La famiglia del paziente con disturbo borderline di personalità:
carico della malattia e interventi destinati ai caregiver

The family of a patient with borderline personality disorder:
burden of illness and interventions for caregivers

FRANCESCA MARTINO1, LOREDANA LIA1, BIANCAMARIA BORTOLOTTI2, MARCO MENCHETTI1,
MARCO MONARI
2, MARIA ELENA RIDOLFI3, MICHELE SANZA4, ANNA SASDELLI1, DOMENICO BERARDI1
E-mail: francesca.martino5@unibo.it
1Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università di Bologna
2Dipartimento di Salute Mentale, AUSL Bologna
3Dipartimento di Salute Mentale, Area Vasta 1, Fano
4Dipartimento di Salute Mentale, AUSL Cesena

RIASSUNTO. Scopo. La letteratura scientifica che indaga i fattori eziopatogenetici coinvolti nell’insorgenza del disturbo borderline di personalità (DBP) ha da sempre attribuito un ruolo centrale alle famiglie di questi pazienti. Il ruolo dei familiari nella comprensione del disturbo si è gradualmente modificato grazie alle numerose ricerche che hanno indagato l’interazione di diversi fattori nello sviluppo del DBP. Le recenti conoscenze scientifiche hanno permesso di considerare il genitore non più “responsabile” dello sviluppo del disturbo, ma direttamente coinvolto nelle dinamiche interpersonali problematiche di questi pazienti e quindi potenzialmente “alleato” nella gestione e nel trattamento dei momenti critici. L’obiettivo di questo studio è quello di descrivere e quantificare la problematica del carico dei familiari di pazienti con DBP ed esaminare lo stato dell’arte sugli interventi a loro destinati. Metodi. Per tale ricerca sono stati utilizzati i motori di ricerca PubMed e PsycINFO e le parole chiave: “borderline personality disorder”, “family”, “psychopathology”, “burden”, “psychoeducation”, “caregiver”, “caretaker”. Risultati. Le ricerche che misurano il carico sostenuto dai familiari dei pazienti con DBP risultano ancora limitate. Da queste emerge che l’entità delle problematiche sostenute sono paragonabili a quelle dei familiari di pazienti affetti da schizofrenia. Gli studi clinici su interventi rivolti ai caregiver di pazienti con DBP dimostrano che strategie specifiche di gestione possono ridurre il carico familiare e migliorare il loro senso di auto-efficacia. Discussione. In letteratura internazionale esiste un certo accordo sulla rilevanza delle problematiche presenti nei nuclei familiari dei pazienti con DBP e sull’importanza di coinvolgere i familiari nel percorso di cura di questi pazienti.

PAROLE CHIAVE: disturbo borderline di personalità, caregiver, psicopatologia, carico familiare.


SUMMARY. Aim. The scientific literature focused on factors involved in the onset of borderline personality disorder (BPD) has given a central role to the families of these patients. The role of the family in understanding the disorder has gradually changed thanks to research that investigated the interaction of several factors in the development of this psychopathology. Recently, scientific literature on DBP has allowed to consider parents as no longer “responsible” for the development of the disorder, but as directly involved in interpersonal problems of patients and therefore a potential “ally” in the management of crisis. The aim of this study is to describe and quantify the family burden of BPD patients and browse specific interventions for the family of these patients. Methods. PubMed and PsycINFO have been used for review with the following keywords: “borderline personality disorder”, “family”, “psychopathology”, “burden”, “psychoeducation”, “caregiver”, “caretaker”. Results. Studies on family burden of BPD patients are still few. Research shows that the family burden of BPD patients is comparable with that of families of patients with schizophrenia. Clinical trials of interventions for caregivers of patients with BPD show that specific strategies can reduce the family burden and improve their self-efficacy. Discussion. Scientific literature highlights the relevance of problems of families with a BPD member and the importance of involving them in the treatment of these patients.

KEY WORDS: borderline personality disorder, caregivers, psychopathology, family burden.

INTRODUZIONE
Il disturbo borderline di personalità (DBP) rappresenta un importante e rilevante problema di salute pubblica. La prevalenza del disturbo si aggira tra l’1 e il 2,5% della popolazione generale e tra il 10-20% nei setting psichiatrici ambulatoriali e di ricovero1,2. Sebbene la prognosi generale, contrariamente a quanto si riteneva in passato, sia fondamentalmente buona, almeno per ciò che concerne gli aspetti clinico sintomatologici3,4, la gravità del disturbo rimane molto elevata in considerazione dell’elevata comorbilità con altre patologie psichiatriche e mediche2, delle condotte comportamentali rischiose e dei comportamenti illegali, dello scarso funzionamento sociale e interpersonale5 e della discontinuità di questi pazienti nel trattamento6-8. Oltre alla sofferenza soggettiva e alla compromissione del funzionamento generale, va certamente menzionato l’importante impatto che il DBP ha sul carico dei familiari che vivono con questi pazienti.
Il ruolo dei familiari in relazione al DBP si è modificato in maniera significativa nel corso degli anni grazie alle numerose ricerche che hanno indagato l’interazione dei fattori genetici, psicologici e socio-ambientali implicati nello sviluppo e nel decorso di questo disturbo.
I primi autori che hanno studiato le famiglie del DBP si sono concentrati prevalentemente su aspetti psicologici e comportamentali problematici dei familiari dei pazienti. Alcuni autori9 hanno attribuito un peso rilevante alle madri che venivano descritte come “intrusive”, incapaci di comprendere a pieno i bisogni espressi dai propri figli, di garantire loro il raggiungimento di un’autonomia emotiva e di una matura individualizzazione. Questo modello teorico, di matrice psicodinamica, sosteneva, dunque, l’esistenza di problematiche psicologiche nelle madri di questi pazienti e la loro conseguente responsabilità di una sorta di “trasmissione psicologica” della patologia. Altri autori 10,11 hanno condiviso questo orientamento e, basandosi sull’esperienza riferita da adolescenti presso reparti specialistici, hanno sostenuto che forme patologiche di invischiamento genitoriale favorivano la dipendenza e la paura dell’abbandono nei figli che sviluppavano il DBP10,11. Successivamente, altri studiosi hanno spostato l’attenzione su elementi psicologici differenti, tipici delle madri di questi pazienti, come uno scarso coinvolgimento emotivo, una carente disponibilità affettiva durante lo sviluppo del figlio12, alti livelli di alessitimia13, la presenza di esperienze traumatiche non elaborate e perpetuate nelle generazioni successive14,15.
Contemporaneamente ai modelli teorici psicoanalitici, studi di carattere epidemiologico hanno dimostrato che gli stessi genitori dei pazienti borderline presentano con maggiore frequenza, rispetto alla popolazione generale, disturbi psichiatrici, comprendenti abuso di sostanze, disturbi depressivi e lo stesso DBP16-19. Nel 2011, Gunderson et al.20 hanno condotto uno studio su un campione misto (132 DBP; 236 con altra condizione psichiatrica), indagando la prevalenza di disturbi mentali nelle famiglie e dimostrando che la prevalenza di DBP era del 14,1% nei familiari dei pazienti con DBP e del 4,9% nei familiari dei pazienti con altra condizione diagnostica. Secondo questo studio, un soggetto con un parente di primo grado affetto da DBP sarebbe esposto a un aumento del rischio di sviluppare un DBP dalle 3 alle 4 volte superiore rispetto a un soggetto con anamnesi familiare negativa per il disturbo nel primo grado di parentela.
Le ricerche di carattere genetico hanno tentato di spiegare tale coaggregazione dei disturbi psichiatrici nei familiari e nei figli con DBP, ponendo l’enfasi su una componente ereditaria. Sebbene i risultati di questi studi siano ancora limitati, alcuni contributi scientifici sembrano confermare una parziale ereditarietà genetica del disturbo, riferita specificatamente alla difficoltà nel controllo degli impulsi21-23. Altri autori24 hanno evidenziato, mediante il Temperament and Character Inventory (TCI), la presenza di alcuni aspetti caratteriali sia nei familiari sia nei pazienti con DBP (elevata “ricerca della novità” e scarsa “autodirezionalità/autosufficienza”), spostando l’attenzione verso la possibilità che tratti temperamentali comuni nei genitori e nei figli con DBP siano attribuibili all’interazione di componenti biologiche e socio-ambientali.
Nel corso degli anni, e grazie a metodologie scientifiche più sofisticate, i vecchi modelli teorici - che si basavano sull’osservazione clinica dei familiari dei pazienti con DBP e che attribuivano la responsabilità dello sviluppo di tale psicopatologia a fattori correlati ai caregiver - sono stati sostituiti da altri basati su evidenze scientifiche che hanno spostato l’attenzione su variabili biologiche legate al paziente e su variabili psico-ambientali connesse all’interazione con il caregiver 25,26. Tali modelli hanno spostato il focus della “responsabilità” dal nucleo familiare a caratteristiche più biologiche legate al bambino e a fattori ambientali connessi al contesto interpersonale, in qualche modo non sufficientemente preparato a fronteggiare la sensibilità di base dell’individuo con una vulnerabilità riferita alla regolazione emozionale. Nello specifico, il modello inglese di Bateman e Fonagy26 attribuisce l’origine del DBP a problematiche nella relazione di attaccamento con il caregiver. Alcuni autori27,28 individuano la presenza di un attaccamento disorganizzato in quei pazienti con DBP che sono stati vittime di abusi e/o eventi traumatici nell’infanzia. Dalle ricerche vengono individuati anche pattern di attaccamento insicuro di tipo ansioso-ambivalente in quei pazienti che, nonostante l’assenza di un evento traumatico nella storia di vita, avevano avuto una relazione con il caregiver poco empatica e scarsamente responsiva ai bisogni emotivi del bambino. Gli autori concludono evidenziando un problema nella relazione, quindi nella sintonizzazione, in qualche modo fallimentare, tra i due individui, senza porre un’enfasi maggiore sul caregiver o sul bambino.
Nel modello teorico di Marsha Linehan25, invece, il DBP viene definito attraverso una prospettiva bio-sociale che individua il core psicopatologico del disturbo in una disfunzione pervasiva del sistema di regolazione emozionale, sviluppata e mantenuta dall’interazione di una vulnerabilità emotiva su base temperamentale e un ambiente “invalidante”, incapace, quindi, di rispondere in maniera funzionale alle richieste e ai bisogni emotivi del bambino e, in un secondo tempo, dell’adulto borderline.
In conclusione, le maggiori conoscenze scientifiche sul DBP hanno permesso di considerare il genitore non più responsabile e quindi “colpevole” dello sviluppo del disturbo, ma direttamente coinvolto nelle dinamiche interpersonali problematiche di questi pazienti. Tale assunto ha spinto le ricerche internazionali a indagare le maggiori problematiche riscontrabili all’interno dei nuclei familiari, legate prevalentemente al carico dovuto alla malattia del paziente. Il costrutto del “carico familiare” è descritto nella letteratura scientifica come l’impatto che le attività di management, accudimento, supporto e convivenza con il paziente affetto da una condizione psichiatrica hanno sulla vita economica, sociale (carico oggettivo) e psicologica (carico soggettivo) del caregiver 29. La letteratura internazionale che ha esaminato la problematica del carico sostenuto dai familiari di pazienti con psicopatologia si è concentrata prevalentemente sulla popolazione clinica affetta da schizofrenia30,31. Da questi studi emerge che oltre il 70% dei familiari di un paziente ricoverato per patologia mentale riporta un aumento del carico oggettivo o soggettivo in almeno un aspetto della propria vita, mentre uno su cinque identifica almeno tre aree di funzionamento coinvolte; inoltre, almeno la metà dei familiari valuta in modo negativo la propria attività di caregiving. Le ricerche che indagano le problematiche sostenute dai familiari dei pazienti con DBP risultano ancora limitate. Tuttavia, appare evidente che un disturbo così pervasivo e duraturo, nonché caratterizzato da sintomi gravi, non può che avere, in linea teorica, un forte impatto sul carico familiare.
In quest’ottica sono nati i primi interventi psicoeducativi destinati ai familiari, con l’obiettivo di coinvolgerli nel trattamento di questi pazienti.
L’obiettivo dell’articolo è quello di effettuare una revisione della letteratura sulla problematica del carico dei familiari con DBP ed evidenziare gli aspetti che maggiormente vengono riferiti dagli autori come caratteristici del funzionamento intra-familiare di questi nuclei. Successivamente, verranno passati in rassegna gli interventi specifici sui familiari di questi pazienti e gli studi effettuati sulla loro efficacia nella riduzione del carico familiare e/o di problematiche intra-familiari.
METODI
Un’analisi della letteratura è stata condotta sui motori di ricerca PubMed e PsycINFO dal 1975 al settembre 2012, utilizzando le seguenti parole chiave: “borderline personality disorder”, “family”, “psychopathology”, “burden”, “psychoeducation”, “caregiver”, “caretaker”. Sono stati presi in considerazione sia trial sperimentali sia studi naturalistici, casistiche e lavori preminentemente teorici. La bibliografia di tali studi è stata esaminata per individuare ulteriori lavori. Sono stati anche presi in considerazione alcuni siti pertinenti, riportati nella sitografia alla fine del presente lavoro. Gli articoli selezionati si focalizzano sul ruolo della famiglia in relazione al DBP, sul carico sostenuto dai caregiver e sugli interventi a loro destinati.
Dalla ricerca effettuata sono stati reperiti un totale di 540 articoli utilizzando il MeSH (Medical Subject Headings) “borderline personality disorder” associato a “family” e/o “burden” e/o “caregiver”. Due autori ne hanno analizzato il titolo ed eventualmente l’abstract. Di questi, sono stati selezionati 75 articoli potenzialmente eleggibili, che sono stati sottoposti a un’accurata lettura critica. Gli articoli che in ultima analisi facevano riferimento alle tematiche oggetto di indagine sono stati 33 9-28,32-44. Nel dettaglio, sono stati individuati 20 articoli9-28 sul ruolo della famiglia in relazione al DBP, 5 lavori32-36 specificamente dedicati al tema del carico familiare e 837-44 sugli interventi che coinvolgono i familiari nel trattamento.
RISULTATI
Il carico familiare
Come detto in precedenza, il carico familiare dei caregiver di pazienti con DBP è stato poco indagato, nonostante l’entità delle problematiche sostenute.
In uno studio del 200732 è stato misurato, attraverso la Symptom Check List (SCL-90), il carico soggettivo in termini di distress psicologico nei caregiver di persone con DBP in confronto alla popolazione generale e ai familiari di pazienti con altra condizione psichiatrica (schizofrenia, disturbi d’ansia e dell’umore). I risultati di questa ricerca evidenziano che i familiari di pazienti con DBP presentano un livello di distress psicologico generalmente più elevato rispetto alla popolazione generale, su tutte le dimensioni misurate dalla scala: sintomatologia ansiosa, depressiva, difficoltà correlate al sonno, somatizzazioni, atteggiamento ostile. Tali differenze si mantengono nel momento in cui i familiari dei pazienti con DBP vengono confrontati con i caregiver dei pazienti con disturbi d’ansia e dell’umore; risultano invece ridotte se confrontati con i familiari di persone affette da schizofrenia. Tale lavoro sottolinea, dunque, la rilevanza delle difficoltà psicologiche incontrate dai familiari dei pazienti con DBP, che risultano nettamente superiori a quelle della popolazione generale e paragonabili a quelle dei familiari di pazienti affetti da schizofrenia.
Precedentemente, in uno studio di Gunderson e Lyoo33, erano state indagate le problematiche che mostravano un impatto maggiore sul distress psicologico dei caregiver di pazienti con DBP. Dalle valutazioni psicometriche effettuate su un campione di 21 pazienti e rispettivi familiari, sono emerse problematiche maggiormente riferite alla comunicazione intra-familiare, all’elevata conflittualità e ostilità tra i membri del nucleo familiare.
Più recentemente, è stata condotta una ricerca34 volta a indagare il carico familiare di parenti di 233 pazienti con DBP attraverso un’indagine telematica. Gli item indagati comprendevano l’impatto della malattia del paziente su sei domini principali: il matrimonio, la salute fisica ed emotiva, la vita sociale, economica e lavorativa del genitore. I risultati dello studio dimostrano che il 59% dei familiari riporta una compromissione rilevante nel funzionamento sociale e alcune problematiche specifiche in ambiti della propria vita, tra cui: problemi di salute fisica ed emotiva, riduzione della vita sociale, conflittualità all’interno del matrimonio.
Un altro studio ha indagato invece l’impatto di alcune variabili sulla percezione del familiare rispetto al carico della malattia dei pazienti affetti da psicopatologia in generale e da DBP in particolare. Gli autori35 evidenziano che l’età del familiare ha un peso su tale percezione: i familiari più giovani di pazienti con DBP presentano un maggiore livello di carico e di sintomi depressivi, dato in linea con i risultati ritrovati in letteratura sul carico familiare in altre patologie45. L’età del familiare del DBP sembrerebbe dunque modulare il livello di carico e i sintomi depressivi. Inoltre, l’intensità del carico del familiare è stata correlata alle fasce d’età del paziente con DBP, riscontrando un aumento della percezione di carico da parte dei caregiver durante l’adolescenza del figlio36. Contrariamente alle aspettative, tra le manifestazioni sintomatologiche dell’adolescente con DBP, i gesti auto-lesivi o suicidari non sembrano correlati a un aumento del carico percepito. Nella stessa ricerca, la soddisfazione per la qualità e l’accessibilità dei trattamenti ricevuti, invece, tenderebbe a ridurre la severità del carico percepito.
In conclusione, i dati della letteratura, seppure limitati e riferiti a campioni ristretti, tendono a riscontrare numerose problematiche all’interno dei nuclei familiari di questa popolazione clinica.
In primo luogo, le ricerche pongono un certo accento sul distress psicologico direttamente esperito dai familiari, suggerendo dunque l’importanza di un intervento supportivo a loro destinato. In secondo luogo, le ricerche sottolineano le difficoltà interpersonali all’interno delle famiglie con componenti affetti da DBP, caratterizzate spesso da forte conflittualità e criticismo, elementi altamente correlati a recidive in diversi gruppi di patologie psichiatriche33. Per tali aspetti, alcuni autori35,37 suggeriscono interventi di matrice psico-educativa, con l’obiettivo di trasmettere maggiori conoscenze sul disturbo e sul funzionamento interpersonale dei pazienti con DBP e di favorire l’apprendimento di tecniche di gestione dei momenti critici. Gli stessi autori suggeriscono, però, di fornire con cautela le informazioni riguardanti il disturbo, in quanto è stato riscontrato35 che il gruppo di familiari con maggiore conoscenza sul DBP presentava anche indici di depressione e un carico familiare superiori rispetto agli altri gruppi. Il dato rimane comunque unico in letteratura e necessita di ulteriori conferme scientifiche.
Gli interventi per le famiglie
Le linee-guida del 2001 dell’American Psychiatry Association46 indicano che il trattamento del DBP è possibile solo in un’ottica di approccio integrato, e individua nell’intervento per le famiglie uno degli elementi fondamentali nella gestione di tale popolazione, sottolineando l’utilità di fornire loro informazioni sulla diagnosi, sul decorso del disturbo, sulla risposta al trattamento e sui fattori patogenetici noti.
Le più recenti linee-guida del National Institute for Health and Clinical Excellence sul trattamento del DBP, edite nel 200947, ribadiscono l’importanza di strutturare interventi familiari di tipo supportivo, di mutuo-aiuto o di psicoeducazione, senza però sottolineare la superiorità di un approccio sull’altro.
Nonostante lo sviluppo, negli ultimi anni, di strategie di intervento rivolte ai familiari dei pazienti con disturbi psichici, sono ancora scarse le evidenze scientifiche su protocolli mirati alle famiglie del DBP48,49. In letteratura, sono state individuate sostanzialmente due categorie di programmi familiari per il DBP: la psicoeducazione familiare e l’educazione familiare38,39. Il modello di psicoeducazione familiare viene condotto da professionisti della salute mentale e prevede la partecipazione dei familiari e, in alcune fasi, anche dei pazienti. Nella seconda categoria di interventi, quella dell’educazione familiare, sono i caregiver a tenere, dopo opportuni training, interventi educativi rivolti unicamente ai conviventi dei pazienti. Nella nostra trattazione rispetteremo questa distinzione, affiancando all’educazione familiare, anche l’advocacy.
Interventi di psicoeducazione
L’intervento psicoeducativo rappresenta il trattamento rivolto a famiglie di persone con patologie mentali maggiormente studiato in letteratura. I programmi di psicoeducazione, proposti già dagli anni ’80, sono stati formulati nel tempo con modalità molto eterogenee. Il format, infatti, si diversifica per durata complessiva (da 9 mesi fino a 5 anni), setting, numero e durata degli incontri e per diverso coinvolgimento delle famiglie, che può essere individuale o gruppale o a sessioni miste. I programmi, inoltre, si diversificano per aspetti informativi, clinici o riabilitativi e per le tecniche e gli aspetti teorici dei modelli di riferimento 48,50-52. I programmi di psicoeducazione hanno, in primo luogo, l’obiettivo di aiutare i caregiver ad acquisire conoscenze e strumenti per promuovere il benessere del paziente e, in secondo luogo, quello di ridurre il carico derivante dalla cura e dal management della persona affetta da patologia mentale, offrendo supporto diretto al familiare48,52. Diversi trial clinici randomizzati e controllati dimostrano l’efficacia del trattamento sui familiari in termini di riduzione delle ricadute e delle ri-ospedalizzazioni, nei pazienti affetti da schizofrenia e disturbi affettivi48,51. Benché meno numerosa, si rintraccia la presenza di interventi di psicoeducazione anche su popolazioni di familiari di pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo53, anoressia nervosa54 e DBP37.
In letteratura sono stati descritti tre programmi familiari psicoeducativi per il DBP:
1. Gruppo Familiare Multiplo (GFM): ideato e condotto da Gunderson37,40, ispirato al lavoro di McFarlane et al.55 con i familiari di pazienti schizofrenici e adattato, a livello contenutistico, alle famiglie di pazienti con DBP.
2. Dialectical Behavior Therapy-Family Skills Training (DBT-FST): sviluppato da Hoffman e Fruzzetti41,42 e basato sulla terapia comportamentale dialettica (DBT) della Linehan25.
3. Reno-Program: basato sul lavoro di Fruzzetti43 presso l’Università del Nevada.
Il GFM prevede un gruppo costituito da più nuclei familiari (da un minimo di 3 famiglie a un massimo di 8), ha durata di 12-18 mesi con incontri di un’ora e mezza a cadenza quindicinale. Il programma si articola in tre fasi principali: nella prima vengono proposti, ai soli familiari, incontri intensivi di formazione che si focalizzano sulla diagnosi di DBP e sull’utilizzo di linee-guida per familiari, messe a punto dall’autore e disponibili anche in italiano (www.neaDBP.org). Nella seconda fase, che può prevedere anche la partecipazione dei pazienti, l’obiettivo è l’acquisizione di competenze specifiche nella gestione delle aree problematiche, come le difficoltà comunicative, di controllo della rabbia e dei comportamenti autolesivi del paziente. Infine, nella terza fase si consolidano i cambiamenti, il terapeuta assume un ruolo meno direttivo e incoraggia i partecipanti a generalizzare le nuove abilità, impegnarsi in gruppi di advocacy o intraprendere una terapia familiare, qualora vi sia indicazione. Il modello è stato testato in uno studio di natura osservazionale senza gruppo di controllo 37,40. In tale ricerca si evidenzia che il GFM interviene sui pazienti sia in maniera diretta, riducendo nei familiari il carico della malattia e i sentimenti di alienazione, sia in maniera indiretta, influendo sul decorso clinico della patologia in termini di riduzione delle ospedalizzazioni e dei comportamenti autolesivi. Questi risultati preliminari promettenti necessitano di ulteriori conferme scientifiche in trial randomizzati e controllati.
Il programma DBT-FST41,42 prevede il coinvolgimento di singole famiglie o di gruppi familiari, utilizza tecniche di matrice DBT (mindfulness, regolazione emozionale, tolleranza allo stress ed efficacia interpersonale) e si sviluppa in un percorso di 6 mesi, durante il quale il paziente di solito effettua una terapia individuale con la stessa matrice teorica. La prima parte del trattamento si focalizza sull’educare i componenti della famiglia in merito alle caratteristiche del disturbo e alle sue origini, con l’obiettivo di aumentare la comprensione dei comportamenti problematici messi in atto dai pazienti. Il programma ha due obiettivi principali: 1) migliorare le possibilità di successo nel trattamento del paziente con DBP, insegnando ai familiari strategie per rinforzare i nuovi comportamenti che il paziente sta apprendendo in terapia individuale; 2) migliorare il clima familiare. Il programma non è stato ancora testato in studi scientifici, non dispone a oggi di evidenze circa la sua efficacia sul funzionamento familiare e sul decorso clinico della psicopatologia.
Infine, il Reno-Program43 propone un format molto variabile e più flessibile (gruppale o individuale, con e senza coinvolgimento del paziente) rispetto al GFM e al DBT-FST. Inoltre, il programma è impostato prevalentemente su tecniche orientate alla mindfulness, con l’obiettivo di favorire nei destinatari dell’intervento una maggiore abilità di regolazione emozionale. Tale competenza, secondo l’autore, è nucleare per l’acquisizione di un atteggiamento maggiormente validante nei confronti degli stati emotivi del paziente 38,43,44.
Nonostante siano stati descritti in letteratura dei programmi di intervento sui familiari dei pazienti con DBP, questi hanno avuto ancora scarsa diffusione e le evidenze scientifiche sulla loro efficacia, seppur incoraggianti, risultano ancora limitate.
Interventi di educazione familiare e advocacy
La scarsità di offerta degli interventi psicoeducativi da parte dei servizi di salute mentale ha dato vigore allo sviluppo di numerosi programmi di educazione familiare, advocacy e gruppi di auto-mutuo aiuto52 per le persone affette da una patologia psichiatrica.
Il panorama attuale si compone, pertanto, di diverse tipologie di intervento rivolte alle famiglie, che sono rese possibili anche dallo svilupparsi di associazioni familiari come la statunitense National Alliance of Mental Illness (NAMI) e la European Federation of Families of People with Mental Ill­ness (EUFAMI)56. La NAMI, la più grande associazione familiare degli Stati Uniti, si occupa di organizzare attività di advocacy, sponsorizzare ricerca, supporto, auto-mutuo aiuto e programmi educativi in tutto il Paese52 (www.borderlinepersonalitydisorder.com). Analogamente, in Europa 41 associazioni di famiglie di persone con disagio psichico sono coordinate dall’EUFAMI56 (http://www.eufami.org). All’inzio del 1990, grazie al supporto della NAMI si sviluppa il Family to Family Education Program, il modello di educazione familiare più diffuso a livello internazionale52 per familiari di pazienti con disturbi psichici, senza specificità di diagnosi.
Per quanto riguarda il DBP, Hoffman et al.39 hanno messo a punto nel 2005 un intervento specifico di auto-mutuo aiuto: il Family Connections (FC) e, contemporaneamente, è stata costituita l’associazione National Education Alliance - Borderline Personality Disorder (NEA-BPD), al cui aggiornamento scientifico contribuiscono molti dei maggiori esperti internazionali sul DBP, al fine di favorire il confronto, il supporto e l’educazione dei familiari di pazienti (www.neaDBP.org).
L’FC è un programma di educazione condotto da familiari di pazienti borderline a seguito di uno specifico training. Il format prevede 12 incontri sia individuali sia gruppali e ha l’obiettivo di fornire ai partecipanti informazioni sul DBP e competenze su moduli specifici del training di abilità DBT. Inoltre, il programma fornisce l’opportunità di costruire una rete di supporto per i membri familiari, avendo dunque anche un impatto sui loro sentimenti di alienazione, sfiducia e impotenza. Da studi condotti sull’FC 39,41 si evidenzia un impatto significativo dell’intervento sulla riduzione del carico dei familiari, dei sintomi depressivi e sull’aumento delle capacità di controllo e gestione delle situazioni critiche. Il programma è già ampiamente diffuso a livello internazionale38.
Sulla base delle evidenze emerse e della ancora scarsa diffusione di interventi psicoeducativi nei servizi di salute mentale, i programmi di educazione familiare e l’advocacy rappresentano al momento una valida alternativa da destinare ai caregiver dei pazienti con DBP.
DISCUSSIONE
Il ruolo dei familiari dei pazienti con DBP si è radicalmente modificato nel tempo. Da una visione iniziale per la quale il familiare era etichettato come “responsabile” del disturbo, per cause di origine psicologica e/o genetica, si è gradualmente passati a una visione in cui l’attenzione si è spostata sulle caratteristiche temperamentali innate del paziente e sulla ricaduta che queste hanno nello sviluppo di una buona relazione affettiva con il caregiver. Più precisamente, i recenti contributi teorici e scientifici 25,57-59 non pongono un’enfasi maggiore sul familiare o sul paziente, ma sulla loro capacità di “sintonizzarsi” emotivamente, al fine di costruire una relazione affettiva stabile e sicura che garantisca un buon apprendimento della capacità di comprendere le proprie emozioni e di modularle adeguatamente nelle situazioni sociali.
Il cambiamento del ruolo del familiare da “colpevole” del disturbo a persona direttamente coinvolta nelle dinamiche psicopatologiche del paziente ha posto le basi per l’approfondimento di tematiche che per anni erano state trascurate dalla letteratura scientifica internazionale. Verso la fine degli anni ’90, infatti, sono state condotte le prime ricerche volte a misurare il carico dei familiari dovuto alla malattia del paziente e il distress psicologico a esso associato29,30,33.
Le ricerche sottolineano la rilevanza di tale problematica, paragonabile a quella dei nuclei familiari di pazienti affetti da schizofrenia. I dati emersi in letteratura evidenziano sostanzialmente un elevato distress psicologico nei familiari di questa popolazione clinica, la presenza di dinamiche intra-familiari disfunzionali, l’elevato carico oggettivo sostenuto dai caregiver di pazienti con DBP.
L’attenzione verso tali problematiche ha spinto diversi autori internazionali37,39,41 a mettere a punto interventi specifici destinati ai familiari di pazienti con DBP che avessero come obiettivo primario un impatto diretto sul familiare in termini di riduzione del carico oggettivo e del distress psicologico e, come obiettivo secondario, una ricaduta sul decorso clinico del paziente in termini di riduzione dei momenti di crisi.
Gli interventi esistenti sono stati testati in studi naturalistici e sono, a oggi, disponibili risultati preliminari incoraggianti, nonostante l’esiguità dei campioni e delle ricerche condotte. I dati ottenuti sembrano, a ogni modo, essere vantaggiosi sia sui familiari, in termini di riduzione del carico oggettivo e soggettivo, sia sui pazienti, in termini di ospedalizzazioni2,33,40.  Purtroppo, a causa della scarsità degli studi e dei limiti della metodologia adottata, non controllata, non è possibile definire l’efficacia di questi interventi, né stabilire una superiorità di uno sull’altro.
Le stesse linee-guida sul trattamento del DBP46,47 raccomandano il coinvolgimento dei familiari nell’intervento, senza specificare però una direzione più di tipo supportivo, psicoeducativo e/o di auto-mutuo aiuto. Dalle ricerche esaminate l’unica indicazione che è possibile individuare per la scelta dell’intervento è l’obiettivo per il quale viene pensato, se quindi con il fine di “educare” e quindi sostenere il familiare nelle problematiche psicologiche direttamente esperite, o con il fine più didattico di “insegnare” e quindi trasmettere delle competenze specifiche sul disturbo per la gestione dei momenti critici di questi pazienti.
In Italia sono state condotte alcune esperienze pilota presso la AUSL di Fano e di Bologna60 e presso il Centro di Psicoterapia di Roma61. Dallo studio condotto nelle AUSL di Fano e Bologna, ispirato al modello statunitense di Gunderson37,40, emerge una sostanziale adattabilità del GFM nel contesto dei servizi pubblici di salute mentale e un impatto positivo sia sul familiare, in termini di riduzione del carico soggettivo e oggettivo, sia sul paziente, in termini di riduzione delle ospedalizzazioni e della sintomatologia, legata prevalentemente alla difficoltà della regolazione emotiva e del controllo degli impulsi60. Più recentemente, il Centro di Psicoterapia di Roma ha adottato il modello ispirato al DBT-FST proposto da Hoffman et al.41,42 per l’intervento sui familiari di pazienti con DBP. Lo studio sulla sua efficacia è al momento ancora in corso61.
Aspetti critici sugli interventi psicoeducativi
Nonostante siano stati descritti in letteratura programmi di intervento per i familiari di pazienti con DBP e vi siano risultati preliminari promettenti, questi hanno avuto ancora scarsa diffusione.
Le difficoltà incontrate nell’applicazione dei programmi citati possono essere legate ad alcuni aspetti critici:
– I modelli psicoeducativi, privilegiando gli aspetti conoscitivi legati alla patologia, rischiano di lasciare in secondo piano le complesse dinamiche interpersonali che spesso caratterizzano alcuni nuclei familiari. Tali interventi, infatti, sono prevalentemente gruppali e quindi non ritagliati ad hoc per dinamiche relazionali specifiche che, se molto conflittuali, potrebbero necessitare di interventi individuali differenti e mirati alla problematica del singolo nucleo. Per tale ragione, sarebbe utile e necessario, nei casi in cui ci siano le indicazioni, fornire parallelamente interventi individuali, destinati alle dinamiche problematiche specifiche di quel nucleo, che potrebbero risultare incompatibili con un approccio psicoeducativo gruppale.
– I clinici hanno scarsa fiducia rispetto al coinvolgimento dei familiari nel trattamento di un paziente affetto da DBP. La diffidenza che solitamente accompagna il clinico è probabilmente legata ai resoconti diretti dei pazienti borderline, che comunemente lamentano gravi difficoltà interpersonali con i familiari, e all’idea che l’inserimento di un caregiver nel trattamento possa essere svantaggioso, in quanto direttamente responsabile della sofferenza psicologica del paziente. Tale concezione è però lontana dalle evidenze 37,40,60 che invece testimoniano l’utilità del coinvolgimento dei caregiver, proprio al fine di ridurre l’intensità emotiva di alcune dinamiche conflittuali e, quindi, i trigger potenziali di nuove ricadute. Ricerche future sull’efficacia di questi protocolli potrebbero garantire una maggiore disponibilità e fiducia della comunità clinica verso questa tipologia di approccio.
– Gli studi sono stati effettuati su campioni piccoli e in centri specializzati nel trattamento del DBP. I risultati incoraggianti ottenuti potrebbero quindi essere giustificati dalla forte motivazione e specializzazione dei professionisti che hanno condotto tali studi. Per arginare la problematica sarebbero necessarie ulteriori ricerche volte a misurare l’efficacia di questi approcci su campioni più ampi al fine di favorirne la diffusione e renderli maggiormente disponibili nella routine clinica dei servizi di salute mentale.
CONCLUSIONI
Il ruolo del familiare del paziente con DBP è mutato profondamente nel corso degli anni. Da un possibile responsabile, colpevolizzato ed escluso dal percorso di cura, è stato eletto a una posizione sempre più prossima al concetto di “co-terapeuta”.
Nonostante i cambiamenti avvenuti, il caregiver si trova spesso ancora oggi da solo ad affrontare le situazioni critiche e il carico che ne deriva, non reperendo sempre i servizi necessari alle sue esigenze.
Alla luce dei contributi scientifici esaminati, sembrerebbe importante coinvolgere tempestivamente il familiare nel trattamento del paziente con DBP.
I programmi di psicoeducazione disponibili in letteratura sono, a oggi, poco diffusi nella routine clinica dei servizi di salute mentale. Nonostante i risultati ancora preliminari sulla loro efficacia e alcune criticità sulla loro applicabilità, tali interventi risultano una risorsa preziosa per il trattamento dei pazienti con DBP.
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