Psicoanalisi e psicofarmaci: storia e sviluppi di un incontro ravvicinato
ANGELA IANNITELLI
E-mail: a.iannitelli@tiscali.it
Dipartimento di Neurologia e Psichiatria, Sapienza Università di Roma

La scoperta della psicoanalisi e quella degli psicofarmaci rappresentano due eventi che non possiamo non considerare rivoluzionari nell’ambito della comprensione e della cura della sofferenza mentale.
La psicoanalisi, dispositivo scoperto-inventato da Sigmund Freud a cavallo tra i due secoli, con la scoperta dell’inconscio1, porterà “la peste” non solo negli Stati Uniti – «[…] non sanno che portiamo loro la peste» ebbe a dire a Jung prima di sbarcare in America, il 21 agosto del 1909 –, ma da lì, nel mondo intero2. Nulla sarà più la stessa cosa dopo la scoperta della psicoanalisi. Una sonda che amplierà le sue osservazioni dalla sofferenza umana alle embricazioni di questa con la società; ai prodotti culturali del pensiero umano – la letteratura, l’arte, il cinema –, alle altre scienze epistemologiche. Le accuse di “non scientificità” verranno con gli anni a cadere, grazie agli studi della psicobiologia, delle ricerche sul comportamento, degli studi di fisiologia del sistema nervoso; di quelle discipline, cioè, che rientrano in quelle che vengono definite neuroscienze e che stanno confermando molte delle intuizioni freudiane. La scienza psicoanalitica attualmente è una realtà viva da cui non si può prescindere, con numerose Società sparse in molti paesi, tra cui la Russia, l’Iran, la Cina, e con milioni di pazienti trattati.
Sull’altro versante, agli inizi degli anni ’50, la scoperta casuale di quelli che sarebbero diventati i primi psicofarmaci – la clorpromazina, l’iproniazide, l’imipramina, il clordiazepossido – ha messo in atto un processo che ha consentito lo sviluppo di ricerche che hanno portato alla definizione di classi farmacologiche, quali quelle degli antidepressivi, degli antipsicotici, degli stabilizzanti dell’umore e degli ansiolitici, consentendo di curare milioni di persone nel mondo, di ampliare le conoscenze sulla patogenesi delle malattie mentali e che, in molti paesi tra i quali il nostro, ha contribuito alla chiusura dei manicomi. I dati Eurispes del 2010 3 riportano che circa il 15% degli italiani ha fatto uso di psicofarmaci nel corso della sua vita. Nell’intera popolazione che ha dichiarato di far uso di psicofarmaci per la terapie dei disturbi mentali, le benzodiazepine sono le più usate (85,8%), seguite dagli antidepressivi (30,6%), dagli stabilizzatori dell’umore (17,5%) e dagli antipsicotici (5,5%).
Le due discipline per molti anni hanno camminato su vie parallele. La prima, tesa a difendere la propria epistemologia e la propria crescita, generalmente fuori da apparati di potere, con una particolare propensione per la clinica e la teorizzazione; la seconda, con una ricerca fervente tesa tra applicazione clinica – con i suoi indubbi interessi economici – e sincera spinta a conoscere i meccanismi in gioco nell’azione dei farmaci e, di conseguenza, nelle alterazioni alla base dello sviluppo della malattia mentale.
La crescita di entrambe le discipline e la consapevolezza di non riuscire a curare la sofferenza mentale solo con le molecole farmacologiche – il crollo della “grande illusione” –, la comparsa di nuove forme di sofferenza psichica – si pensi agli stati limite, alle dipendenze, alle comorbilità, alle patologie psicosomatiche –, il contributo dato dalle neuroscienze alla psicoanalisi hanno portato alla descrizione e poi allo sviluppo delle cosiddette terapie integrate, che hanno mostrato una efficacia superiore alla sola psicoanalisi o alla sola psicofarmacologia, soprattutto nel trattamento delle nuove patologie psichiche. L’efficacia del trattamento psicofarmacologico durante il percorso psicoanalitico appare utile non solo in alcuni casi di patologia grave non altrimenti trattabile analiticamente – si pensi ad alcuni quadri dello spettro psicotico o dei disturbi di personalità o di depressione e ansia grave o ai comportamenti autolesivi degli adolescenti –, ma anche in forme meno gravi dove la regressione del sintomo consente un lavoro analitico più efficace con un aumento del desiderio da parte dell’analizzando di avvicinarsi alle aree non conoscibili, luogo di origine della sofferenza. Lo sviluppo, inoltre, della disciplina riabilitativa ha confermato come la sofferenza mentale grave debba necessariamente essere trattata in maniera multidisciplinare così come multifattoriali sono le sue cause. E che dire, poi, di una psicofarmacologia orientata psicodinamicamente che sembra essere un campo di sviluppo di enorme portata clinica e teorica?
La richiesta sempre più frequente di un aiuto, complice la crisi economica, confermata dall’aumento della prescrizione soprattutto di antidepressivi e ansiolitici da parte anche del medico di medicina generale, mostra chiaramente come il tema sia di grande interesse non solo per i risvolti economici sulla spesa pubblica (i farmaci per il sistema nervoso centrale occupano il terzo posto nella classifica della spesa farmaceutica che, nel rapporto Osmed 20084, è stata pari a 2967 milioni di euro), ma anche per i suoi risvolti sociali, indicativi di una risposta articolata che deve tener presente la complessità del presente che viviamo.
BIBLIOGRAFIA
1. Ellenberger H. La scoperta dell’inconscio. Torino: Bollati Boringhieri, 1980.
2. Lacan J. La chose freudienne. L’Évolution Psychiatrique 1956; 1: 225-252.
3. Eurispes 2010. Rapporto Italia, Roma.
4. Gruppo di lavoro OsMed. L’uso dei farmaci in Italia. Rapporto nazionale anno 2008. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2009.