L’origine della depressione nella malattia di Alzheimer:
una revisione della letteratura


The origin of depression in Alzheimer disease: a systematic review

MARIA CATENA QUATTROPANI1, VITTORIO LENZO1, VANESSA ARMIERI1, ANTONELLA FILASTRO2
*E-mail: mquattropani@unime.it

1Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Messina
2IPUE-Istituto di Psicologia Umanistica Esistenziale “Luigi De Marchi”, Roma


RIASSUNTO. Scopo. I disturbi depressivi sono stati associati alla malattia di Alzheimer (AD), ma il loro ruolo come possibile sintomo predittivo, fattore di rischio o reattivo non è ancora stato completamente studiato. Lo scopo di questa revisione è di analizzare la relazione tra depressione e AD, in modo da comprendere se le manifestazioni depressive si instaurino prima della comparsa di AD oppure siano una diretta conseguenza del disturbo a causa del declino cognitivo percepito che si verifica nelle fasi iniziali di AD. Metodo. È stata effettuata una revisione sistematica della letteratura scientifica pubblicata dal 2010 al 2016, attraverso una ricerca su banche dati online (PsycINFO, PubMed, Scopus, Web of Science, Web of Knowledge) di studi osservazionali e di revisioni della letteratura, utilizzando termini legati alla depressione e all’AD. Risultati. Sono stati inclusi 29 studi. La maggior parte delle revisioni ha rilevato che la depressione è positivamente correlata a un incremento della probabilità di sviluppare AD, suggerendo che essa può essere un fattore di rischio per AD. La frequenza e la gravità degli episodi di depressione sembrano aumentare questa eventualità. I risultati tuttavia sono contradditori rispetto a una possibile differenza di rischio tra depressione precoce o tardiva nel determinare la comparsa di AD. Conclusioni. I disturbi depressivi possono essere sia un sintomo prodromico sia un fattore di rischio per l’AD, anche se quest’ultima è al momento l’ipotesi più accreditata. È emersa solo una prova a favore dell’ipotesi di depressione come reazione emotiva alla perdita di competenze cognitive che avvengono nell’AD.

PAROLE CHIAVE: depressione, malattia di Alzheimer, fattore di rischio, fattore di reazione.


SUMMARY. Aim. Depression was associated to Alzheimer’s disease (AD), even if its role as predictive symptom, risk factor or reactive factor remains unclear. The aim of this review was to investigate the relation between depression and AD. More specifically, we aimed to examine if depression may be a prodrome of AD or an early reaction to cognitive decline. Methods. A systematic review based on the electronic bibliographic databases (PsycINFO, PubMed, Scopus, Web of Science, Web of Knowledge) was carried out on the scientific literature from 2010 to 2016. Observational studies and literature reviews were included, searched for predefined inclusion criteria. Results. A total of 29 studies were included. Most of the reviews reported that depression may be a risk factor for dementia. Moreover, frequency and severity of depressive episodes may increase the risk for dementia. However, the results are contradictory to a possible risk difference between early or late depression in determining the occurrence of AD. Conclusions. Depression may be a prodrome of dementia and a risk factor of AD. However, the hypothesis of depression as risk factor is the most accredited one. Finally, there is one evidence suggesting that depression is a reaction to cognitive decline of AD.

KEY WORDS: depression, Alzheimer disease, risk factor, reactive factor.

INTRODUZIONE
Lo studio del rapporto tra manifestazioni depressive e malattia di Alzheimer (AD) è da alcuni anni uno dei temi più controversi nella letteratura scientifica1. Se da un lato è stata individuata un’associazione tra depressione e AD, dall’altro la natura di questa relazione e il suo valore prognostico rimangono tuttora non ben definite2.
Una delle questioni su cui ruota l’interesse della ricerca scientifica è quella volta a comprendere se i fenomeni depressivi precedano la comparsa del quadro neurologico dell’AD o se siano invece soltanto una manifestazione comportamentale di questa condizione, oppure se siano in comorbilità con l’AD contribuendo al declino delle funzioni cognitive. Infine, un’altra ipotesi è quella se il fallimento in alcune funzioni cognitive (come l’attenzione e la memoria) nelle fasi iniziali dell’AD possa determinare una manifestazione depressiva come reazione.
Diversi studi hanno supportato l’ipotesi di depressione come fattore di rischio o sintomo predittivo della comparsa di AD. Tra questi, Aznar e Knudsen3 hanno evidenziato come i cambiamenti cerebrali collegati a pregressi episodi depressivi e la predisposizione genetica possano aumentare la vulnerabilità alla degenerazione neuronale propria dell’AD. L’ipotesi biologica dei disturbi depressivi in corso di AD si basa sull’alterazione della capacità del cervello di fronteggiare situazioni stressogene a causa di una disfunzionalità genetica in uno o più sistemi cerebrali coinvolti nell’adattamento allo stress, traducendosi nell’avvio di una cascata neurodegenerativa. Quest’ultima determina un malfunzionamento serotoninergico e colinergico, una riduzione del volume dell’ippocampo e della plasticità del cervello che si manifesta con un incremento della disfunzione cognitiva e un conseguente aumento del rischio per lo sviluppo di AD 3.
Tuttavia, altri studiosi sostengono che i soggetti con una storia clinica di depressione hanno una maggiore probabilità di essere diagnosticati con AD in tarda età4.
Infine, i risultati di un recente studio longitudinale5, condotto in un arco temporale di 5 anni, hanno supportato l’ipotesi che la depressione grave aumenti il rischio di sviluppare la sindrome neurodegenerativa. Il tasso di incidenza per l’AD infatti è risultato essere quasi il doppio nei soggetti con depressione clinicamente significativa rispetto ai soggetti non depressi ed è stato quasi 4 volte superiore nei casi di depressione grave. Al riguardo, gli autori di questo studio hanno proposto l’ipotesi di una “riserva cerebrale”. La presenza di depressione potrebbe infatti alterare la riserva cognitiva attraverso meccanismi sia biologici sia psicosociali.
La comprensione del rapporto tra manifestazioni depressive e AD è resa ulteriormente complicata dalla possibilità che la depressione possa costituire al contempo un sintomo prodromico, antecedente dunque alla manifestazione clinica della demenza. Il riconoscimento precoce di sintomi depressivi potrebbe pertanto costituire un segno premonitore piuttosto che un fattore di rischio per AD. L’ipotesi che vede la presenza di depressione come sintomo predittivo di AD ha inoltre trovato conferma nell’osservazione dell’aumento di placche amiloidi e grovigli neurofibrillari, che costituiscono dei tratti neuropatologici distintivi di AD.
In aggiunta, la tipologia di depressione associata ai depositi di amiloide, e dunque con la presenza di deficit di memoria e altre disfunzioni cognitive, è stata spesso associata a deterioramento cognitivo lieve (MCI), che si presume sia una fase prodromica di AD. Al riguardo, Sun et al.6 hanno dimostrato che elevati livelli di Aβ42 nel liquido cerebrospinale rappresentano una prova che la presenza di depressione associata all’amiloide può contribuire allo sviluppo di AD.
Nonostante queste evidenze, la relazione tra sintomi depressivi e AD rimane tuttora una questione controversa. Indagare questa relazione appare necessario anche per il fatto che la depressione resistente al trattamento è uno dei principali problemi di salute pubblica7. Alcuni ricercatori8 hanno infatti evidenziato come la depressione possa anche costituire una reazione psicologica all’AD o scaturire dagli stessi processi patogeni che conducono agli altri sintomi dell’AD, tra cui la presenza di placche amiloidi e iperfosforilazione delle proteine tau.
Sulla base di queste considerazioni, è stata effettuata una revisione sistematica della letteratura con l’obiettivo di esaminare le diverse ipotesi sull’origine della depressione nell’AD. In questa prospettiva, è stata indagata l’associazione tra depressione e AD, con particolare attenzione all’ipotesi che vede il disturbo depressivo come fattore di rischio per lo sviluppo della demenza. Un secondo obiettivo di questo lavoro è stato quello di individuare se i sintomi depressivi precedano l’esordio della sintomatologia neurologica, in modo da poter essere considerati come sintomi predittivi dell’AD. Sono stati dunque presi in considerazione gli studi che hanno indagato le eventuali manifestazioni depressive prima della comparsa di AD, nonché la possibile esistenza di una relazione tra i cambiamenti cerebrali associati all’AD e sintomi depressivi. Infine, si è verificata l’ipotesi secondo cui l’elevata incidenza diagnostica di depressione nei pazienti con AD possa essere considerata come una reazione ai deficit che comporta la demenza. Si è provato pertanto a mostrare una prospettiva globale e più completa rispetto ai dati forniti dalle revisioni e dalle meta-analisi precedenti.
METODI
È stata effettuata una ricerca sulla letteratura scientifica tra giugno e agosto 2016 nei database online di PsycINFO, PubMed, Scopus, Web of Knowledge (WoK), Web of Science (WoS). La ricerca nelle banche dati è stata eseguita utilizzando le seguenti parole chiave: “depression”, “Alzheimer disease” sia in forma libera – ottenendo le seguenti stringhe di ricerca “depression is a risk in AD” e “depression is a reactive factor in AD” – sia combinando le parole tra di loro. In quest’ultimo caso, ci si è avvalsi dell’utilizzo degli operatori booleani “AND” e “OR” riportando in WoK, WoS e PsycINFO le seguenti stringhe di ricerca: “depression is a prodromal or risk factor in Alzheimer disease”.
Si è indagato l’argomento nell’arco temporale degli ultimi 6 anni dalla data di pubblicazione (2010-2016) nei seguenti settori disciplinari: Psychology, Clinical Psychology, Neuroscience, Clinical Neurology.
La ricerca effettuata sui database ha fornito inizialmente 1899 risultati, caratterizzati da pubblicazioni potenzialmente rilevanti per gli obiettivi di questo studio. Nello specifico, sono state trovate 94 revisioni in PsycINFO, 105 in PubMed, 307 in Scopus, 239 in WoK e 1154 in WoS. Le tipologie di studio oggetto di interesse sono state le seguenti: studi osservazionali, studi longitudinali, studi prospettici, studi retrospettivi, revisioni sistematiche, studi comparativi.
I criteri di inclusione che hanno guidato la scelta delle revisioni sono stati: a) tipo di studio: studi analitici, revisioni della letteratura, pubblicazione negli ultimi 6 anni (2010-2016), pubblicazioni in lingua inglese, full-text reperibili e abstract; b) articoli che avevano come popolazione di interesse adulti anziani con depressione precoce e tardiva e diagnosi consolidata di AD.
I criteri di esclusione sono stati: a) studi con caratteristiche differenti rispetto ai criteri di inclusione; b) studi che prendevano in considerazione soggetti con depressione in relazione ad altre malattie neurodegenerative (demenza vascolare, demenza a corpi di Lewy, morbo di Parkinson, sindrome di Down).
In seguito all’esame degli abstract degli studi presi in considerazione, sono stati eliminati ulteriori 213 articoli che non erano pertinenti agli obiettivi di questo studio per i seguenti motivi: 16 articoli riguardavano l’intervento e l’efficacia di farmaci antidepressivi per il trattamento dell’AD; 4 articoli valutavano l’importanza dei biomarcatori del liquido cerebrospinale nell’AD; 42 articoli erano focalizzati su differenti fattori di rischio per l’insorgenza di AD (apatia, consumo di alcol, età, stress psicosociale, distress, ecc.); 11 articoli avevano come focus di interesse la depressione e i sintomi comportamentali e psicologici nell’AD; 31 articoli analizzavano il rapporto tra depressione e altre malattie neuropsichiatriche, neurodegenerative, organiche e AD; 47 articoli affrontavano le caratteristiche della depressione nella demenza; 2 articoli concernevano lo stress indotto dalle citochine e AD; 2 articoli riguardavano i sintomi depressivi e i disturbi cognitivi nella transizione menopausale; 14 articoli trattavano dell’epidemiologia e dell’eziologia nell’AD; 22 articoli riguardavano il tema della prevenzione nell’AD; 8 articoli esaminavano il rapporto tra MCI, AD e depressione; 12 articoli studiavano la performance ai test neuropsicologici dei soggetti con AD e depressione.
Sono stati individuati 31 articoli rilevanti per gli obiettivi di questa revisione. Di questi, in seguito alla lettura della versione full-text, ne sono stati esclusi 2 in quanto non rientravano nei criteri di inclusione precedentemente specificati (Tabella 1)3,9-36.
RISULTATI
Alla fine, in questo studio sono stati inclusi 29 articoli. I dettagli del processo di selezione delle pubblicazioni scientifiche sono riportati nel diagramma di flusso della Figura 1.
Come si può osservare nella Tabella 1, dagli studi selezionati per l’argomento oggetto di questo lavoro, sono emerse sei categorie di articoli: 1) 14 revisioni sistematiche della letteratura; 2) 5 studi longitudinali; 3) 3 studi retrospettivi; 4) 5 studi prospettici; 5) 1 studio clinico multicentrico; 6) 1 studio comparativo. Gli studi provengono dai seguenti Paesi: Stati Uniti (n=7), Cina (n=4), Germania (n=3), Regno Unito (n=3), Svezia (n=2), Australia (n=1), Croazia (n=1), Danimarca (n=1), Francia (n=1), Giappone (n=1), India (n=1), Italia (n=1), Olanda (n=1), Perù (n=1), Spagna (n=1).
La Tabella 2 riporta invece le caratteristiche chiave degli studi inclusi in questa revisione sistematica della letteratura. In tutti i lavori scientifici inclusi è stato indagato il ruolo delle manifestazioni depressive nella patogenesi dell’AD, con particolare attenzione alle ipotesi di depressione come sintomo predittivo, fattore di rischio o reazione all’AD.
La popolazione coinvolta negli studi è rappresentata da soggetti anziani affetti da depressione a esordio precoce o tardiva e diagnosi di AD. L’età media dei partecipanti degli studi inclusi in questa revisione sistematica è di 75 anni (range 55-95 anni).
Dei 29 lavori individuati, 14 hanno soddisfatto i criteri di inclusione per l’ipotesi di depressione come fattore di rischio, 11 per l’ipotesi di depressione come fattore di rischio e sintomo prodromico, 3 per l’ipotesi di depressione come sintomo prodromico. Una delle revisioni ha infine analizzato la risposta depressiva ai deficit cognitivi che avvengono nell’AD. Le caratteristiche di questi lavori sono sintetizzate nella Tabella 23,9-36.
Dei 14 lavori che hanno vagliato l’ipotesi di depressione come fattore di rischio, 6 erano revisioni sistematiche della letteratura, 1 era uno studio multicentrico retrospettivo, 4 erano studi prospettici, 1 era uno studio multicentrico, 2 erano studi longitudinali. I dati derivanti da queste ricerche hanno evidenziato che la depressione può essere un forte fattore di rischio22,32,34,36 in età avanzata26 e in età precoce25 per l’incidenza di AD23 e MCI16,18,33. Inoltre questi lavori hanno ipotizzato come l’esistenza di un processo neuropatologico parallelo sottostante alla depressone e all’AD, rappresentato dalle malattie vascolari11, dalle alterazioni di recettori glucocorticoidi, dall’atrofia dell’ippocampo, dall’aumento della deposizione di β-placche amiloidi, dalle alterazioni infiammatorie, dai deficit dei fattori di crescita, costituisca un fattore di rischio per lo sviluppo di AD3,13. In accordo con questi lavori, è emerso che gli individui con sintomi depressivi e la presenza dell’allele APOE ε4 hanno avuto un aumento del tasso di incidenza di AD. L’APOE può infatti determinare una diminuzione della capacità del cervello di far fronte agli effetti negativi della depressione31.
Per quanto concerne l’ipotesi delle manifestazioni depressive come fattore prodromico per AD, le prove a sostegno di questa tesi hanno trovato valido supporto in tre articoli, di cui uno era una revisione sistematica30 e due erano studi longitudinali12,20. I risultati hanno suggerito che gli individui affetti da depressione agli inizi della manifestazione clinica di AD mostrano un aumento dell’accumulo di amiloide11,20, livelli più bassi Aβ42 e livelli superiori di Aβ40, che preannunciano l’avvio di una cascata neurodegenerativa e un aumento di lesioni della sostanza bianca30.
Gli ultimi 11 articoli hanno mostrato come le ipotesi di fattore di rischio e prodromico non si escludano a vicenda ma possano coesistere. Di questi, 7 erano revisioni sistematiche10,15,21,25,28,29,35; 1 era uno studio longitudinale19, 1 era uno studio comparativo24, 2 erano studi retrospettivi14,31. Infine, un solo studio17 ha evidenziato come una forma grave di demenza possa essere un fattore predittivo per la depressione. Quest’ultima, associata a comportamenti verbali e fisici aggressivi, potrebbe essere alla base di un comportamento aggressivo, in fase avanzata di demenza.





















DISCUSSIONE
Per indagare la natura della relazione tra manifestazioni depressive e rischio di successivo sviluppo di AD, è stata eseguita una revisione della letteratura scientifica. I risultati degli studi sembrano rafforzare l’ipotesi che la depressione possa essere un fattore di rischio che favorisce lo sviluppo di AD.
Questi dati vengono supportati da un certo numero di ricerche13,22,23, alcune delle quali hanno però riscontrato risultati incoerenti rispetto all’età in cui si manifestano gli episodi depressivi clinicamente significativi in rapporto all’AD. Mentre alcuni lavori hanno suggerito come la depressione precoce (prima dei 65 anni) possa agire come un vero e proprio fattore di rischio per l’AD, altri26 hanno invece sostenuto l’esatto contrario, ovvero che la depressione a esordio tardivo (dopo i 65 anni) abbia una maggiore probabilità di determinare AD. Inoltre non è stata esclusa la possibilità che alcuni tipi di depressione a esordio tardivo possano essere manifestazioni precoci di demenza. Un futuro indirizzo di ricerca in questo campo dovrebbe essere mirato a una definizione più precisa del limite di età da prendere in considerazione per l’insorgenza della depressione in rapporto al deficit cognitivo, come parte di una misura di prevenzione a lungo termine.
Dai pochi studi prospettici sul rapporto tra depressione e rischio di MCI e AD, i fenomeni depressivi in età avanzata sono risultati essere un forte fattore di rischio per i soggetti normali che progrediscono verso una condizione di declino cognitivo18,27. Il fatto che la possibilità di incorrere nello sviluppo della malattia neurodegenerativa di Alzheimer sia maggiore per i soggetti affetti da depressione rispetto ai soggetti sani potrebbe indicare che, una volta che il deficit cognitivo è presente, la depressione giochi un ruolo minore. Al contempo, la depressione a esordio tardivo rappresenta un fattore di rischio nei soggetti normali nel progredire verso un MCI16.
Forti evidenze nell’ambito di questa revisione sistematica della letteratura hanno sottolineato che i sintomi della depressione sono associati a cambiamenti cerebrali e possono riflettere i cambiamenti fisiopatologici più comuni dell’AD come la deposizione di amiloide nel cervello, che si verifica un decennio prima che i sintomi cognitivi diventino evidenti. È stato interessante notare come le placche e i grovigli neurofibrillari che si accumulano maggiormente nella regione dell’ippocampo dei pazienti con AD depressi rispetto ai pazienti con AD non depressi promuovano la cascata di eventi che conducono alla morte neuronale e al successivo sviluppo di AD 13.
Come l’aumento di placche amiloidi, anche l’atrofia dell’ippocampo è una caratteristica diagnostica distintiva dell’AD. Nello studio retrospettivo di Aznar e Knudsen3 è stato ipotizzato un possibile effetto neurotossico della depressione in grado di determinare l’avvio di una cascata neurodegenerativa dannosa, che conduce ad AD. Nello specifico la tesi sostenuta da questi ricercatori è che la depressione sia capace di attivare l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene aumentando il numero di recettori glucocorticoidi, che a loro volta possono danneggiare l’ippocampo e indurre un tale livello di stress che il cervello non è in grado di fronteggiare.
Sempre in merito all’atrofia ippocampale, gli studi su soggetti depressi e pazienti con AD hanno riscontrato una diminuzione dei livelli del fattore neutrofico cerebrale nella regione dell’ippocampo. Quest’ultimo è riconosciuto per avere un ruolo chiave nella regolazione e nell’integrità della plasticità ippocampale e si presume essere importante per il mantenimento delle funzioni cognitive.
Anche un’infiammazione cronica all’interno del sistema nervoso centrale sembra avere un ruolo fondamentale nella fisiopatologia sia della depressione sia della demenza. In questa sede, è stato osservato che l’aumento di citochine nella depressione può condurre a deficit cognitivi e allo sviluppo di demenza e può interferire con il metabolismo della serotonina, riducendo sia la plasticità sinaptica sia la neurogenesi ippocampale. In questo modo, l’infiammazione cronica potrebbe spiegare perché una storia di depressione può favorire lo sviluppo di AD.
Durante il follow-up di uno studio clinico multicentrico, alcuni ricercatori hanno rilevato che il 60% dei soggetti con sintomatologia depressiva cronica associata ad atrofia progressiva delle regioni frontali progrediva verso l’AD rispetto a quelli senza tale sintomatologia, rappresentando un fattore di rischio aggiuntivo33. Anche gli esiti di uno studio longitudinale11 hanno supportato l’idea di connessione tra depressione e AD, riconoscendo la malattia vascolare come sottostante a entrambe le condizioni.
Oltre che da collegamenti neurobiologici, l’associazione tra depressione e AD è stata spiegata da possibili legami genetici tra i due disordini, in particolare tra l’APOE ε4 e soggetti con AD depressi.
Alcuni dei nostri risultati hanno suggerito che la depressione a esordio precoce e tardivo aumenti il tasso di incidenza di demenza indipendentemente dal genotipo APOE, mentre la depressione che si manifesta almeno 10 anni prima dell’esordio di demenza è un fattore di rischio per l’AD solo in soggetti portatori di APOE ε4. In generale, sembrerebbe ragionevole sostenere che l’APOE ε4 aumenti la vulnerabilità alla demenza nei soggetti con una storia di depressione, poiché è associata alla neurotossicità e alla plasticità neuronale compromessa. Quest’ultima potrebbe portare alla diminuzione della capacità del cervello di far fronte agli effetti negativi della depressione 31.
Il denominatore comune di questi casi è stato quello dell’esistenza di meccanismi neuropatologici comuni dietro la depressione e l’AD13. Tuttavia i risultati di queste ricerche sono stati tra loro conflittuali, poiché non sempre la storia di depressione è stata associata alla riduzione del volume ippocampale con successivo aumento del rischio di AD. Al contrario, riduzioni del volume dell’ippocampo sono stati trovati più coerenti tra gli individui con depressione. Inoltre, anche se è stato confermato il rapporto tra depressione e atrofia ippocampale, ci sono prove inconsistenti che questa associazione sia mediata da un aumento del livello di cortisolo. In diversi studi, l’atrofia ippocampale è stata legata ad alterazioni infiammatorie e deficit dei fattori di crescita nei pazienti con depressione e altri disturbi psichiatrici. Questo suggerisce che i meccanismi associati a elevati livelli di cortisolo possono essere importanti ma che sono necessarie ulteriori verifiche per chiarirne il percorso. Anche l’associazione tra depressione e AD attraverso la formazione di placche amiloidi è controversa. Infatti, solo alcuni studi recenti hanno dimostrato che le concentrazioni plasmatiche di β-amiloide in pazienti con depressione sono legate al deterioramento cognitivo.
Nella nostra revisione sistematica della letteratura si è inoltre voluto chiarire il possibile ruolo della depressione come sintomo predittivo dell’AD, ovvero se i disturbi depressivi possono essere un insieme di segni e sintomi che precedono la manifestazione clinica caratteristica di AD. Alla luce degli studi inclusi in questa revisione, sembra che il rischio di demenza associato a disturbi depressivi non possa essere spiegato esclusivamente dall’ipotesi di fattore di rischio. Alcuni studi longitudinali hanno riscontrato che i sintomi depressivi possono rappresentare un prodromo dell’AD, essendo tra i primi segni di demenza successiva 12,20. Tuttavia, questi studi mettono in rilievo il ruolo fondamentale dei follow-up, dato che i sintomi depressivi e il deterioramento della memoria percepito predicevano l’AD indipendentemente dalla cognizione oggettiva del soggetto.
Attraverso le tecniche di neuroimaging, come la tomografia computerizzata cerebrale a emissione di fotone singolo (SPECT) e la tomografia a emissione di positroni (PET), è stata evidenziata la presenza di cambiamenti strutturali nel cervello, tra cui la riduzione del flusso sanguigno e del volume del sistema limbico nei pazienti con depressione e demenza. Nello specifico, è stato evidenziato che la quantità di alterazioni della sostanza bianca e di lesioni cerebrovascolari che si riscontrano nei pazienti con depressione a esordio tardivo sono associate a lesioni dell’AD.
Inoltre, gli studi hanno riportato nei pazienti depressi affetti da AD una degenerazione neuronale nelle aree del locus coeruleus e dei nuclei del rafe, rispetto ai soggetti con AD senza depressione. Quindi, la riduzione dei livelli di serotonina e noradrenalina che interessa le manifestazioni depressive, si verifica allo stesso modo nelle fasi iniziali dell’AD. Infatti i processi neurodegenerativi, come l’alterazione del lobo frontotemporale e dei processi vascolari in AD, possono avviare cambiamenti nella regione frontale e del sistema limbico, compromettendo le vie adrenergiche e serotoninergiche.
Un’altra indicazione a favore dell’idea di depressione come prodromo di demenza è stata fornita dagli studi di Harrington et al.30, secondo cui i pazienti con depressione tardiva presentano un profilo simile a quello riportato dai pazienti con AD, ovvero la diminuzione della concentrazione plasmatica di β-amiloide 42 (Aβ42), con un conseguente aumento della proporzione βA40/βA42. Secondo gli autori, ciò implica che le differenze osservate nei soggetti con depressione possono essere indicative dell’inizio della cascata patologica di AD e la depressione può essere un sintomo precoce di AD.
Tali risultati devono essere interpretati con cautela a causa della scarsa rappresentatività del campione e necessitano di ulteriori indagini avvalendosi dell’aiuto delle tecniche di neuroimaging per valutare i livelli di Aβ42/Aβ40. Infatti non è chiaro se i livelli di Aβ in individui depressi continuano a modificare la traiettoria patologica di AD, se rimangono stabili o tornano ai valori normali30.
Una confluenza di risultati suggerisce una interazione tra gli eventi neurobiologici durante gli episodi depressivi e la deposizione di β-amiloide. Si osserva infatti che nei pazienti con esordio precoce della depressione, le modifiche fisiopatologiche durante gli episodi depressivi ricorrenti possono favorire l’accumulo di amiloide nelle regioni del cervello legate alla regolazione dell’umore. Inoltre, i pazienti con una storia di depressione hanno un significativo aumento della produzione di amiloide che predispone a processi neurobiologici, neurodegenerativi, neuroinfiammatori e comporta un’interruzione della connettività funzionale nelle reti coinvolte da depressione.
Ne consegue che l’accumulo di amiloide durante la fase preclinica dell’AD, oltre a essere un fattore di rischio, può comportare depressione come sindrome prodromica che precede il deterioramento cognitivo. Queste considerazioni possono essere importanti in sede di trattamento, dal momento che gli antidepressivi serotoninergici disponibili possono diminuire la produzione e lo sviluppo di nuove placche amiloidi35.
Le recenti scoperte di una revisione sistematica15 e di uno studio prospettico9 indicano che la depressione a insorgenza precoce (prima dei 65 anni) può costituire un fattore di rischio a lungo termine per lo sviluppo di AD mentre l’esordio di sintomi depressivi più recenti (dopo i 65 anni) può riflettere una fase prodromica dell’AD. Anche i risultati di un altro studio, sostengono l’idea che la depressione possa essere un sintomo che prelude l’AD, poiché i pazienti con insorgenza tardiva della depressione manifestano un aumento delle lesioni della sostanza bianca. Per quanto riguarda la diagnosi differenziale tra AD e depressione è importante effettuare una valutazione psicosociale del soggetto. Tra i fattori che possono incidere nello sviluppo di depressione senile vi sono un lutto recente, la mancanza di supporto sociale, disturbi di personalità, condizioni di solitudine e di disabilità. Uno studio longitudinale 20 effettuato su un ampio numero di pazienti ha evidenziato che la presenza di depressione a esordio dopo i 70 anni e la presenza di sintomi depressivi può predire l’insorgenza di una demenza. Tuttavia la presenza concomitante di entrambi questi aspetti è specificatamente predittiva di AD. Questa relazione è mediata dalla percezione soggettiva di una compromissione della memoria, da rimuginio e da contenuti metacognitivi disfunzionali di preoccupazione, indipendentemente dalla presenza di deficit cognitivi oggettivi.
Nel dibattito tra gli studi che considerano la depressione come una malattia che concorre alla patogenesi di AD e le ricerche che invece considerano la depressione come una malattia che preannuncia l’AD, particolarmente interessanti appaiono i risultati di alcune revisioni che hanno fornito prove a sostegno di entrambe le ipotesi, vale a dire che esse non si escludono a vicenda, ma possono essere compresenti10,14,19,21,29. In particolare, alcuni casi potrebbero evidenziare la presenza di un continuum tra depressione in fase avanzata, MCI e demenza10. D’altro canto, una demenza vascolare sembrerebbe associarsi a episodi depressivi ricorrenti14. Per quanto riguarda il trattamento nei casi più gravi è importante prendere in considerazione una terapia antidepressiva29.
In ultima analisi, non è stato possibile comprendere pienamente il problema dell’ipotesi di depressione come reazione al declino cognitivo percepito nelle fasi precoci dell’AD, poiché nel range temporale la letteratura scientifica esaminata ha fornito un solo risultato17.
limiti dello studio
La nostra revisione della letteratura non è stata sufficiente a chiarire completamente i legami tra depressione e successivo sviluppo di AD a causa delle difficoltà metodologiche, dell’eterogeneità e dei risultati spesso conflittuali degli studi. Attraverso un attento esame scientifico di alcuni studi, questa revisione ha determinato prove maggiori a sostegno della tesi di depressione come fattore di rischio per AD.
I limiti di questo studio includono in primo luogo l’impossibilità di definire l’età esatta dei primi episodi depressivi clinicamente significativi per l’AD. In linea generale, le prove fornite sono state contraddittorie. Infatti, mentre in alcuni studi la depressione nei primi anni di vita può agire come un fattore di rischio per la demenza, in altri è stato evidenziato l’esatto contrario. Inoltre, la depressione in età avanzata può essere vista come un prodromo dell’AD. Un altro limite consiste nella mancanza di chiarezza sui meccanismi coinvolti nel rapporto tra depressione come fattore reattivo e AD, poiché la ricerca della letteratura prodotta ha fornito solo un risultato.
Conclusioni
Alla luce di ciò, la futura ricerca in questo campo dovrebbe produrre studi in grado di chiarire l’ipotesi di depressione come fattore di rischio modificabile per l’AD, poiché se la depressione è parte dello stesso processo patologico che produce AD clinica, il suo trattamento interesserà l’esito cognitivo. Tale considerazione appare essere interessante in sede di trattamento, in quanto gli antidepressivi potrebbero modificare i livelli di citochine infiammatorie e quindi si potrebbe intervenire precocemente sulla riduzione della probabilità di evoluzione in AD.
Inoltre sembra necessario non sottovalutare la questione che la depressione e l’AD possano avere un’eziologia in comune. Pertanto, il lavoro di ricerche successive dovrebbe essere incentrato sulla comprensione delle cause neurobiologiche di elevata comorbilità tra depressione e demenza. Una maggiore chiarezza sulle questioni sopra elencate è utile ai fini di una diagnosi differenziale, per identificare gli individui con depressione che andranno a sviluppare AD.
In conclusione, con questo lavoro, si vuole mettere in evidenza la polemica ancora esistente tra la depressione come fattore di rischio prodromico o reattivo per AD. Una migliore comprensione della natura del rapporto tra manifestazioni depressive e AD potrebbe migliorare il trattamento e sviluppare strategie di prevenzione in questa popolazione particolarmente vulnerabile all’AD.
Nel futuro sarebbe auspicabile effettuare un revisione sui fattori di rischio per la depressione, tra cui la metacognizione. Nelle ultime due decadi, si è avuto un crescente interesse per la valutazione della metacognizione nei pazienti con AD37. D’altro canto, rimane ancora poco chiaro il complesso pattern di conservazione e deficit della metacognizione nei pazienti con AD38. Al riguardo, una ricerca ha indagato il ruolo di alcuni fattori di rischio durante dei compiti di codifica e di “appraisal” metacognitivo, tecnica di risonanza magnetica funzionale39. Nei pazienti con AD, differenze individuali nella metacognizione globale potrebbero essere legate all’accuratezza nei singoli compiti basati su abilità metacognitive40.
Rimane ancora controversa la diagnosi differenziale tra demenza e depressione nell’anziano, nonostante i numerosi studi pubblicati negli ultimi anni41. Un aspetto ancora poco considerato, ma che potrebbe rivelarsi utile in fase diagnostica, è la valutazione dei processi metacognitivi che, unitamente alla percezione soggettiva di disturbo di memoria, sembrerebbe rappresentare un fattore prodromico per il disturbo neurocognitivo maggiore. Sarebbe opportuno, quindi, rivolgere in tal senso studi clinici futuri. Infatti, una migliore comprensione della relazione tra AD e depressione potrebbe avere importanti implicazioni cliniche, di ricerca e di prevenzione.
In altri ambiti di ricerca, sia con pazienti affetti da patologie gravi sia con soggetti normali, alcuni studi hanno individuato una relazione tra contenuti metacognitivi disfunzionali e depressione42-46. Se questa relazione venisse confermata anche nell’AD, sarebbe possibile effettuare degli interventi di prevenzione attraverso uno screening che comprenda anche la valutazione metacognitiva e interventi tramite setting di gruppo a tempo limitato47. Nelle fasi avanzate delle demenze, tali approfondite conoscenze potrebbero, inoltre, favorire l’adozione di interventi multidisciplinari di cure palliative48.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.
bibliografia
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