Recensioni


Thomas Metzinger
Il tunnel dell’io. Scienza della mente
e mito del soggetto
Raffaello Cortina Editore, Torino 2010, pagine 306, € 25

La nuova scienza del cervello e della mente è alla ricerca di una propria, autonoma epistemologia che sia in grado di fornire finalmente i primi, sicuri riscontri oggettivi su un problema fortemente complesso, scivoloso e misterioso qual è quello della coscienza. Vi sono stati notevoli progressi, ma le teorie al riguardo appaiono insufficienti, talora ingenue e velleitarie. Dal punto di vista strettamente scientifico siamo agli albori di una vera scienza del cervello e della coscienza.
Se poi cominciamo a definire la coscienza – alla maniera di Metzinger – come “l’apparire di un mondo”, ci troviamo più nel mondo filosofico di Platone che in quello neuroscientifico di Kandel o Edelman. Invero, nella storia del pensiero si assiste a un perenne tentativo umano di comprendere la mente cosciente. Una delle ipotesi è che la coscienza sia una forma di conoscenza superiore che accompagna i pensieri e gli altri stati mentali.
Nel pensiero classico, nella letteratura e nella filosofia scolastica medievale, conscientia si riferiva alla “coscienza morale”. La coscienza qui è intesa come spazio interiore. Un’altra ipotesi riguarda il concetto di coscienza interpretato come “integrazione”: la coscienza è ciò che “lega” le cose insieme. In questa accezione, si parla di “unità di coscienza”, che è la capacità della coscienza di legare sia le differenti parti della nostra esperienza cosciente, sia quelle del mondo in cui ci troviamo a vivere, in una singola realtà. L’idea dell’unità della coscienza è una delle maggiori conquiste ottenute nello studio del nostro cervello. L’unità della coscienza viene così vista come una proprietà dinamica del cervello umano.
Esistono convergenti prove che “tutti i vertebrati” hanno esperienze fenomeniche (Metzinger). Possono anche non possedere pensiero e linguaggio, ma sicuramente essi provano “sensazioni ed emozioni” e sono in condizione di soffrire. L’idea di molti neuroscienziati è che uccelli, rettili e pesci abbiano avuto “qualche forma di coscienza”. Le prove empiriche a favore della coscienza animale sono ormai “al di là di ogni ragionevole dubbio” (Botvinick, Cohen). È notevole poi l’evidenza dell’esistenza di molte strutture cerebrali che sottendono la coscienza.
Questa è anzitutto un processo interno, legato cioè a una prospettiva individuale in prima persona. È un fenomeno soggettivo. Il tuo mondo interiore non è il mondo interiore di qualcuno, è il tuo mondo interiore, un dominio privato di esperienza a cui solo tu hai accesso diretto. Questa è la ragione fondamentale che rende la coscienza un fenomeno elusivo.
Sappiamo che è possibile condurre ricerca scientifica solo su oggetti dotati di proprietà che sono “osservabili da tutti”. L’esperienza cosciente invece ha un carattere soggettivo, intimo, ed è accessibile soltanto a una singola persona: il soggetto stesso dell’esperienza. Molti autori ritengono pertanto che la coscienza sia, come dicono i filosofi, ontologicamente irriducibile, poiché i fatti in prima persona “non possono essere ridotti a fatti in terza persona”. Diciamo di più. Gli elementi soggettivi della coscienza sono talmente evasivi che neppure il soggetto che fa esperienza possiede alcun criterio interno per identificarli tramite introspezione.
Il tentativo di comprendere la soggettività è il “rompicapo” più problematico che si possa trovare nelle ricerche in questo campo. Gli stati cerebrali sono osservabili. Vi sono i campi recettoriali per i vari stimoli sensoriali. Sappiamo dove hanno origine i contenuti emotivi. Conoscere gli stati del cervello o sapere dove hanno origine la memoria o le emozioni non ci permetterà però mai di capire come questi stati soggettivi vengano vissuti dalla persona in questione. Come i correlati neurali della coscienza, cioè come queste configurazioni di attivazione neurale riescano poi a dare vita a pensieri, sensazioni, emozioni e così via rimarrà un enigma forse per molto tempo ancora. 
E allora se i contenuti della coscienza sono ineffabili e sfuggenti (non si può spiegare a un non vedente l’essere rosso di una rosa) come potremo fare ricerca scientifica su di essi? Per risolvere il problema, il modo migliore, secondo alcuni autori, è quello di negare l’esistenza delle esperienze soggettive coscienti (Churchland). In questo modo la nostra non sarebbe un’esperienza soggettiva, ma qualcosa di fisico, uno stato neurale, cerebrale. Dobbiamo pertanto usare concetti neurobiologici, i quali ci permettono di “scoprire” molte più cose e “arricchire” le nostre vite interiori. L’avvento di una concezione neuroscientifica, che Churchland chiama “materialismo eliminativista”, riguardante gli stati psicologici costituirà non un “tramonto”, bensì “un’alba” in cui la meravigliosa complessità del cervello e della mente verrà finalmente rivelata.
La coscienza dunque viene concepita come “un nuovo tipo di organo”, un fenomeno interamente biologico. Gli organismi biologici – afferma Metzinger – sviluppano due tipi di organi. Il primo riguarda, ad esempio, il cuore o il fegato. Il secondo tipo è costituito da organi “virtuali” come i sentimenti (coraggio, rabbia, gioia, desiderio, ecc.), l’esperienza di vedere oggetti colorati, di ascoltare musica o di avere una certa memoria. All’interno di questa coscienza biologica inizia a dispiegarsi la vita soggettiva.
In realtà, l’enfasi sul primato della ragione prima e delle neuroscienze ora sta irrevocabilmente dissolvendo l’immagine giudaico-cristiana delle società occidentali che da sempre è stata una delle componenti di coesione sociale e morale. L’immagine cioè di un essere umano che conterrebbe il segno immortale del divino.
Il pericolo è che “spazzando” via la religione e le credenze oggi l’uomo possa vivere quella condizione che Max Weber chiamava “disincanto del mondo”. Un ulteriore pericolo è rappresentato dalle scoperte delle neuroscienze, le quali possono essere seguite da un “vuoto” antropologico ed etico in assenza di un terreno comune per i valori e le esperienze morali condivise. Distruggendo qualunque cosa in cui l’umanità ha creduto negli ultimi venticinque secoli, lo scenario, per Metzinger, è quello del primato di un “volgare materialismo”. Disponiamo di cervelli, ma non di anime immortali. Non ci sarà mai una vita dopo la morte. Ognuno di noi è solo e vive su un pianeta desolato, in un universo fisico freddo, vuoto e triste.
In questa drammatica svolta materialistica l’immagine dell’uomo è avvolta quindi da un “vuoto etico”. E in una realtà in cui l’attuale esplosione di conoscenze nelle neuroscienze è “fuori controllo” guidata da “interessi individuali di carriera” e sotto l’influenza di “egoismi”.
E tuttavia l’aspetto positivo della nuova immagine dell’essere umano è che le neuroscienze hanno svelato, pur nella profondità ancora imperscrutabile degli stati soggettivi, l’enorme numero di configurazioni neurali possibili nei nostri cervelli e la vastità dei diversi tipi di esperienza soggettiva. La consapevolezza di avere a disposizione una quantità immensa di stati fenomenici e la possibilità di farne sistematicamente uso sono elementi di notevole significato umano, scientifico e sociale.
La cosa nuova e straordinaria oggi è che stiamo iniziando a scoprire le basi neurali di tutti questi stati soggettivi. I progressi delle neuroscienze renderanno accessibili alla scienza l’esperienza soggettiva e ci consentiranno di superare i limiti delle nostre conoscenze sul nostro cervello e sulla nostra mente. Le sfide maggiori riguardano il “modo” in cui le sensazioni soggettive, i cosiddetti qualia, emergano dall’attività dei neuroni.
Dobbiamo però trovare il sistema di avere a che fare con queste stupefacenti possibilità in maniera intelligente e responsabile, altrimenti andremo incontro a una serie di rischi. È per questo motivo che abbiamo bisogno di una nuova branca dell’etica applicata, ovvero dell’etica della coscienza. Dobbiamo cominciare a pensare – sottolinea Metzinger – a cosa vogliamo fare di tutta questa nuova conoscenza.
Le nuove potenzialità includono addirittura la capacità di “alterare” sia le proprietà funzionali del cervello sia quelle fenomeniche che esse realizzano. Possono cioè essere “manipolate” non solo le esperienze sensoriali e quelle emotive, ma anche le proprietà di livello superiore della mente, come l’esperienza della volontà e quella dell’agentività. Presto saremo in grado di alterare la nostra chimica neuronale, il nostro cervello, e attivare specifiche forme di contenuto fenomenico.
Di qui, l’avvertita e seria esigenza di un’etica della coscienza. Nell’etica tradizionale ci si chiede: “Che cosa è una buona azione?”. Ora dobbiamo chiederci anche: “Che cosa è un buono stato di coscienza?”. La nuova cultura della coscienza potrebbe così riempire quel vuoto di cui innanzi abbiamo parlato. C’è allora il bisogno pressante di promuovere un nuovo umanesimo nelle neuroscienze, un umanesimo scientifico.

Guido Brunetti