Recensioni
Allan N. Schore
I disturbi del Sé
Astrolabio, Roma 2010, pagine 477, € 38

A partire dagli anni Cinquanta, la ricerca sul cervello e la mente è passata dal regno dell’indagine filosofica all’ambito delle neuroscienze. Il cambiamento di prospettiva riflette la nuova visione di quello che noi vogliamo conoscere intorno alla natura dell’uomo e del mondo. Perché, ad esempio, alcune persone sono malate ed altre sane, perché la donna non può assomigliare di più all’uomo e perché non posso vivere fino a cent’anni continuando a essere sessualmente attivo.
A illustrare questo cambiamento è stata l’approvazione del Progetto Genoma Umano destinato a individuare la sequenza completa del DNA che si dice costituisca un essere umano. Esso prometteva di riuscire a conseguire quello che è l’obiettivo ultimo della biologia, di produrre artificialmente organismi viventi in laboratorio. Produrre la vita in laboratorio è per definizione quel che significa capire la vita stessa (Loeb).
Emergono a questo punto – afferma Lewontin – due importanti campi d’indagine. Uno è rappresentato dal problema dello sviluppo della forma. Sappiamo molto sui geni che codificano vari segnali per lo sviluppo, ma non abbiamo idea di come tutto questo “determini” alla fine la forma del mio naso. L’altro campo di “immensa ignoranza e povertà concettuale” è rappresentato dalla comprensione del sistema nervoso centrale.
Non è chiaro il significato dei meccanismi che collegano stati mentali, connessioni neuronali e stati fisici né se identici stati mentali siano da rapportare a identiche regioni del cervello nei diversi individui o anche nel medesimo individuo in momenti diversi.
Conosciamo l’esistenza di alcune localizzazioni in aree del cervello di categorie di stati mentali, ma non possiamo dire nulla circa i processi che mi portano a scrivere queste parole a preferenza di altre che potrei scrivere.
Il problema di fondo – rileva Lewontin – è che negli studi sul cervello, le prove di cui abbiamo bisogno stanno solo “nelle teste degli scienziati”. I quali, nel loro “arrogante orgoglio”, credono che ogni cosa sul mondo materiale sia conoscibile. Non è vero. Ci sono limiti imposti alle nostre possibilità di conoscenza. È probabile che non avremo che “una comprensione elementare” del sistema nervoso centrale, così come risulta impossibile “misurare” le forze selettive operanti nella maggior parte dei geni.
I “fatti oggettivi” della scienza spesso si rivelano “creazioni cucinate” di ideologi decisi a dare con i numeri sostanza alle loro congetture e ai loro pregiudizi. In questa maniera – come rileva Gould – ci imbattiamo nell’idea, sostenuta dal materialismo riduzionistico, che se la mente è conseguenza del cervello, le grandi menti non possono essere che il prodotto di grandi cervelli. Oppure, che gli uomini meno sviluppati dovrebbero avere cervelli meno sviluppati, che le donne dovrebbero avere capacità craniche più ridotte di quelle degli uomini e le classi inferiori fronti più sfuggenti di quelle della borghesia.
In queste teorie ci sono alcuni punti deboli. C’è anzitutto “l’errore” dei dati di fatto. Nonostante tutte le affermazioni contrarie, “non esistono differenze di dimensione o forme del cervello fra i sessi, le razze o le classi che non siano semplice conseguenza di una diversa dimensione corporea”, né esiste “alcuna correlazione” fra la dimensione del cervello e le prestazioni intellettive. L’intelligenza, la capacità di apprendimento, la rettitudine morale – aggiunge Lewontin – “non sono cose”, ma “costruzioni mentali, storicamente e culturalmente contingenti”. Si tratta pertanto di “pura reificazione”, della conversione cioè di idee astratte in “cose”.
Il problema è allora quello di capire in che modo gli scienziati pervengano a convincersi che, per esempio, i cervelli dei bianchi siano significativamente più grandi dei cervelli dei neri, laddove in realtà “non esistono differenze di tal fatta”. La risposta – per lo scienziato S. J. Gould – sta nel fatto che “i più eminenti scienziati truccano i dati”, come dimostrano le verifiche effettuate da L. J. Kamin, le quali hanno “smascherato” le prove sul quoziente d’intelligenza (IQ) nonché le idee di Samuel Morton, Paul Broca e Cyril Burt. Uno dei più influenti psicologi del ventesimo secolo, Burt, riteneva che l’intelligenza era determinata quasi completamente dai geni e si dedicò – afferma Lewontin – a “inventare i dati adatti a dimostrarlo”. La sua più famosa “fabbricazione di prove false” fu quella destinata a dimostrare che gemelli identici educati separatamente avevano comunque “uguale intelligenza”.
Per verità, immagini mentali e concetti sono “il risultato immediato di processi fisiologici che si svolgono all’interno di un essere umano particolare”. Il quale è esso stesso “condizionato” dal mondo sociale e naturale. La base materiale di questo processo di trasformazione è “il problema più difficile e seducente” delle neuroscienze.
Capire la funzione del sistema nervoso significa prima di tutto affrontare il rapporto mente e corpo, che è sempre stato il tormento dell’epistemologia. Finora, la questione è stata affrontata dai neuroscienziati in modo evasivo. I neurofisiologi evitano il problema, interessandosi dell’anatomia microscopica, della chimica e della fisica della conduzione nervosa. In questa maniera si accetta il modello cartesiano del corpo-macchina, senza prendere in considerazione la mente. All’estremo opposto, ci sono autori, come J. Eccles, che abbandonano il materialismo, dando così alla mente un’esistenza indipendente, derivante da qualche fonte non materiale.
La maggior parte degli autori adotta una concezione che dà il primato allo stato fisico del cervello come “causa” della mente. Altri studiosi infine negano l’esistenza della mente e affermano, con Watson e Skinner, che il concetto di mente ha un connotato metafisico e l’unica cosa che esiste è il comportamento. La sola posizione coerente, per Lewontin, sembra quella di ritenere che mente e cervello siano “due aspetti” di uno stesso stato fisico. La mente non causa uno stato materiale del cervello né ne è causata, poiché i concetti di causa ed effetto non si applicano a due aspetti dello stesso stato.
Nel corso degli ultimi anni, si è imposta la “teoria della selezione dei gruppi neurali” formulata da Edelman. Questa teoria sostiene che la coscienza emerge dall’organizzazione e dall’attività del cervello ed è “incarnata” nella natura privata, personale dell’esperienza cosciente di ciascun individuo. Per spiegare la coscienza – aggiunge – sarà indispensabile una comprensione complessiva di come funziona il cervello. Questo principio deve ispirare l’attività di coloro che vogliono comprendere lo sviluppo mentale ed affettivo del bambino. Tema che è al centro del presente libro.
Base del lavoro è la teoria dell’attaccamento formulata per la prima volta da John Bowlby (1969). Questa concezione evidenzia l’importanza fondamentale dei legami significativi tra gli individui e la forte influenza, sullo sviluppo del bambino, del modo in cui è trattato dai genitori e soprattutto dalla madre. Schore ribadisce l’impatto positivo delle prime relazioni affettive e l’influenza negativa dei traumi, e altresì la possibilità dell’insorgenza di vari disturbi psichiatrici. È un tema che tra l’altro ho affrontato due anni fa all’Università di Salerno, trovando piena disponibilità da parte di studenti che hanno poi elaborato interessanti tesine. Concludendo, non si può dire davvero che questo libro aggiunga molto a quel che già si sapeva in materia. 

Guido Brunetti