La morte in carcere conseguente all’inalazione di gas:
la responsabilità dello psichiatra

Deaths by gas sniffing in prison: responsibility of the psychiatrist

SARA GIOIA1, FABIO SUADONI1, LUIGI CARLINI1, MASSIMO LANCIA1
*E-mail: dr.massimolancia@gmail.com
 
1Sezione di Medicina Legale, Scienze Forensi e Medicina dello Sport, Università di Perugia


RIASSUNTO. In ambito penitenziario il suicidio e l’autolesionismo rappresentano quasi una caratteristica strutturale, rendendo la prevenzione un obiettivo primario. L’Amministrazione penitenziaria ha emanato in materia di prevenzione del suicidio un ampio spettro di provvedimenti. Il presente studio prende in esame la misura attualmente vigente in alcuni istituti di valutare i detenuti autorizzati all’utilizzo dello strumentario a gas, con monitoraggio delle condotte, da parte dello psichiatra.

SUMMARY. In the prison environment, suicide and self-injury are almost a structural feature, making prevention a primary target. The Prison Administration has issued a wide range of measures on suicide prevention. The present survey examines the measure adopted in some Prison to evaluate the prisoners authorized to use gas instruments with monitoring of pipelines by the psychiatrists.


Il termine suicidio trova le proprie radici nelle parole latine sui e caedes, vale a dirsi “uccisione di sé stesso”. Sebbene sia chiara l’etimologia, darne una univoca ed esaustiva definizione non rappresenta un compito di facile risoluzione; basti pensare alla connotazione datane da Camus nel suo saggio “Il mito di Sisifo”1, che si riferì a tale evenienza come la vera questione filosofica dell’uomo. Una precisa delineazione appare altresì necessaria non solo ai fini di un mero esercizio di letteratura, comportando questa rilevanti effetti, specie nell’ambito penitenziario ove il suicidio – e l’autolesionismo in genere – rappresentano quasi una caratteristica strutturale, rendendo la prevenzione obiettivo primario. Guardando al fenomeno, ciò che si può cogliere con certezza è che grandemente limitativa appare l’analisi del solo evento morte, divenendo necessario lo studio del comportamento suicidario e degli eventi che lo precedono nei quali fattori sia endogeni sia esogeni risultano imbricati e interagenti.
Tale necessità è stata senza dubbio percepita anche dall’Amministrazione penitenziaria che negli ultimi anni ha emanato in materia di prevenzione del suicidio, con progressivo spostamento del baricentro da una impostazione etiologica squisitamente endogena, a una di più ampio respiro comprendente anche la dimensione esogena.
In tale panorama è di grande rilievo l’accordo ai sensi dell’art. 9 del Decreto Legislativo del 28 agosto 1997, n. 281 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 14 agosto 2017, n. 189, sul documento recante il “Piano Nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti”.
I capisaldi principali del Piano Nazionale sono gli strumenti di rilevazione del rischio, il presidio delle situazioni potenzialmente critiche e i protocolli operativi per la gestione dei casi a rischio, coerenti con le indicazioni in materia della World Health Organization. La capillare attuazione della predetta emanazione centrale assume carattere di vera necessità anche alla luce degli sconcertanti dati reperibili nel sito web del Ministero della Giustizia ove è annoverato che nel 2018 si sono verificati 61 suicidi all’interno delle carceri italiane (in media 10,4 ogni 10.000 detenuti), contro i 48 verificatisi nel 2017 (in media 8,4 ogni 10.000 detenuti) e 39 nel 2016 (in media 7,2 ogni 10.000 detenuti).
Spontanea appare dunque la riflessione sui fattori che possano rendere l’evento suicidario in ambiente detentivo, così frequente e apparentemente ineliminabile. Come affermato da Curcio2, il neo-recluso è tagliato fuori dal suo mondo per entrare nel mondo della pena, subendo così lo sradicamento dai suoi riferimenti esistenziali, apparendo dunque la soglia del reclusorio più tagliente del più affilato rasoio.
Non si può non convenire con le deduzioni di Anselmi et al.3 quando affermano che l’ambiente altamente deprivante, quale quello carcerario, tenda ad assottigliare l’essere, annientando così definitivamente il già compromesso nucleo esistenziale e che la condizione detentiva produce un’erosione profonda dell’essere tale da innescare una deriva esistenziale che espone il recluso al rischio suicidario. Su questo punto il Comitato Nazionale di Bioetica ritiene che l’alto tasso di suicidi della popolazione carceraria, di gran lunga superiore a quello della popolazione generale, sia una problematica di considerevole rilevanza etica e sociale, aggravata dalle condizioni di marcato sovraffollamento degli istituti e di elevato ricorso alla incarcerazione.
Si può dunque supporre che la diminuzione degli spazi e il deterioramento delle relazioni siano correlabili non solo con il suicidio ma, più in generale, con l’autolesionismo nelle sue varie manifestazioni. L’autoaggressione può essere anche considerata come fenomeno predicente l’estremo gesto suicidario, quando quest’ultimo non sia frutto di un “raptus” ma, l’epilogo di un continuum di autodistruzione. In tali ultimi casi è doverosa l’adozione di mirati provvedimenti di sorveglianza attraverso i quali l’intero personale ponga maggiore attenzione alla persona detenuta presentante tale rischio. Anche su tale aspetto il sito web del Ministero della Giustizia ci rende disponibili dati che impongono una riflessione, essendosi verificati nel breve periodo di tempo di poco più di 7 mesi (dal 01/01/2018 al 08/08/2018) 712 tentativi di suicidio e 6404 gesti di autolesionismo nelle carceri italiane (i numeri relativi all’intero anno non risultano ancora disponibili nella predetta fonte digitale). Tra le condotte autolesive possono annoverarsi il cutting, l’ingestione di oggetti dotati di caratteristiche taglienti e quella dello sniffing di gas. Proprio tale ultima fattispecie ci consente di addivenire al punto focale della presente riflessione, che si propone di dare nuova attenzione a un tema già produttivo di dibattito: la possibilità, ai sensi delle vigenti disposizioni, di dotazione all’interno delle celle di fornelli alimentati a gas di petrolio liquefatto, che peraltro non sembra essere una evenienza puramente italiana, essendo diffusa anche in altri paesi europei, in Australia e in Nuova Zelanda. Come sottolineato da Buffa 4, è nota la polemica degli Autori più critici che sostengono che l’Amministrazione non considererebbe suicidi le morti causate dall’inalazione di gas associata all’uso di sacchetti di nylon.
Una disamina della letteratura scientifica medico-legale consente di identificare dei report italiani relativi alle morti in carcere in conseguenza di sniffing5-7, nei quali vengono individuate oltre a delle dinamiche di natura voluttuaria, anche dinamiche di natura suicidaria. Ulteriori consimili eventi, sebbene non segnalati nella letteratura, trovano riscontro negli articoli di stampa nazionale.
La Sezione Statistica del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha registrato che nel 2006 e nel 2007, il 7% dei casi di suicidio e di tentato suicidio è stato rappresentato dall’inalazione di gas di petrolio liquefatto (i numeri relativi a più recenti intertempi non risultano ancora disponibili). Sebbene tale percentuale possa considerarsi esigua, non è certamente residuale. Dubbi sono stati sollevati sulla dotazione di strumenti alimentati a miscele gassose all’interno delle celle penitenziarie; in numerosi hanno invocato la necessità di proibizione all’utilizzo di fornelli a gas, onde evitare i rischi connessi alle pratiche di inalazione.
Nostro parere è che un divieto in termini assoluti possa condurre la popolazione carceraria a una maggiore alienazione, vedendosi deprivata anche della possibilità di compiere piccoli gesti routinari riecheggianti il ricordo di una dimensione familiare. Quanto appena sopra potrebbe essere riassunto nella previsione che l’eliminazione di un fattore di rischio, divenga essa stessa fattore di rischio.
Sarebbero dunque preferibili misure di natura alternativa, che a nostro avviso, parrebbero essere rappresentate dalla possibilità di utilizzo di tali strumenti in aree comuni sottoposte a debita sorveglianza. Una misura attualmente vigente in alcuni istituti è quella di valutare con attenzione i detenuti autorizzati all’utilizzo dello strumentario a gas, con monitoraggio delle condotte, da parte dello specialista psichiatra, volto all’individuazione dei soggetti a rischio di autolesione o di suicidio.
Tale strategia è grandemente gravativa sui compiti e sulle responsabilità di tale figura professionale anche in considerazione della sua discontinua presenza all’interno delle carceri, a volte interpellata come consulente esterno e a volte prestante attività per un limitato monte ore.
Come indicato da Pompili8, il rischio per lo psichiatra è di dover sostenere un fardello enormemente superiore alle risorse a lui disponibili e vedersi anche come l’unico responsabile della vita e della morte dei soggetti a rischio suicidio.
A parere degli scriventi tale affermazione, in ambiente detentivo, appare estensibile anche alla possibilità che lo psichiatra finisca col sostenere un fardello enormemente superiore rispetto agli altri operatori della struttura penitenziaria, nel vedersi addebitare una qualche responsabilità nel gesto autolesivo o autosoppressivo del detenuto per non avere tempestivamente preveduto e adeguatamente contrastato il rischio. Quanto sopra potrebbe esporre gli specialisti a un’indagine penale estesa dai reati di lesione personale e di omicidio colposo previsti rispettivamente dagli artt. 590 e 589 c.p., fino al reato di abbandono di persona incapace previsto all’art. 591 c.p.
La responsabilità penale dello psichiatra è difatti un tema cogente e molto discusso proprio per la peculiarità della condizione psichica che richiede una sorta di previsione della condotta.
È facile, in una valutazione a posteriori, identificare un comportamento come prevedibile; molto più complesso è quello di attribuire, ex ante, a determinati atteggiamenti significato predittivo di corrispondenti comportamenti9.
A parere dunque degli scriventi sembrerebbe necessario, ai fini della tutela della popolazione penitenziaria ma anche degli operatori delle strutture carcerarie, con particolare riguardo allo specialista psichiatra, rendere gas-free le celle di reclusione, allo scopo di eliminare un potenziale fattore di rischio per comportamenti autolesivi o autosoppressivi che, oltre che rappresentare una minaccia per la salute dei reclusi, potrebbe divenire anche una potenziale fonte di procedimenti penali nei confronti dei sanitari e, in particolare, dello specialista psichiatra.
La duplice valenza di quanto sopra trova una sua dimensione giuridica nella Legge 24/2017, in tema di “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”. Una Legge quadro, assai attesa, il cui titolo rende conto della sua doppia anima volta sia alla tutela del paziente che dei sanitari e che interviene dopo innumerevoli pronunce giurisprudenziali, a organizzare i tasselli di un frastagliato e caotico panorama di interventi.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.
Bibliografia
1. Camus A. Il mito di Sisifo. Milano: Bompiani, 1969.
2. Curcio R, Valentino N, Petrelli S. Nel bosco di Bistorco. Roma: Sensibili alle foglie, 1997.
3. Anselmi N, Alliani D, Ghini F. Psicofisiopatologia del suicidio in carcere: un contributo in termini di prevenzione. Riv Psichiatr 2014; 49: 288-91.
4. Buffa P. La prevenzione dei suicidi in carcere. De Pascalis M (a cura di). Roma: Quaderni Istituto Superiore di Studi Penitenziari, 2011.
5. Gioia S, Lancia M, Bacci M, Suadoni F. A fatal case of acute butane-propane poisoning in a prisoner under psychiatric treatment: do these 2 factors have an arrhythmogenic interaction, thus increasing the cardiovascular risk profile? Am J Forensic Med Pathol 2015; 36: 251-3.
6. Rossi R, Suadoni F, Pieroni L, De-Giorgio F, Lancia M. Two cases of acute propane/butane poisoning in prison. J Forensic Sci 2012; 57: 832-4.
7. Bacci M, Chiarotti M, Giusti GV. Su di un caso di letale inalazione voluttuaria di Propano/Butano in ambiente carcerario. Riv It Med Leg 1986; 8: 1127-31.
8. Pompili M. La prevenzione del suicidio e il ruolo dello psichiatra. Riv Psichiatr 2014; 49: 197-8.
9. Biondi M, Iannitelli A, Ferracuti S. On the unpredictability of suicide. Riv Psichiatr 2016; 51: 167-71.