La responsabilità professionale in psichiatria: evoluzione e criticità

Professional liability in psychiatry: evolution and critical issues


LILIANA LORETTU1*, ALESSANDRA NIVOLI1, PAOLO MILIA1, CRISTIANO DEPALMAS1,
DAVIDE PIU
1, GIULIA TARAS1, LUIGI RIONDINO1, GIANCARLO NIVOLI1

*E-mail: llorettu@uniss.it


1Clinica Psichiatrica, Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e Sperimentali

Università di Sassari, AOU Sassari


RIASSUNTO. Obiettivo dell’articolo è presentare l’evoluzione della responsabilità professionale in psichiatria dalla legge 36 del 1904 a oggi. Attraverso un esame delle posizioni dottrinali e della espressione giurisprudenziale è stato possibile evidenziare tre distinte fasi in cui si è declinata la responsabilità professionale negli anni. Una fase custodialistica, in cui lo spirito che ha animato la legge dell’assistenza psichiatrica era ispirata a principi di difesa sociale e la responsabilità dello psichiatra era riconosciuta prevalentemente in una mancata custodia del paziente psichiatrico. Una fase della indulgenza, in cui, al pari di altre discipline, allo psichiatra veniva riconosciuta una “ridotta impunità” in ragione di una presunta “speciale difficoltà” nell’esercizio della professione medica. Una fase della responsabilizzazione, in cui il medico in generale, e lo psichiatra in particolare, è stato confrontato con posizioni responsabilizzanti che hanno portato a condanne. Un esame della applicazione della posizione di garanzia alla psichiatria consente di evidenziare le attuali difficoltà, a volte retaggio del passato.


PAROLE CHIAVE: responsabilità professionale, psichiatria, legislazione, assistenza psichiatrica.



SUMMARY. The aim of the article is to present the evolution of professional liability in psychiatry from law 36 of 1904 to today. Through an examination of the doctrinal positions and of the jurisprudential expression it was possible to highlight three distinct phases in which professional responsibility has declined over the years. A custodial phase, in which the spirit that animated the law of psychiatric assistance was inspired by principles of social defense and the responsibility of the psychiatrist was recognized mainly in the lack of custody of the psychiatric patient. A phase of indulgence, in which, like other disciplines, the psychiatrist was recognized with “reduced impunity” due to an alleged “special difficulty” in exercising the medical profession. A phase of empowerment, in which the doctor in general, and the psychiatrist in particular, was confronted with empowering positions that led to convictions. An examination of the application of the guarantee position to psychiatry allows us to highlight current difficulties, sometimes a legacy of the past.


KEY WORDS: professional liability, psychiatry, legislatio, psychiatric assistance.


INTRODUZIONE

Con l’espressione “responsabilità professionale del medico” si intende quell’insieme di elementi che intervengono nel produrre un danno iatrogeno a un paziente, configurando per il medico una posizione di colpa professionale.

La responsabilità professionale in psichiatra ha acquisito, negli ultimi anni, un sempre maggior interesse da parte degli psichiatri che lavorano nel campo e che sempre più spesso vengono confrontati con problematiche di responsabilità professionale. Le aree di interesse sono molteplici e spaziano da un generico rischio nella formulazione della diagnosi, nella prescrizione della terapia, nella valutazione del consenso informato, nella tutela del segreto professionale, nell’applicazione della contenzione, nell’utilizzo del trattamento sanitario obbligatorio e svariate altre situazioni, molte della quali in comune con altre discipline. Tuttavia per la psichiatria vi è sempre stato un rischio professionale, aggiuntivo e differente rispetto al resto della medicina, che concerne la sorveglianza del paziente psichiatrico e che, nel passato, ha attribuito allo psichiatra un ruolo custodialistico oltre che terapeutico. L’arrivo della legge 180 ha radicalmente cambiato il paradigma assistenziale del malato di mente, valorizzando la cura e la libertà decisionale del paziente. Il cambiamento ha coinvolto anche l’area della responsabilità professionale, che si è trovata sgravata del compito/obbligo custodialistico.

Nel tempo, sotto l’influenza di nuovi orientamenti scientifici, normativi e assistenziali, la responsabilità professionale dello psichiatra ha subito profondi mutamenti, dottrinali, giurisprudenziali e legislativi, che spesso sembrano riproporre un inquietante ritorno al passato1.

Alla luce delle sentenze che hanno coinvolto degli psichiatri in merito alla responsabilità professionale è stato possibile identificare tre distinte fasi che, nel tempo, hanno caratterizzato la responsabilità professionale dello psichiatra.

LA FASE CUSTODIALISTICA

Una prima fase potrebbe essere definita “fase custodialistica”. Trova forte ancoraggio nella legge n. 36 del 14 febbraio 1904 Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 43 del 22 febbraio 1904). Sebbene sia doveroso rilevare che la storia non dovrebbe essere criticata a posteriori, e che dalla storia si deve imparare, è utile rilevare che si è trattato di una legge che per la prima volta ha dato ai malati di mente, ultimi tra gli ultimi, un tetto, un pasto, un letto, in assenza di strumenti terapeutici validi (farmaci). È altresì importante sottolineare che lo spirito della legge era prevalentemente custodialistico. L’articolo 1 della legge esprime chiaramente lo spirito e la finalità della legge.


Art. 1.

«Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. Sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente legge, tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere».


I principi che hanno caratterizzato la legge del 1904 sono fondamentalmente tre: un principio custodialistico, un principio di difesa sociale, un principio moralistico. I tre principi fortemente embricati tra loro costituiscono il connettivo della legge, ne hanno consentito il mantenersi per lunghi anni e hanno declinato la responsabilità professionale dello psichiatra in quel periodo storico.

Il principio custodialistico, chiaramente espresso nell’art. 1 della legge del 1904, era fortemente legato alla convinzione che il malato di mente fosse, automaticamente, pericoloso, imprevedibile, ingestibile e quindi fosse necessario allontanarlo dalla società e custodirlo in un luogo chiuso. La malattia mentale è stata per lungo tempo sinonimo di pericolosità, violenza, incomprensibilità, diversità. In conseguenza il principio di difesa sociale richiedeva che i manicomi fossero i luoghi della custodia, della separazione ed esclusione del malato dalla società. Il ricovero in manicomio avveniva se «le persone affette da alienazione mentale siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo». Ed ecco che la legge mette l’attenzione anche su altri aspetti più squisitamente moralistici, il pubblico scandalo, che rientra tra i criteri di un intervento custodialistico. Il manicomio diventa il luogo di custodia del malato di mente, ma anche il perimetro che separa e protegge il “normale” dal folle.

In questa fase, e con questo spirito, lo psichiatra ha un mandato di difesa sociale e, di conseguenza, ha una responsabilità nella custodia del malato di mente. La responsabilità professionale veniva, quasi esclusivamente, ricondotta ai comportamenti di custodia od omessa custodia. Testimonianza di questa tendenza sono alcuni articoli del codice penale, attualmente abrogati (artt. 714 e 716). In particolare si sottolinea l’art. 717 c.p. come importante conferma dello spirito custodialistico e di protezione sociale che punisce l’omessa denuncia di malattia mentale o di gravi infermità potenzialmente pericolose.

In questa sede non si entra in merito ai principi etici deontologici, che sicuramente hanno alimentato l’operato degli psichiatri che ci hanno preceduto e che sicuramente hanno avuto a cuore la salute del malato di mente e la sua cura, nonostante la peculiarità della legislazione allora vigente, ma si vuole segnalare la diversa posizione legislativa, e culturale, nei confronti della malattia mentale e della responsabilità professionale. Pertanto, in questo periodo, la responsabilità professionale dello psichiatra non è tanto nei confronti del malato e della sua cura, ma nei confronti della società: il bene da proteggere è la società e l’elemento da cui proteggersi è il malato con la sua pericolosità e il suo pubblico scandalo.

FASE DELL’INDULGENZA

Successivamente vi è stato un periodo in cui la responsabilità dello psichiatra, al pari anche di altre specialità, ha conosciuto una fase della ridotta “impunità medica”. Questo periodo ha subito l’influenza culturale del “paternalismo” nella relazione medico-paziente, che ha funzionato da “protettore” nei confronti della responsabilità professionale, in ragione di una pressoché incondizionata accettazione delle decisioni e dell’operato del medico. L’indulgenza giurisprudenziale verso la classe medica si è basata, tra l’altro, su un razionale specifico riconducibile all’art. 2236 del c.c. in ragione del quale “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”. Al medico viene riconosciuta una “speciale difficoltà” nell’eseguire la sua professione, di cui tener conto nella valutazione della responsabilità professionale per colpa. In pratica, pur non riconoscendo una applicabilità diretta e automatica dell’art. 2236 c.c., nel sistema penale in più sentenze si è affermato che l’art. 2236 c.c. potesse «trovare considerazione in tema di colpa professionale del medico […] non per effetto di diretta applicazione nel campo penale, ma come regola di esperienza cui il giudice possa attenersi nel valutare l’addebito di imperizia» (Cass. Sez. IV, sent. 23 marzo 1995 n° 5278; Cass. Sez. IV, sent. 21 giugno 2007 n° 39592)13. In ambito psichiatrico tale periodo ha coinciso con la riforma psichiatrica e l’introduzione della legge 180, che ha radicalmente cambiato il paradigma dell’assistenza psichiatrica. L’assistenza psichiatrica si sposta dai manicomi al territorio, la finalità della legge è la cura del paziente nel rispetto della sua libertà, dignità, autonomia. Numerosi contributi clinici e scientifici contribuiscono ad abbattere l’automatismo malattia mentale-pericolosità e i presupposti dello spirito custodialistico che aveva caratterizzato la legge del 1904. La legge 180 è fortemente influenzata e ispirata dalla Costituzione, e in particolare dall’art. 32.


Art. 32

«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».


Il ruolo della 180 è stato anche quello di valorizzare la libertà del paziente e tutelarne la dignità in quanto cittadino libero in una società civile, con interventi sanitari finalizzati alla cura del paziente nell’ambito della psichiatria di comunità.

L’effetto di tutto ciò sulla posizione di garanzia è fondamentale per capire il cambiamento della responsabilità professionale. L’obbligo giuridico, il nucleo fondante della posizione di garanzia, è la tutela della salute del paziente, nel rispetto della sua libertà. La trasformazione dell’individuo affetto da patologia mentale, da pericoloso per sé e per gli altri a paziente bisognoso di cure e co-protagonista di un rapporto terapeutico, ha modificato i contenuti della posizione di garanzia posizionandola sulla cura del paziente ed escludendo obblighi di difesa sociale. La giurisprudenza si è mostrata spesso in linea con il cambiamento culturale della 180 e ha formulato numerose sentenze, sostanzialmente benevole, il cui principio ispiratore è sembrato essere quello in ragione del quale al medico, e allo psichiatra, si richiede un obbligo di mezzi, ma non un obbligo di risultati.


Corte di Cassazione, sezione II, 11 maggio 1990

«Il ricovero coattivo di infermi di mente deve essere disposto come rimedio estremo, con carattere temporaneo, mentre d’altro canto, non possono essere posti a carico del medico del centro di igiene mentale compiti di Polizia, il cui svolgimento può esser reso necessario dal malato di mente. Ne consegue che non può essere ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 328 c.p. il medico del CIM che abbia omesso di promuovere un ricovero finalizzato alla rimozione di una stabile situazione familiare di generica pericolosità».


Corte di Cassazione, sezione V, 22 gennaio 1998, n. 4407

«Nell’ambito del trattamento sanitario non obbligatorio di persone incapaci, la custodia del malato, finalizzata a soddisfare esigenze di ordine individuale, sociale e giuridico, comprese quelle di prevenzione di atti autolesivi ed etero lesivi, deve essere conciliata con la libertà terapeutica e con la dignità del malato».


Corte di Cassazione, sezione IV, 5 maggio 1987

«Nella legge 833 non è previsto alcun obbligo di procedere a TSO e quindi manca l’obbligo giuridico la cui violazione è imputata allo psichiatra. Non esistono specificazioni particolari su quale medico possa proporre un TSO. La proposta è discrezionale, la convalida e l’ordinanza (in positivo o in negativo) sono atti dovuti poiché deputati a operare sono un qualsiasi medico che fa la proposta motivata, un altro medico della struttura sanitaria pubblica che deve convalidare la proposta e il sindaco che deve disporre, con decreto motivato, il TSO in degenza. È oltremodo evidente che tra i suddetti soggetti non è compreso l’imputato che svolge la sua attività professionale al servizio di igiene mentale».


Corte d’Appello di Cagliari, 9 aprile 1991

«Non risponde di omicidio colposo il medico psichiatra che non adotta le misure idonee a impedire il suicidio del paziente, in quanto non sono stati ritenuti sussistenti, nel caso in specie, gli estremi di gravità della colpa, e in quanto le liberali leggi manicomiali non avrebbero comunque potuto impedire coattivamente l’atto autolesionistico (fattispecie di suicidio per defenestrazione)».


Tribunale di Bologna, 10 agosto 1993

«In astratto la paziente era potenzialmente rischiosa per sé, ma non può in alcun modo affermarsi con alto grado di probabilità che l’evento mortale non si sarebbe verificato ugualmente anche se vi fosse stato il ricovero; la legislazione impone al terapeuta l’obbligo di tutelare la salute del paziente, ma gli impone di effettuare le cure necessarie in regime di libertà per il malato, sempre che non ricorrano i requisiti per il TSO».

Tribunale di Trento, 29 luglio 2002

«La legge n. 180 del 1978 ha espressamente abrogato i reati di omessa custodia e di omessa denuncia; ciò ha determinato una svolta nella cura delle malattie mentali, essendo caduta la vecchia equazione: malattia mentale – pericolosità, frutto di un pregiudizio pericolosamente scorretto. Ne consegue che il trattamento sanitario obbligatorio si colloca ora in una prospettiva esclusivamente terapeutico – sanitaria, per cui non può essere disposto per ragioni di contenimento e di sorveglianza. Non sussiste quindi, in capo al medico psichiatra, una posizione di garanzia in funzione meramente neutralizzatrice del pericolo di atti autolesionistici»14.


Tuttavia la dottrina si è mostrata cauta sul ridimensionamento della posizione di garanzia dello psichiatra dopo la 180, ritenendo che sebbene il concetto di pericolosità sociale non compaia nella nuova legge, il paziente psichiatrico potrebbe essere pericoloso e tale situazione rientrerebbe nelle «alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici»3-5, riproponendo di fatto una posizione di garanzia comprensiva di obblighi custodialistici.

FASE DELLA RESPONSABILIZZAZIONE

Seguendo una fisiologica fluttuazione delle riflessioni dottrinali e un susseguirsi di vari orientamenti giurisprudenziali, si è arrivati alla fase della responsabilizzazione, alla quale hanno contribuito vari elementi.

Un primo elemento concerne in maniera trasversale tutte le discipline mediche e riguarda le riflessioni critiche nei confronti dell’art. 2236 c.c., che ne evidenzia «i limiti connessi tanto alla sua problematica esportabilità nel diritto penale […] quanto al significato da attribuire al requisito della soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà della prestazione»13. In particolare, l’orientamento in merito al concetto di “speciale difficoltà” è andato assottigliandosi sino a posizionarsi sul solo profilo della imperizia, in riferimento alla tecnica della prestazione15, ritenendo che possa trovare applicazione solo in quei casi straordinari ed eccezionali trascendenti la preparazione media o non ancora studiati dalla scienza medica, con conseguente incertezza sulle tecniche preferibili13.

Un secondo elemento concerne nello specifico l’ambito psichiatrico. La giurisprudenza ha dato una significativa sferzata alla tendenza benevola con la produzione di alcune sentenze che hanno segnato la giurisprudenza in merito alla responsabilità professionale dello psichiatra. Tra le sentenze più significative vi sono le sentenze Cass. Pen. sez. IV
n° 10795/07 e Cass. Pen. sez. IV n° 48292/08.


La sentenza n° 10795/07 fa riferimento a un paziente residente in una struttura riabilitativa al quale viene ridotta la terapia neurolettica (e poco dopo reintrodotta), che si rende responsabile dell’omicidio di un educatore della comunità. Lo psichiatra, in ragione della riduzione farmacologica, viene condannato per omicidio colposo in corso di reato doloso (l’omicidio compiuto dal paziente). Nella sentenza compare un passaggio importante sulla posizione di garanzia relativamente alla terapia e alla custodia.

La sentenza n° 48292/08 è un esempio di coinvolgimento di un’intera équipe nella responsabilità professionale. È il caso di un paziente ricoverato in regime di ricovero volontario perché affetto da disturbo depressivo maggiore: alcuni giorni dopo il ricovero, usciva dal reparto, raggiungeva la finestra del corridoio di un altro piano dell’edificio e si gettava nel vuoto. Ai medici viene riconosciuta una responsabilità per omicidio colposo per non aver adottato le misure cautelari atte a evitare il fatto, evidenziando tra queste “momenti di custodia concordati… e un regime consensuale di custodia”, oltre che richiedere un “obbligo di salvare il paziente dal rischio di condotte autolesive”. Tale obbligo è richiesto anche in regime di ricovero volontario.


Queste e altre sentenze testimoniano l’orientamento giurisprudenziale verso una responsabilità professionale nuovamente gravata da istanze custodialiste e di difesa sociale.

Un terzo elemento, di grande rilevo in ambito psichiatrico, ha aperto nuovi scenari sulla responsabilità professionale dello psichiatra e concerne l’introduzione della legge 81/2014 che ha sancito la chiusura degli OPG e la creazione delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS). Tra i numerosi risvolti della legge vi è quello di riunire i profili di cura e di custodia in capo allo psichiatra (responsabile della REMS), con ovvie ricadute in termini di responsabilità professionale in quanto lo psichiatra sarà nuovamente chiamato a garantire l’ordine pubblico e la tutela della collettività16. Inoltre, nelle REMS sempre più spesso si osserva un “passaggio” di individui in cui prevale una dimensione di antisocialità/criminalità che poco o nulla ha a che fare con i programmi terapeutici delle REMS, ma che tuttavia ripropongono una richiesta custodialistica e di difesa sociale.

DISCUSSIONE

Quanto precede consente di formulare alcune riflessioni su come si è modificata la responsabilità professionale. Pertanto è utile domandarsi come si declina la posizione di garanzia dello psichiatra, rispetto alla posizione del medico in generale, in ragione di specifiche criticità.

In primo luogo è importante segnalare la complessità della patologia psichiatrica. La psicopatologia è soggetta a fluttuazioni anche in presenza di terapie adeguate, con adeguato monitoraggio, in quanto estremamente sensibile agli eventi esterni/ambientali, che risultano difficilmente prevedibili e controllabili, ma che sono soggettivamente importanti e possono contribuire a riesacerbazioni repentine della psicopatologia.

La psicopatologia ha una diversa visibilità clinica, rispetto ad esempio a un arto fratturato, spesso è di difficile riconoscibilità, spesso viene abilmente dissimulata dal paziente. Il confine tra normalità e psicopatologia è notevolmente condizionato da elementi quali lo stigma, il giudizio morale, le reazioni emotive dell’ambiente alla malattia, e le reazioni emotive del paziente alla malattia, le reazioni emotive dello psichiatra17.

Il sottile e tortuoso confine tra il dovere di tutela della libertà e autonomia del paziente, secondo quanto formulato dalla Costituzione nell’art. 32 e dalla legge 180, e la necessità di garantire le cure al paziente psichiatrico anche nei momenti in cui il paziente non è accessibile alle cure, apre ulteriori scenari critici in merito alla posizione di garanzia dello psichiatra. Il ruolo delle sostanze, che sempre più stanno modificando gli esordi, il quadro clinico, il decorso della malattie mentali, e il comportamento del paziente psichiatrico rendono ulteriormente critica la posizione di garanzia dello psichiatra, che va a confrontarsi con una variabile completamente non “controllabile e non prevedibile”. Inoltre, alcuni elementi quali il comportamento autoaggressivo del paziente (il suicidio) e il comportamento eteroaggressivo del paziente psichiatrico contribuiscono a rendere peculiare la posizione di garanzia dello psichiatra.

Soprattutto negli ultimi anni, il concetto di “posizione di garanzia” si sta modificando in ampiezza, poiché sta coinvolgendo settori un tempo non coinvolti nella responsabilità professionale con “incursioni” sempre più frequenti in merito alla perizia applicata nella scelta di uno specifico trattamento farmacologico (Cass. Pen. sez. IV n° 10795/07); con l’applicazione della titolarità della posizione di garanzia a intere équipe (Cass. Pen. sez. IV n°48292/08) e con conseguenze psichiatrico forensi sempre più importanti, quali la condanna degli operatori.

Alcuni contenuti di sentenze sembrano riproporre per lo psichiatra una posizione di garanzia a contenuto custodialista. Sebbene l’orientamento giurisprudenziale non sia univoco, le argomentazioni di tali sentenze possono darci alcune indicazioni in merito. Nella sentenza Cass. IV sez. pen. n° 48292/08 vengono riportati alcuni elementi utili alla riflessione: una volta riconosciuta la titolarità della posizione di garanzia (nel caso specifico una intera équipe) si afferma che «lo psichiatra […] ha l’obbligo giuridico di curare la malattia mentale nel miglior modo possibile […] detto obbligo ha in se quello di salvare il paziente dal rischio di condotte autolesive […]». Ne consegue che in tale sentenza emerga un obbligo giuridico, che nella realtà clinica, quella che si confronta realmente con la complessità della malattia e del malato, ha richieste miracolose.

La stessa sentenza inoltre argomenta chiaramente in merito alla caratteristica della legge del 1978, condividendo sostanzialmente quanto affermato nella sentenza della Corte d’Appello: «Che la legge 180 aveva segnato il passaggio a un sistema basato sulla cura, ma non aveva definito il contenuto del relativo obbligo, lasciando che il medesimo fosse modellato sulle concrete esigenze del paziente, senza escludere eventuali momenti di custodia concordati»; e specifica inoltre che un regime di vigilanza, anche con momenti di custodia concordati, siano ampiamente compatibili anche in regime di ricovero volontario.

Un’altra sentenza storica è quella del tribunale di Bologna (27.01.2006), che richiama una posizione di garanzia con l’obbligo giuridico del controllo del comportamento del paziente. Interessanti alcuni specifici passaggi della sentenza quali: «Non può sorgere alcuna incertezza di sorta sull’esistenza, in capo al medico psichiatra […] di un obbligo di garanzia nei confronti del malato di mente, nella forma della posizione di controllo che impone al soggetto obbligato la neutralizzazione di determinate fonti di pericolo in modo da tutelare tutti i beni giuridici che si trovano in contatto con esse, e che per questa ragione, possono versare in una situazione di pericolo». Principio confermato nella sentenza di Cassazione (Cass. Sez. Pen. n° 10795/2007) che riconosce una «posizione di garanzia relativamente alla terapia e alla custodia […]». Altre sentenze meritano una attenta lettura in merito alla condanna dello psichiatra per il suicidio del paziente e l’individuazione che in tribunale viene fatto dell’obbligo giuridico (Cass. Pen. sez. IV n° 4391/2012).

Pertanto tali sentenze pare abbiano ampliato i margini di rischio e modificato la fisionomia della responsabilità professionale dello psichiatra13, in quanto «nel bilanciamento […] delle scelte che il medico deve effettuare assumono un ruolo non secondario, rispetto alla tutela e al miglioramento della salute del paziente, anche gli interessi dei terzi a non essere danneggiati o esposti a pericoli da possibili condotte del malato»13. A tali sentenze si associa anche una specifica posizione della dottrina: «Lo psichiatra è tenuto a realizzare non solo tutti gli interventi terapeutici necessari in vista della funzione primaria, che è quella del miglioramento delle condizioni di salute mentale del paziente, ma ciò non fa venir meno la sua responsabilità limitatamente a eventi dannosi commessi in conseguenza della omessa prevenzione che la specifica funzione terapeutica richiedeva […]. In definitiva lo psichiatra, pur in termini diversi e con finalità diverse, è pur tuttavia non esentato dall’obbligo di garanzia prevista dal II cpv dell’art 40 c.p. per quegli effetti criminosi casualmente alle alterazioni psichiche del paziente affidato alla sua cura»4.

Lo psichiatra sembra quindi essere tra due fuochi, in una «tenaglia di due possibilità simmetriche di responsabilità civile: quella nascente da un’illecita compressione delle libertà fondamentali dell’infermo di mente, e quella corrispondente alla doglianza dei vari terzi che sono rimaste vittima di un eccesso di permissivismo […]; non si può negare che sugli psichiatri incomba […] il dovere di evitare che la collettività soffra per le azioni violente o sconsiderate, degli infermi di mente che sono affidati alle loro cure»18.

Sembrerebbe quindi che il contenuto della posizione di garanzia dello psichiatra oltre ad essere a carattere terapeutico, stia (ri-)acquisendo anche un contenuto a carattere di controllo, poiché «il paziente viene equiparato ad una fonte di pericolo, rispetto al quale il garante avrebbe il dovere di neutralizzare gli effetti lesivi verso terzi»19».

Sempre più spesso il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), nato come strumento terapeutico utilizzabile come opportunità per quei pazienti, scompensati, non accessibili alle cure, viene indicato come strumento da utilizzare per controllare il comportamento del paziente.

Il cambiamento di paradigma venutosi a creare con la legge 180 si sta, gradatamente, ridimensionando. Il paziente sta nuovamente acquisendo le caratteristiche «dell’individuo pericoloso per sé e per gli altri» e lo psichiatra sta nuovamente riacquistando un ruolo custodialista e di difesa sociale. Ritorna allo psichiatra il compito, e l’obbligo, di mettere in atto strategie di protezione della società, attraverso il controllo del paziente. Posizioni che «richiamano una legislazione che si riteneva soppressa, culturalmente superata, una sorta di restituzione “mascherata” alla psichiatria – mascherata perché affidata alla giurisprudenza, invece che alla norma – di istanze di difesa sociale»20.

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Quanto precede non è molto confortante per lo psichiatra, ma neanche per il paziente che vede riproporsi vecchi stigmi e vecchie strategie custodialistiche di incerta deriva.

Alle incertezze e complessità della psichiatria si associa una instabilità del contesto, un orientamento non univoco della giurisprudenza, una dottrina non concorde.

Sembra tuttavia esserci una certezza: sullo psichiatra grava una posizione di garanzia con obbligo di cura ed obbligo di custodia del paziente psichiatrico. Alla fase di cambiamento è subentrata una fase di restaurazione con importanti implicazioni in merito alla responsabilità professionale1.

Le richieste, pretese, che ne derivano meritano una attenzione per cui è parso utile fare e proporre alcuni chiarimenti di derivazione dalla pratica clinica e dalla letteratura scientifica.

Non possono essere messe in atto misure protettive e/o limitative della libertà in maniera indiscriminata e generalizzata nei confronti dei pazienti psichiatrici, salvo fare un ritorno al passato con la restaurazione dello spirito manicomiale e la sostituzione di una psichiatria di comunità con un manicomio di comunità che utilizza TSO e contenzione farmacologica come strumenti di difesa sociale. Un utilizzo indiscriminato di strategie di controllo e custodia (enforcement law) risulta disfunzionale e contribuisce in maniera significativa ad aumentare lo stigma21.

Dovrebbero essere fatte ampie riflessioni sui reali “poteri impeditivi” dello psichiatra in merito al CV (comportamento violento) e il CS (comportamento suicidario), che risultano essere comportamenti multideterminati a eziologia multifattoriale, in cui la malattia mentale è un fattore di rischio tra numerosi altri. Nonostante l’utilizzo di tutti i “poteri impeditivi” rimane sempre una ampia quota di imprevedibilità dei comportamenti umani ed anche dei comportamenti dei pazienti psichiatrici19,22,23. L’accertamento della responsabilità professionale deve essere affidata ad un esperto della disciplina coinvolta nel procedimento. Periti e consulenti devono avere una specifica qualificazione e competenza rispetto al compito peritale come enunciato negli art. 220, 221 c.p.p., esplicitato nella Legge Gelli-Bianco e nel position paper della Società Italiana di Psichiatria Forense22,23.

Infine l’accertamento della responsabilità professionale deve distinguere con profonda attenzione il fattore di rischio di un determinato evento dalla causa dell’evento al fine di non incorrere nella «causalizzazione del fattore di rischio»24.

Quanto precede è solo un piccolo contributo sulle criticità in merito alla responsabilità professionale, finalizzato a stimolare ulteriori riflessioni che possano dare un contributo alla complessità del fenomeno nello specifico ambito psichiatrico.


Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

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22. Position paper. Malattia mentale e comportamento violento della Società Italiana Psichiatria Forense. http://www.societaitalianadipsichiatriaforense.it/

23. Position paper Comportamento suicidario della Società Italiana di Psichiatria Forense. http://www.societaitalianadipsichiatriaforense.it/

24. Nivoli G, Lorettu L. Psichiatria Forense. Roma: Piccin-Nuova Libraria, 2019.