Il contagio e la collusione suicidaria tra terapeuta e paziente

Suicidal contagion and collusion between therapist and patient

GIAN CARLO NIVOLI, LILIANA LORETTU, paolo milia, Greta LUBINO, Maria Noemi SANNA,
FABRIZIA L. NIVOLI, ALESSANDRA M. NIVOLI

E-mail: llorettu@uniss.it
Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Sassari

Riassunto. Lo scopo del presente studio è di illustrare, attraverso la descrizione di casi clinici, le dinamiche del contagio e della collusione suicidaria tra terapeuta e paziente ai fini di una migliore formazione professionale del terapeuta nella valutazione e gestione del rischio suicidario del paziente. Sono descritte tre tipologie di contagio nel rapporto terapeuta-paziente: 1) contagio suicidario dell’ambiente sul terapeuta e sul paziente; 2) contagio suicidario dal paziente al terapeuta; 3) contagio suicidario dal terapeuta al paziente. Sono inoltre descritte quattro tipologie di collusione suicidaria con specifici tipi di paziente: 1) paziente sofferente di una grave malattia fisica; 2) paziente sofferente di un grave disturbo psichico; 3) il paziente manipolatorio; 4) il paziente auto ed etero-aggressivo. Nelle conclusioni è stata evidenziata la necessità del terapeuta di saper adeguatamente riconoscere e gestire il contagio e la collusione suicidaria per una migliore valutazione del rischio suicidario del paziente.

PAROLE CHIAVE: suicidio, contagio suicidario, collusione suicidaria, gestione e valutazione del rischio suicidario.


SUMMARY. The purpose of the present study is to point out suicidal contagion and suicidal collusion describing clinical cases, to improve professional skills in suicidal risk evaluation and management. In suicide contagion we described three typologies of contagion between therapist and patient: 1) suicide contagion of the environment on the therapist and on the patient; 2) suicide contagion of the therapist on the patient; 3) suicide contagion of the patient on the therapist. We described also four typologies of suicidal collusion with specific kind of patients: 1) with patient suffering of physical illness; 2) with patient suffering of a serious mental illness; 3) with manipulative patients; 4) with patient who is aggressive toward himself and toward other people. In conclusion we pointed out the importance of an adequate recognizement and management of suicidal contagion and collusion to decrease patient suicidal risk.

KEY WORDS: suicide, suicide contagion, suicidal collusion, evaluation and management of suicidal risk.

Introduzione
Il paziente suicidario può provocare numerose e differenti reazioni emotive, cognitive e comportamentali nel terapeuta1. Queste reazioni dipendono dall’interazione delle caratteristiche psicosociali del terapeuta con quelle del paziente2,3. Numerosi studi hanno messo in luce le variabili che possono influenzare le reazioni del terapeuta: il suo atteggiamento verso il suicidio, legato alle sue precedenti esperienze4; l’influenza del suo atteggiamento verso i valori della vita5; le sue capacità di controllare e gestire l’amore e l’odio4; la sua abilità professionale nella valutazione del rischio suicidario2. Alcune di queste reazioni del terapeuta non sono utili alla beneficialità del paziente in tema di valutazione e gestione del rischio suicidario2,3. Alcuni autori hanno messo in luce che reazioni emotive del terapeuta al paziente suicidario possono favorire il passaggio all’atto suicidario: un mancato controllo dell’aggressività e della rabbia del terapeuta6; i sentimenti negativi ed espulsori dell’équipe sul paziente7; il ruolo dei sentimenti negativi inconsapevoli verso il paziente da parte dell’équipe di trattamento8; la difficoltà del terapeuta di trattare l’aggressività del paziente suicidario8-10.
Lo scopo del presente studio, nell’ambito di queste reazioni emotive, cognitive e comportamentali del terapeuta, non utili alla beneficialità del paziente, è di illustrare il contagio suicidario e la collusione suicidaria tra terapeuta e paziente, allo scopo di migliorare la formazione del terapeuta nella valutazione e nella gestione del rischio suicidario. La metodologia del presente studio consiste nell’illustrazione di casi clinici, tratti dall’esperienza clinica e forense degli autori, che mettono in luce varie tipologie del contagio e della collusione suicidaria fra terapeuta e paziente. Saranno di seguito descritti il contagio e la collusione suicidaria.
IL CONTAGIO SUICIDARIO
Per contagio suicidario (suicide contagion), si intende quel processo psichico attraverso il quale l’esposizione a un suicidio attuato o tentato o a un comportamento suicidario di una o più persone influenza altri a tentare o a commettere il suicidio5. L’esposizione al suicidio attuato o tentato o a comportamenti suicidari può essere diretta (presenza fisica contemporanea di tutti i protagonisti) o indiretta (attraverso, per es., notizie provenienti dai mezzi della stampa)11. Un’epidemia di suicidi legati a un apprendimento sociale12 (copycat suicide) può essere localizzata (point cluster) quando vi è un aumento di suicidi situato in concomitanza di tempo e luogo (per es., piccole comunità) o “diffuso” (mass cluster) quando è rispettato il parametro temporale ma non spaziale (per es., un’epidemia di suicidi nella popolazione generale in seguito al suicidio di un personaggio noto al pubblico).
Il contagio suicidario è stato reso famoso dal romanzo che Goethe pubblicò nel 1774, “I dolori del giovane Werther”. In quest’opera letteraria, il protagonista Werther, descritto come un giovane eroe, si uccide sparandosi alla testa dopo aver vissuto in modo romantico un amore tribolato e infine non corrisposto con la sua amata, Lotte, fidanzata e poi sposa a un altro uomo. I comportamenti imitativi suicidari che seguirono questo romanzo (“effetto Werther”) furono di entità tale da provocare la censura del libro in numerosi paesi europei 13.
Attualmente, numerosi studi mettono in luce un contagio suicidario, segnalato soprattutto fra i giovani, in relazione, per quanto concerne i giornali quotidiani, alla modalità con cui sono trasmesse al pubblico le notizie di suicidio14-16. In particolare, sono stati messi in luce dalla letteratura più recente i suicidi imitativi di persone in giovane età in seguito a specifiche modalità di comunicazioni di informazioni che aumentano il rischio suicidario (per es., iper-semplificazione dei motivi di suicidio, sensazionalizzazione dell’atto, glorificazione della persona che si è uccisa, ecc.), in relazione a personalità famose17,18 personaggi che pur non essendo famosi hanno avuto il loro caso di suicidio fortemente drammatizzato nei mezzi di comunicazione di massa rispetto all’importanza di altre notizie19-21, spettacoli televisivi in cui era descritto un suicidio22-25, siti internet che valorizzano l’istigazione al suicidio26, casi clinici di “omicidio-suicidio”27,28 o di “patto suicidario”29; assunzione di overdose da parte di gruppi di giovani dediti all’abuso di sostanze stupefacenti22-30. Nonostante questi studi siano numerosi, seppur centrati prevalentemente sulle informazioni diffuse da quotidiani, vi è la necessità di una metodologia scientifica più appropriata quanto a significatività per il loro effettivo ruolo nel contagio suicidario31,32. Sono infatti da considerare in letteratura alcune osservazioni critiche sull’esistenza, sull’entità e sulla distribuzione del contagio psichico33,34 e sulla difficoltà di modificare i fattori psicosociali correlati al suicidio essendo quest’ultimo spesso legato a una dimensione umana di psicologia della “normalità” e non a una psicopatologia di interesse psichiatrico35. A prescindere da queste limitazioni, numerose associazioni scientifiche che dedicano la loro attenzione alla prevenzione del suicidio36 hanno tracciato delle linee-guida che cercano di regolare le modalità di comunicazione del suicidio da parte dei giornali allo scopo di ridurre la quantità del contagio del suicidio tra la popolazione. Secondo queste linee-guida37 gli elementi mediatici che più favoriscono il contagio suicidario sono: a) riferimenti sensazionalistici (servizio in prima pagina soprattutto nella metà superiore, la parola suicidio appare in prima pagina); b) presenza di immagini della vittima o della scena del suicidio; c) la vittima è descritta come eroe. Sempre secondo queste linee-guida l’effetto di contagio suicidario sulle persone più fragili sarà maggiore: a) se sono presenti dettagli sul come e dove il suicidio sia avvenuto; b) se il suicidio è descritto come inspiegabile (per es., il soggetto che si è suicidato aveva tutte le fortune possibili per essere felice); c) se i motivi del suicidio sono presentati sotto l’aspetto romantico (si sono uccisi per essere uniti nell’eternità); d) se i motivi del suicidio sono presentati in modo semplicistico (per es., il ragazzo ha commesso il suicidio a causa della lite con i propri genitori).
Sotto il profilo eziologico il contagio suicidario può essere esaminato attraverso varie teorie che sono alla base del generale comportamento imitativo presso le persone38, dal punto di vista sociologico39 come apprendimento (copycat suicide via social learning), o come uguale reattività delle persone a stessi stimoli (indipendent suicide within a homophilous network)39-41, o dal punto di vista delle varie teorie neurofisiologiche (per es., neuroni a specchio)42.
In ragione dell’importanza che può rivestire il disturbo mentale nel contagio suicidario, è anche utile arricchire le teorie che cercano di spiegare il comportamento imitativo suicidario con la chiarificazione delle possibili dinamiche che spiegano il contagio del disturbo psichico tra le persone. Modalità di contagio del disturbo psichico tra le persone sono contemplate nel DSM-IV TR attraverso il disturbo psicotico condiviso [297.3] e nel ICD-10 (F24) attraverso il disturbo delirante indotto. Si rimanda ai rispettivi manuali statistici e diagnostici dei disturbi mentali 43,44 per l’eziologia, le caratteristiche dei vari soggetti protagonisti; possibili interventi terapeutici e le diagnosi differenziali. Sotto il profilo storico, sempre a proposito del contagio psichico, la “follia a due” (folie à deux) è stata descritta sin dal 188745, e poi più recentemente46 chiarificata nelle seguenti forme: a) follia indotta (due pazienti con una preesistente psicosi adottano parte dei sintomi deliranti dell’altro arricchendo ognuno in questo modo i deliri dell’altro); b) follia comunicata (due individui predisposti sviluppano una psicosi con intervallo di tempo, uno dall’altro); c) follia simultanea (due pazienti, entrambi predisposti a sviluppare una psicosi, sviluppano sintomi produttivi nello stesso momento e nessuna parte sembra essere predominante); d) follia imposta (è la forma più comune nella quale i sintomi di un individuo attivo e dominante vengono adottati da un altro soggetto passivo e suggestionabile). Non è sempre possibile, tuttavia, fare rientrare in modo esauriente la clinica del contagio suicidario, e la sua eventuale integrazione col contagio del disturbo psichico, nelle classificazioni dei manuali statistici e diagnostici, o nelle storiche classificazioni della follia a due, tre, quattro persone, ecc. 47.
Per quanto concerne l’aspetto più specifico del contagio suicidario tra terapeuta e paziente non sono presenti in letteratura studi specifici, metodologicamente controllati, su grandi numeri di casi clinici. Attualmente sono presenti in letteratura numerosi studi che mettono in luce come la reattività emotiva inadeguata del terapeuta può aumentare il rischio suicidario del paziente48-51. Sono altresì presenti studi che descrivono le modalità di trasmissione (contagio) della psicopatologia del paziente al terapeuta52,53. Per esempio, questo contagio si può manifestare attraverso “l’identificazione globale” del terapeuta al paziente. In questi casi il terapeuta incomincia a ritenere che il mondo dello psicotico non sia più estraneo e angosciante, ma sempre più familiare, adeguato alla realtà e degno di essere vissuto. È come se il terapeuta trovasse che il mondo dello psicotico è diventato non solo “normale” ma anche “bello, interessante, creativo” 52,53. Il terapeuta così acriticamente accetta e vive il mondo psicotico, e attraverso processi introiettivi incomincia a “pensare, amare, odiare, e comportarsi come il paziente” assumendone la psicopatologia52. Vi sono anche studi che descrivono le modalità di trasmissione (contagio) della psicopatologia del terapeuta al paziente52-54. Per esempio, questo contagio può manifestarsi attraverso “reazioni collusive complementari”52. La psicopatologia, cioè, del terapeuta può integrarsi con una psicopatologia complementare del paziente e causare reciproci danni psichici. È il caso clinico di un terapeuta con un distorto sentimento di potere e di dominio che può mantenere in terapia e cronicizzare aggravando la psicopatologia di un paziente caratterizzato da una patologia dipendente e regressiva di succubanza.
In questi studi sul contagio del disturbo psichico si tratta, in genere, di terapeuti che soffrono di psicopatologie personali o non hanno raggiunto un buon grado di formazione professionale soprattutto a livello di equilibrio emotivo. Tra questi terapeuti che soffrono di psicopatologie personali ricordiamo quelli che non hanno effettuato una buona revisione interna dei loro sentimenti e comportamenti55, non hanno chiari i propri confini dai confini dei pazienti56, perdono facilmente il loro equilibrio psichico quando si trovano a trattare le psicosi dei pazienti57, manifestano la tendenza nelle situazioni di crisi a identificarsi troppo al paziente50, presentano confini di sé stesso particolarmente “spessi” o eccessivamente “fragili”58, usano agiti psicotizzanti attraverso i loro meccanismi primari sui pazienti53, possono presentare psicopatologie nei confronti dell’asse I, asse II del DSM-IV TR o diagnosi di personalità psicopatiche o antisociali52.
Contagio suicidario dell’ambiente sul terapeuta e sul paziente
Vi sono ambienti di reclusione e di cura (carceri, campi di reclusione, ospedali psichiatrici, ecc.) nei quali la privazione di libertà e le condizioni di vita irrispettose delle più elementari regole di igiene mentale possono favorire sia nei custodi sia nei custoditi una maggiore stimolazione e accettazione del rischio di suicidio, favorendo il contagio suicidario59,60. Riportiamo a titolo di esempio un contagio suicidario in ambiente di ricovero ospedaliero e in ambiente carcerario.
Contagio suicidario in una situazione di ricovero ospedaliero
Nello spazio di tempo di circa un mese tre pazienti si sono uccisi nello stesso reparto ospedaliero di ricovero gestito dalla stessa équipe trattante.






Nella descrizione dei casi che precedono può essere messo in luce, sotto l’aspetto del contagio suicidario, il rinforzo della psicopatologia che l’esposizione a un precedente suicidio (caso P.C.) può esercitare su di un delirio a contenuto di nocumento (caso F.O. “in quest’ospedale ci possono ammazzare”) e l’azione facilitante sulle fantasie liberatorie (caso R.S. “con il suicidio mi tolgo dai guai”) e sulla stimolazione al passaggio all’atto (caso R.S. “se ce l’hanno fatta quelle due vecchiette ce la posso fare anch’io”).
Contagio suicidario in carcere
In carcere nello spazio di tempo di quattro giorni si verificano due suicidi.






Nei casi che precedono è possibile mettere in luce l’aumento del rischio suicidario in relazione al “trauma d’entrata” (caso R.P.) e alla “vertigine d’uscita” (caso R.F.) in ambiente carcerario52. Inoltre, più specificamente per quanto concerne il contagio suicidario è da rilevare come stesse situazioni stressanti di detenzione carceraria possono favorire il suicidio (caso R.P., R.F., C.A.) e l’importanza dei fattori “scatenanti” (caso C.A.: la negazione della prescrizione di psicofarmaci) e di “fantasie rivendicative” (caso C.A.: “il personale di custodia e i medici saranno puniti per il mio suicidio”).
Contagio suicidario dal paziente al terapeuta
In questi casi il desiderio e le motivazioni di uccidersi che sono vissute e verbalizzate dal paziente possono essere uno stimolo che aumenta il rischio di passaggio all’atto suicidario del terapeuta.






Il caso clinico che precede mette in luce la fragilità del terapeuta nei confronti del rischio suicidario (legato anche alla sofferenza per i gravi disturbi fisici, abuso di alcol e per lunghi periodi depressivi), e la sua insufficiente formazione professionale a livello psichiatrico nel gestire il lutto per il suicidio del paziente (a causa della acritica “idealizzazione” delle scelte suicidarie del paziente con il quale condivideva “fantasie suicidarie” del tipo “anch’io penso spesso di uccidermi”).
Contagio suicidario dal terapeuta al paziente
In questi casi il terapeuta che presenta un rischio suicidario contagia e cioè stimola e aumenta il rischio suicidario del paziente. Dalla verbalizzazione di un paziente N.C. a uno psichiatra:
“… mi sono rivolto a lei come psichiatra perché ho bisogno di un consiglio. Io sono in cura per depressione da una psichiatra. Questa psichiatra soffre anche lei di una grave depressione. Tutti sanno che questa psichiatra ha già tentato il suicidio con psicofarmaci e che spesso si assenta dal suo lavoro per settimane a causa della sua depressione. Io ho stima e sono affezionato a questa psichiatra che è anche del mio paese e che mi ha curato con successo per tanti anni. Però adesso questa psichiatra mi ‘fa paura’ … mi parla spesso dei suoi dispiaceri soprattutto a causa di sua figlia che è drogata e a causa di suo marito che l’ha abbandonata per una collega più giovane e più bella e non malata come lei. Questa psichiatra mi ‘fa paura’ perché ha un viso sempre triste. Io cerco di farla sorridere, cerco anche di consolarla. Sicuramente questa psichiatra ha tante paure, tanta depressione e prima o dopo cercherà di uccidersi un’altra volta. Mi dispiacerebbe che la mia psichiatra si uccidesse … vorrei fare qualcosa per lei … io so che lei la conosce questa psichiatra … il cui nome è S.I. … il consiglio che le voglio chiedere e se lei la può aiutare …”.

Nel prosieguo dei colloqui con lo psichiatra il paziente precisa:
“… è vero che io sono venuto a chiedere aiuto per la psichiatra che mi cura, ma è anche vero che io stesso ho paura di uccidermi e ho bisogno di aiuto. L’idea di uccidermi era molto lontana … adesso dopo tutti i colloqui e la frequentazione della mia psichiatra depressa che si vuole uccidere … io percepisco l’idea di uccidermi troppo vicina e pericolosa … A volte mi pare che il colloquio con la dottoressa che mi dovrebbe curare si concluda solo con la frase “la vita non vale la pena di essere vissuta”… e questo mi pare che la dottoressa lo dica con un grande dolore e sofferenza insopportabile per lei ma anche insopportabile per me che la vedo … la ascolto … e mi sento obbligato a provare gli stessi sentimen ti”.
Il caso che precede mette in luce una dinamica di contagio suicidario dal terapeuta al paziente attraverso, in modo prioritario e manifesto, il “ruolo inverso”. Si tratta cioè di un terapeuta che invece di esercitare in modo attivo il suo ruolo di cura e di protezione del paziente assume il ruolo passivo di paziente depresso e suicidario che necessita di aiuto. In questa situazione il paziente, anche lui depresso e suicidario, deve assumersi il ruolo di terapeuta: compito però gravoso e difficile per lui da portare a termine. Per fortuna di ambedue (N.C. e F.I.) il paziente è stato in grado di richiedere e ottenere aiuto da un altro terapeuta.
LA COLLUSIONE SUICIDARIA
Il rapporto tra terapeuta e paziente, per essere terapeutico, deve rispettare la compatibilità relazionale tra i due protagonisti, e cioè la loro capacità di accettarsi, comunicare, comprendere e condividere prospettive e obiettivi61. Questa compatibilità relazionale può essere legata a numerosi fattori tra cui ricordiamo: fattori strutturali (somiglianza culturale che permette, per es., un senso di familiarità); fattori attitudinali (per es., essere capaci di provare empatia l’uno per l’altro); fattori evolutivi (per es., esperienza e maturità professionale che accrescono la capacità di comprendere le altre persone); fattori legati alle caratteristiche psicologiche o psicopatologiche dei protagonisti (per es., possedere tratti di personalità che favoriscono la reciproca comunicazione) 62. Vi possono essere terapeuti e pazienti che presentano dei tratti psicologici o psicopatologici che “incontrandosi, scontrandosi e integrandosi”, e cioè attraverso una loro “collusione”, possono rendere il rapporto non terapeutico e talvolta particolarmente dannoso alla beneficialità del paziente52.
La definizione di collusione tra terapeuta e paziente è complessa e non univoca. È stata messa in luce, per es., «l’attribuzione a vicenda di sentimenti condivisi che inconsciamente costituiscono l’essenza di un processo simbiotico e collusivo […] dove una coppia, in realtà, si riunisce in una sorta di unità […], di confine congiunto all’io»63; «l’illusione reciproca in cui medico e paziente cadono in un vicendevole inganno […] in cui il medico sta dalla parte della malattia del paziente […] gratificando le sue richieste nevrotiche […] e comportandosi esattamente secondo le risposte provocatorie (del paziente)»64; una «paralisi della terapia tra terapeuta e paziente […] per evitare l’emergere di nuclei emotivi perturbanti […] così l’analisi diviene sterile, priva di elementi emotivi pericolosi, ma di fatto inutile e interminabile»49; «la collusione inconscia tra terapeuta e paziente come uno tra gli elementi non utili alla terapia legati alla mancata gestione della controtraslazione del terapeuta»65; una «zona cieca di introspezione del terapeuta» che accetta in modo non utile per il paziente il ruolo che quest’ultimo gli impone66.
La letteratura ha anche fornito esempi clinici concreti di collusione tra terapeuta e paziente. Secondo la teoria dell’attaccamento67 sono state descritti vari tipi di collusione tra terapeuta e paziente68. Per esempio, un terapeuta e un paziente ambedue con stili di “attaccamento insicuro distanziante” imposteranno la loro relazione terapeutica collusiva: a) su un approccio rigidamente tecnico (per es., richiesta eccessiva di esami strumentali, di prescrizione di farmaci, di spiegazioni razionali ma superficiali); b) sull’evitamento di aree problematiche che rimangono poco esplorate (per es., non sono esaminate le difficoltà relazionali, i contenuti delle depressioni, le fantasie suicidarie, i traumi e i lutti irrisolti); c) su di un sistematico distanziamento delle emozioni negative con la tendenza a falsificare tutte le emozioni che possono risultare pericolose per il sé (per es., tutti e due sorridono e scherzano quando affrontano argomenti che possono provocare profonda ansia). Per citare un altro esempio, una collusione tra terapeuta e paziente ambedue con un “attaccamento insicuro preoccupato” tenderà, da parte di entrambi, a: a) mettere in luce solo le emozioni; b) alimentare aspettative di cure eccessive e irrealistiche; c) avere difficoltà nel mantenere la relazione entro i limiti corretti del setting; d) prolungare in modo indefinito i colloqui nel tempo. In quest’ultimo tipo di collusione, dopo un primo periodo in cui terapeuta e paziente si trattano come se fossero grandi e affettuosi amici, segue un secondo periodo in cui si verificano aspri conflitti relazionali con interruzione spesso del rapporto terapeutico 68. La collusione tra terapeuta e paziente è anche stata descritta sulla base di stili e strutture della personalità52. In questo caso le collusioni presentano numerosi contesti dinamici a contenuto prevalente tra terapeuti e pazienti (per es., di tipo persecutorio, simbiotico, di maltrattamento, di stimolazione, di silenzio, di rigetto, di dipendenza, di seduzione, di fantasia, ecc.), che sono di danno alla beneficialità del paziente. Per esempio, se il terapeuta e il paziente presentano ambedue tratti narcisistici, la dinamica prevalente della collusione può essere una forma di competizione in cui il paziente desidera essere considerato “unico, speciale e particolarmente ammirato”. Il terapeuta entra però in competizione con il paziente perché anche lui con tratti narcisistici desidera essere “unico, speciale e particolarmente ammirato”. Tutti e due, terapeuta e paziente, possono soffrire di attacchi di invidia reciproci. Tuttavia, è da precisare che gli elementi psicopatologici della collusione tra terapeuta e paziente non sono rigidi e legati a una sola dinamica (per es., competizione tra narcisisti), ma possono essere comprensivi di varie dinamiche. Per continuare l’esempio precedente, un terapeuta con tratti narcisistici e un paziente con tratti narcisistici possono non solo essere in competizione, ma possono rigettarsi, autovalorizzarsi, stabilire reciproche dipendenze, ecc. Inoltre, il tratto narcisistico, in unione con tratti di personalità diversi (quali borderline, istrionico, ecc.), può contemplare al suo interno dinamiche di base assai varie, come per esempio comportamenti con difficoltà alla separazione e individuazione, alla presenza di falsi sé, a tendenze simbiotiche e fusionali che possono fortemente condizionare l’esito clinico della collusione e la tipologia del danno alla beneficialià del paziente 52.
Nell’ambito della collusione tra terapeuta e paziente, è da considerare un particolare tipo di collusione, e cioè la collusione suicidaria tra terapeuta e paziente: processo per il quale il terapeuta, in modo più o meno conscio, accetta e favorisce il desiderio e il passaggio all’atto suicidario del paziente (pur avendo il terapeuta nessun desiderio suicidario nei confronti di se stesso). Numerosa è la letteratura che ha messo in luce come la reattività inadeguata del terapeuta nei confronti del rischio suicidario possa favorire il passaggio all’atto suicidario del paziente 69. Carente è invece la letteratura sullo specifico tema della obiettivazione clinica della collusione suicidaria tra terapeuta e paziente.
Tipologia delle collusioni suicidarie del terapeuta col paziente
Sono riportate le descrizioni cliniche di quattro tipologie di collusione suicidaria del terapeuta con il paziente.
Collusione suicidaria con il paziente sofferente di grave malattia fisica
Il terapeuta che ha in cura un paziente che presenta gravi malattie fisiche – soprattutto quando queste sono devastanti e destruenti l’estetica del corpo e le sue funzionalità di base più elementari, quando hanno un carattere cronico ingravescente e incurabile, quando queste richiedono trattamenti cronici invasivi, ricchi di dolorosi e invalidanti effetti collaterali – può tendere emotivamente ad accettare e favorire senza ulteriori approfondimenti diagnostici, la volontà e gli agiti suicidari del suo assistito.



Il caso è un esempio clinico di “pseudoempatia”1 del terapeuta in tema di suicidio. Il primo consulente psichiatra non ha esaminato con obiettività e profondità lo stato psichico del paziente e non ha colto che era soprattutto il dolore fisico insopportabile la motivazione più aggredibile terapeuticamente nei confronti del desiderio suicidario. Il primo consulente psichiatra non ha riconosciuto che la sua “pretesa” empatia (“Io al suo posto preferirei morire subito piuttosto che prolungare l’agonia”) in realtà era una pseudoempatia e cioè una proiezione di paure e scelte di vita personali che non erano quelle del paziente. La pseudoempatia deve essere riconosciuta e approfondita in modo critico soprattutto nei casi, ove le leggi lo permettono, di un suicidio assistito 70,71.
Collusione suicidaria con il paziente con grave disturbo psichico
Il terapeuta può essere confrontato con un paziente che presenta un grave disturbo mentale, caratterizzato dagli aspetti più lesivi alla dignità umana e con un livello di qualità di vita e di sofferenza individuale, ritenuto intollerabile e senza possibilità di speranza di guarigione. In questo senso il terapeuta, in modo più o meno inconsapevole, può accettare e favorire, soprattutto attraverso il meccanismo psicologico di difesa della razionalizzazione, la possibilità che il paziente si uccida. In questo senso il terapeuta si può comportare, pur essendone non sempre perfettamente consapevole, in modo omissivo, con le conseguenze concrete di un aumento del rischio suicidario del paziente.



Il caso clinico mette in luce elementi della dinamica di “alienazione maligna terminale”72, caratterizzata del fatto che l’équipe ha sottovalutato il rischio suicidario in un paziente con gravi disturbi psichici e anche fisici che minaccia in modo cronico ma fluttuante (la volontà di uccidersi a volte è presente e a volte è assente), comunicando al paziente una sua non credibilità al livello della messa in atto del suo desiderio suicidario. In particolare, nel caso clinico di R.T., alcuni dei suoi terapeuti hanno verbalizzato in riunioni cliniche di gruppo che “la vita di R.T. non vale la pena di essere vissuta e noi non possiamo restare in stato di allarme perenne per il suo possibile suicidio ogni giorno per la durata di anni”. Questa tipologia di “pazienti cronicamente suicidari” ( chronically suicidal patients)73 non raramente può sollevare nel gruppo di terapeuti sentimenti di essere “ricattati”, “sfruttati”, “ridicolizzati”, che a loro volta stimolano reazioni emotive di aggressività, evitamento e abbandono da parte dei curanti. Il paziente comprende queste reazioni di aggressività, evitamento e abbandono, realizza la delegittimazione dei suoi sentimenti di sofferenza, si sente alienato dal gruppo sociale, aumentando così il suo rischio suicidario. A queste componenti è da aggiungere talvolta una sorta di collusione omissiva di tutta l’équipe nei confronti di un paziente che si dimostra estremamente ansiogeno e disturbante nella gestione tecnico-organizzativa ed emotiva delle attività quotidiane di cura del paziente.
Collusione suicidaria con il paziente manipolatorio
Il terapeuta, nei confronti del paziente che minaccia in modo cronico e manipolatorio il suicidio (e cioè per ottenere benefici economici, agevolazioni lavorative, misure giudiziarie di libertà dalla detenzione o di riduzione della pena, ecc.), può presentare una reattività emotiva inadeguata. Il terapeuta cioè non solo sottovaluta il rischio suicidario, ma anche, seppure in modo non sempre consapevole, può coltivare sentimenti aggressivi verso il paziente. Infatti, questi può essere percepito come “intrusivo”, “disturbatore volontario” e “ingiusto” della tranquillità e professionalità del terapeuta. Quest’ultimo, non necessariamente in modo consapevole, può ridurre le attenzioni di cura e di protezione del paziente, o trattarlo in modo aggressivo, emarginante, colpevolizzante e vendicativo, colludendo con i suoi verbalizzati e agiti suicidari.



Il caso clinico mette in luce la percezione di Z.S. dell’aggressività del terapeuta e delle altre persone presenti al colloquio che nella loro comunicazione globale (anche attraverso il tono, il timbro della voce, le mimiche specifiche e gli atteggiamenti del corpo) non hanno comunicato accettazione, benevolenza, legittimazione e non hanno cercato di mettere in atto un controllo contenitivo del rischio suicidario. Nonostante le informazioni che precedono, non è stato possibile effettuare una diagnosi precisa sulle reali volontà suicidarie di Z.S.: voleva veramente uccidersi o ha voluto mettere in atto un ulteriore agito dimostrativo che si è concluso, contro la sua volontà, col suicidio? È da segnalare che il fragile sgabello di canne su cui Z.S. aveva poggiato i piedi per impiccarsi è stato trovato sfondato, sollevando così il dubbio che Z.S. volesse mettere in atto un ulteriore agito manipolatorio di tentativo di suicidio senza volersi realmente sopprimere. Il caso di Z.S., comunque, sottolinea l’importanza delle reazioni aggressive collusive suicidarie che i terapeuti possono provare nei confronti di pazienti che mettono in atto tentativi suicidari con un fine chiaramente manipolatorio. Eguali reazioni aggressive e collusive suicidarie possono essere stimolate nei terapeuti da quei pazienti che cronicamente si procurano in modo frequente ripetuti autolesionismi non letali, come per esempio tagli, bruciature, piccole mutilazioni, assunzioni di dosi non letali di psicofarmaci, ecc. Questo particolare gruppo di pazienti a rischio suicidario ( low lethality attemper)74 può essere vittima di una sottovalutazione del rischio suicidario e di reazioni emotive inadeguate dei curanti consistenti in una collusione suicidaria caratterizzata da comportamenti omissivi, aggressivi, rivendicativi ed emarginanti.
Collusione suicidaria con il paziente auto ed eteroaggressivo
Il terapeuta può relazionarsi con un paziente a rischio suicidario che si mostra non solo autoaggressivo, ma anche eteroaggressivo. Si tratta di pazienti che presentano la loro suicidalità unitamente a minacce di violenza fisica anche omicidaria verso altre persone. Le vittime minacciate nella loro integrità fisica o di omicidio possono essere il terapeuta e la sua famiglia, i familiari del paziente, il datore di lavoro, rappresentanti di autorità, ecc. Questi pazienti suicidari auto ed eteroaggressivi possono provocare nel terapeuta reazioni emotive inadeguate di rabbia, di collera, di vendetta, ecc., che possono contemplare non solo l’accettazione, ma anche il desiderio nel terapeuta, seppure spesso non consapevole al livello manifesto, che mettano in atto il loro suicidio.



È da rilevare che il sentimento di sollievo che lo psichiatra ha provato dopo il suicidio di O.A. legato alla mancata violenza omicidaria in persona della madre e della sorella, si è accompagnato, prima del suicidio, a un diradamento delle visite di O.A. e poi di un suo trasferimento terapeutico inadeguato a una giovane assistente sociale (il cui scopo era solo quello di provvedere a un sussidio economico). In altri termini, O.A. era stato oggetto di abbandono da parte dello psichiatra con omissione di adeguata cura e protezione nei confronti del pur sempre presente rischio suicidario. Le verbalizzazioni dello psichiatra curante dopo il suicidio di O.A. sono un’ulteriore conferma della “collusione suicidaria omissiva” e cioè del fatto che il terapeuta era d’accordo e accettava che il paziente si uccidesse, seppur attraverso il meccanismo psicologico di difesa della razionalizzazione (“Meglio che si uccida solo il paziente piuttosto che il paziente si uccida dopo aver ucciso due persone innocenti come la madre e la sorella”).
CONCLUSIONI
Il contagio suicidario e la collusione suicidaria fra terapeuta e paziente sono temi che presentano una grande complessità e difficoltà metodologica per essere definiti e valutati nella loro obiettività sia sul piano clinico sia su quello forense. Inoltre, la difficoltà a delimitare con obiettività fantasie, desideri e intenzionalità suicidarie, nel paziente e nel terapeuta, accresce ancora la complessità della valutazione del rischio suicidario nelle sue componenti multifattoriali di tipo biologico, psichiatrico, psicologico, sociale e culturale. Nonostante i limiti che precedono è possibile formulare alcune riflessioni, utili sotto il profilo dell’intervento clinico nella valutazione e gestione del rischio suicidario.
1. Sensibilità del terapeuta al contagio suicidario: è utile che il terapeuta sia attento e consapevole degli ambienti di cura e alla specifica suggestionabilità del paziente, in tema di passaggio all’atto suicidario, come è stato descritto, nel contagio suicidario dell’ambiente sia sul terapeuta sia sul paziente e nel contagio suicidario reciproco che può avvenire tra paziente e terapeuta.
2. Sensibilità del terapeuta alla collusione suicidaria: è utile che il terapeuta sia anche in questo caso attento e consapevole delle sue reazioni emotive, cognitive e comportamentale nel caso di pazienti sofferenti di gravi malattie fisiche o gravi disturbi psichici, di pazienti manipolatori, di pazienti che manifestano contemporaneamente auto ed eteroaggressività. In questi casi comportamenti compiacenti, omissivi o aggressivi del terapeuta potrebbero aumentare il rischio suicidario del paziente.
Sarà compito di ulteriori studi un esame qualitativo e quantitativo più approfondito sulla realtà clinica del contagio e della collusione suicidaria, e della sua valutazione più specifica e approfondita in rapporto alla gestione del rischio suicidario del paziente da parte del terapeuta.
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