, stabilito per l’imputato dall’art. 314, comma 2, c.p.p., è operante anche per la persona offesa. Se è vero, infatti, che la perizia psichiatrica può essere disposta non soltanto nel caso che appaia necessaria un’indagine sullo stato di mente dell’imputato, ma anche nel caso in cui il giudice ritenga indispensabile, ai fini della definizione del giudizio, un’indagine circa lo stato di mente della persona offesa, allo scopo di trarne più approfonditi elementi di valutazioni sui fatti denunciati e sulla loro qualificazione giuridica, è altrettanto vero che il divieto di perizia sulle qualità psichiche non dipendenti da cause morbose è operante non solo nei confronti dell’imputato, cui si riferisce la norma dell’art. 314 c.p.p., ma anche nei riguardi della persona offesa, poiché identica è la ratio del divieto, che è quella di evitare indagini in una valutazione che spetta solo al giudice (Cass. Pen. Sez. I, 21 marzo 1985, n. 2627 [ud. 23 novembre 1984], Zimbardo).
Ben s’inserisce al proposito, in tale contesto, quanto scrive Vassalli (1988) in tema di “colpevolezza e personalità del reo” e che riportiamo per intero:
«Da tempo la colpevolezza giuridico-penale trascina con sé un altro interrogativo: esiste solo la colpevolezza per il fatto o anche una colpevolezza della personalità?
Qui gli autori si dividono non solo sulla base di criteri interpretativi del diritto positivo, ma anche secondo inclinazioni ideologiche. Sia la teoria della “colpa d’autore” (Täterschuld) che quella per “la condotta di vita” (Lebensfhrungschuld) portano indelebile il marchio del periodo nazista (cfr. tra i molti: Antolisei F; Petrocelli B; Jimenéz de Asúa L, Tratado de derecho penal, V. Buenos Aires, 1956; Dolcini E.), mentre quella della colpevolezza per il carattere porta ad un tempo l’impronta positivistica e quella finalistica (l’impronta positivista troviamo ad es. nella teoria di Ranieri S, nonché Id., Manuale di diritto penale, Parte gen., 4a ed., Milano, 1968, 281 ss., su cui v. Petrocelli B., 137 ss. e Calvi AA, Tipo criminologico e tipo normativo d’autore, Padova, 1967, 153 ss. L’impronta finalista si trova ad es. nell’interpretazione che dell’art. 133, cpv., n. 1 viene proposta in chiave di colpevolezza da Santamaria D)».
«Come elemento del reato», continua Vassalli, «è evidente che la colpevolezza non può essere che colpa per il fatto. Nello stesso tempo è indiscutibile che in vari diritti positivi, a cominciare dal nostro, esistono casi nei quali la personalità del soggetto viene in considerazione non solo ai fini della pericolosità sociale, ma anche ai fini del quantum della pena. Il Bettiol ha citato come esempio della colpa per la condotta di vita, nel nostro diritto, la recidiva e le figure dell’ubriaco e del tossicomane abituale (Bettiol G, Diritto penale, 2a ed., Padova, 1982, 393 e numerosi altri scritti specifici sul tema della colpevolezza d’autore. Contro la colpevolezza di personalità resta interessante, in altra epoca, una pagina di Hold Von Ferneck A, 43, inserita nella sua concezione decisamente avversa ad ogni confusione tra colpevolezza giuridica e colpevolezza morale).
Si può discutere sulla prima, che molti vedono esclusivamente in chiave social-preventiva a onta del fatto che conseguenza della recidiva è la pena e non la misura di sicurezza: ma è difficile negare che l’esempio calzi per le seconde. Vi è l’art. 133 c.p., nel cui capoverso molti autori si ostinano a vedere un richiamo alla personalità in chiave retributiva anziché social-preventiva, come è conforme al linguaggio del codice, che parla di “capacità a delinquere”. Tuttavia è un fatto che in tutti questi casi la personalità del soggetto viene in considerazione soltanto ai fini di aumenti o di diminuzioni di pena; mai come elemento costitutivo dell’illecito. L’unica eccezione è rappresentata da alcuni casi marginali, residui di legislazioni del passato: il vagabondaggio, taluni «reati di mero sospetto» legati ai precedenti del loro autore, altre figure minori sparse in alcuni codici o leggi speciali. Ma in questi casi è pur sempre una condotta quella che può e deve venire individuata per dar vita al reato, non una colpevolezza a sé stante».
«Nessuno nega l’importanza della graduazione della colpevolezza ai fini della determinazione della pena», conclude Vassalli, «ciò che va respinto nel modo più netto è il fare della personalità come tale l’oggetto del giudizio di colpevolezza e dunque di considerarla di per sé come costitutiva della relativa attribuzione o qualificazione».
Gli stati emotivi e passionali possono incidere sulla lucidità mentale del soggetto agente, ma tanto non comporta, per espressa previsione normativa, la diminuzione della imputabilità; affinché ciò avvenga, è necessario che, associato a essi, si sostanzi in un fattore determinante un vero e proprio stato patologico, sia pure transeunte e non inquadrabile nell’ambito di una precisa classificazione nosografica, accertata sulla base degli apporti della scienza psichiatrica la quale, tuttavia, nella vigenza dell’attuale quadro normativo e nella sua funzione di supporto alla decisione giudiziaria, non potrà mai spingersi al punto di attribuire carattere di infermità (come tale rilevante, ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p.), ad alterazioni transeunti della sfera psico-intellettiva che costituiscano il naturale portato degli stati emotivi e passionali di cui sia riconosciuta l’esistenza (Cass., Sez. I, n. 967/1997). Il riconoscimento che anche le deviazioni del carattere possono elevarsi a causa incidente sulla imputabilità, a condizione che su di esse si innesti, o sovrapponga, uno stato patologico che alteri la capacità di intendere e di volere, ha comportato che una parte della giurisprudenza ritenesse, per un verso, che le anomalie del carattere e le c.d. personalità psicopatiche determinino una infermità di mente solo nel caso in cui, per la loro gravità, cagionino un vero e proprio stato patologico, uno squilibrio mentale; per altro verso, che la personalità borderline non rilevi ai fini della imputabilità, pur includendo la scienza psichiatrica tale disturbo tra le infermità (Cass., Sez. VI, n. 7845/1997). Escludendosi tesi aprioristiche, si riconosce, in alcune decisioni, che anche le c.d. “reazioni a corto circuito” - normalmente ascritte al novero degli stati emotivi e passionali -, in determinate situazioni, possano costituire manifestazioni di una vera e propria malattia che compromette la capacità di intendere e di volere, “incidendo soprattutto sull’attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, con possibilità di optare per la condotta adatta al motivo più ragionevole e di resistere, quindi, agli stimoli degli avvenimenti esterni” (Cass., Sez. I, n. 5885/1997; id., Sez. I, n. 3170/1994; id., Sez. I, n, 12429/1994; id., Sez. I, n. 12366/1990; id., Sez. I, n. 4492/1987; id., Sez. I, n. 14122/1986); si esclude però rilievo a tali “reazioni a corto circuito” quando esse si colleghino a semplici manifestazioni di tipo nevrotico o ad alterazioni comportamentali prive di substrato organico, richiedendosi, perché rilievo possano assumere, che esse si inquadrino “in una preesistente alterazione patologica comportante infermità o seminfermità mentale” (Cass., Sez. VI, n. 23737/2004; id., Sez. I, n. 11373/1995; id., Sez. I, n. 7315/1995; id., Sez. I, n. 4954/1993; id., Sez. I, n. 9801/1992; id., Sez. I, n. 4268/1982); il criterio della patologicità esclude tutti quei disturbi che trovino origine in situazioni di disagio socio-ambientale e familiare (Cass., Sez. VI, n. 31753/2003).
Concludiamo con le esatte parole della summenzionata dirimente Sentenza delle Sezioni riunite della corte di Cassazione:
«10.2 Vero è, d’altra parte, che gli articoli 88 e 89 non possono non esser letti che in stretto rapporto, sistematico e derivativo, con il generale disposto dell’art. 85 c.p., sicché, anche in riferimento alle rigide classificazioni nosografiche della psichiatrica ottocentesca di stampo organicistico-positivistico, pertinente è il rilievo di autorevole dottrina, secondo cui, proprio a conferma della maggiore ampiezza del termine di “infermità” rispetto a quello di “malattia”, “non interessa tanto che la condizione del soggetto sia esattamente catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di medicina, quanto che il disturbo abbia in concreto l’attitudine a compromettere gravemente la capacità sia di percepire il disvalore del fatto commesso, sia di recepire il significato del trattamento punitivo”, che lasci integra o meno la capacità di “poter agire altrimenti”, posto che - come di sopra si è già accennato - solo nei confronti di soggetti dotati di tali capacità può concretamente parlarsi di colpevolezza. E si è da altra autorevole voce della dottrina anche osservato che “certo, una formulazione normativa che, seppure a livello esemplificativo, intervenga a sottolineare più incisivamente il potenziale rilievo di disturbi psichici che, anche al di fuori di malattie psichiatriche […], valgano egualmente ad indiziare l’inimputabilità […], è in sede di riforma auspicabile. Essa non è però essenziale, poiché anche l’attuale art. 88, interpretato nel sistema delineato dall’art. 85 (soprattutto) e dalle altre disposizioni in tema di capacità di intendere e di volere, consente di pervenire alle medesime conclusioni”». Il caso di omicidio per un dissidio condominiale, dovuto a uno scaldabagno che creava disturbo al vicino di casa, ha ispirato la summenzionata sentenza e si è conclusa con un disturbo di personalità per niente inficiante la capacità di intendere il disvalore di ciò che si stava per compiere e quindi il soggetto in grado di decidere se resistere o lasciarsi andare all’impulso aggressivo omicidiario ha preferito concedersi tale sua reattività per lui in quel momento irrinunciabile.
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