Eventi di perdita e lutto complicato: verso una definizione di disturbo
da sofferenza prolungata per il DSM-5

Bereavement and complicated grief: towards a definition of Prolonged Grief Disorder for DSM-5
LUIGI LOMBARDO1, CARLO LAI2, MASSIMILIANO LUCIANI3, EMANUELA MORELLI1,
ELENA BUTTINELLI
1, PAOLA ACETO4, SILVIA LAI5, MARIANNA D’ONOFRIO6, FEDERICO GALLI1,
FERNANDO BELLIZZI
1, ITALO PENCO7
E-mail: luigilombardo@virgilio.it
1Servizio di Psico-oncologia, “Fondazione Roma” Hospice-SLA-Alzheimer, Roma
2Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, Sapienza Università di Roma
3Istituto di Psichiatria e Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
4Istituto di Anestesiologia e Rianimazione, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
5Dipartimento di Medicina Clinica, Sapienza Università di Roma
6Dipartimento NESMOS, Azienda Ospedaliera S. Andrea, Roma
7Direzione Sanitaria, “Fondazione Roma” Hospice-SLA-Alzheimer, Roma

RIASSUNTO. Il lutto è una risposta naturale a una perdita e una condizione che molte persone sperimentano diverse volte nell’arco della propria vita. La maggior parte degli individui riesce ad affrontare in modo adeguato la perdita di una persona cara e a raggiungere un buon adattamento; tuttavia, una piccola ma significativa percentuale di soggetti in lutto va incontro a una sindrome caratterizzata da un prolungato distress psicologico correlato alla perdita. Questa condizione, caratterizzata da disturbi sul piano psicologico e somatico, è stata definita “lutto complicato” o “disturbo da sofferenza prolungata”. Scopo di questo lavoro è di analizzare la letteratura riguardante la perdita e il lutto facendo una rassegna dei principali studi pubblicati fra il 1993 e il 2013 individuati tramite una ricerca condotta su Medline/PubMed, al fine di descrivere gli aspetti epidemiologici e clinici del lutto “normale” e del lutto “complicato”, sottolineando il percorso di definizione clinica del disturbo da sofferenza prolungata (prolonged grief disorder) e i criteri diagnostici proposti per la sua inclusione nella prossima edizione del DSM-5. Viene inoltre effettuato un raffronto fra i due principali modelli di criteri diagnostici proposti da Horowitz e Prigerson.

PAROLE CHIAVE: evento perdita, lutto non complicato, lutto complicato, lutto traumatico, lutto patologico, cordoglio, cure palliative, disturbo da sofferenza prolungata, patologia oncologica terminale.


SUMMARY. Mourning is a natural response to a loss and a condition which most people experience several times during their lives. Most individuals adjust adequately to the loss of a relative, neverthless, a small but noteworthy proportion of bereaved individuals experience a syndrome of prolonged psychological distress in relation to bereavement. Prolonged distress and disability in connection with bereavement has been termed Complicated Grief (CG) or Prolonged Grief Disorder (PGD). The purpose of this paper is to analyze the literature on loss and mourning making a review of the main studies published between 1993 and 2013, identified through a search conducted on Medline/PubMed, in order to describe the epidemiological and clinical aspects of “normal” grief and “complicated” grief, pointing out the path of the clinical definition of PGD and proposed diagnostic criteria for inclusion in the next edition of the Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders, Fifth edition (DSM-5). The two main diagnostic systems proposed by Horowitz and Prigerson are also compared.

KEY WORDS: bereavement, uncomplicated grief, complicated grief, traumatic grief, pathological grief, mourning, palliative care, prolonged grief disorder, terminal cancer illness.

Introduzione
La perdita di una persona cara costringe ogni individuo che ne fa esperienza ad affrontare un percorso di sofferenza, che assume caratteristiche assolutamente soggettive dipendenti da «costrutti, aspettative e motivazioni proprie del mondo interno dell’individuo»1 nonché dalla personalità e dalla storia di vita, dal contesto sociale e culturale e dalla rilevanza simbolica della perdita2. Questa tipologia di accadimento rientra fra le “transizioni psicosociali”3, cioè eventi in grado di determinare cambiamenti permanenti, che necessitano di un processo di adattamento e di profonda ristrutturazione del mondo interno dell’individuo. Questo processo, definito “elaborazione del lutto”, culmina, nella maggior parte dei casi, in una fase di riorganizzazione, ovvero di accettazione della nuova realtà e di collocazione affettiva della persona deceduta in un luogo interno, meno doloroso e più utile a una riapertura dei contatti con il mondo esterno 4. Se la maggior parte degli individui possiede sufficienti risorse interiori e adeguato sostegno sociale per affrontare in modo adattivo questa fase della vita, un certo numero di soggetti risulta più vulnerabile e può correre il rischio di sviluppare disturbi somatici o mentali duraturi fra cui un quadro di lutto complicato5.
Ricordiamo che, mentre nella lingua italiana la parola “lutto” (dal latino lugere) indica la condizione dell’“essere in lutto, del portare il lutto” come conseguenza del “cordoglio” (dal latino cordolium= provare dolore), nella lingua inglese è possibile distinguere il termine bereavement con riferimento alla perdita di una persona per decesso, il termine grief, che indica i comportamenti e i sentimenti soggettivi conseguenti a una perdita e il termine mourning, che si riferisce alle espressioni sociali in risposta alla perdita e al cordoglio, inclusi i rituali e i comportamenti peculiari di ogni cultura e religione6,7. I tre termini riassumono, quindi, le tre componenti che entrano in gioco nell’esperienza del lutto: 1) la presenza di un “evento perdita”; 2) le “risonanze” soggettive legate all’evento; 3) gli aspetti socio-culturali che intervengono modulando le caratteristiche e gli esiti dell’esperienza stessa.
Scopo del presente lavoro è quello di procedere a un’analisi della letteratura specialistica relativa alla perdita e al lutto con lo scopo di descrivere gli aspetti epidemiologici e clinici del lutto “normale” e del lutto “complicato”, sottolineando il percorso di definizione del quadro clinico del prolonged grief disorder (PGD) e dei criteri diagnostici proposti per la sua inclusione nella nuova edizione del Diagnostic and Statistic Manual of Mental Disorders, Fifth Edition (DSM-5).
MATERIALI E METODI
Il presente articolo effettua una rassegna dei principali studi pubblicati fra il 1993 e il 2013 riguardanti le tematiche della perdita e del lutto “normale” e “complicato”. Gli studi selezionati sono stati individuati attraverso una ricerca effettuata in Medline/PubMed usando come parole chiave: “bereavement”, “uncomplicated grief”, “complicated grief”, “traumatic grief”, “pathological grief”, “mourning”, “palliative care”, “prolonged grief disorder”, “terminal cancer illness”. La ricerca eseguita ha permesso di identificare 70 studi sperimentali. Sono stati consultati, inoltre, 18 studi di rassegne e meta-analisi, 5 capitoli di libro e “classici” sull’argomento come gli scritti di S. Freud, J. Bowlby, C.M. Parkes, E. De Martino e F. Campione.
TEORIE PSICOLOGICHE SUL PROCESSO DEL LUTTO
Nell’arco dell’ultimo secolo, diverse sono state, in psicologia, le scuole di pensiero che si sono occupate di studiare e definire il fenomeno del lutto. È possibile, pertanto, individuare alcune principali teorie di riferimento: la teoria psicoanalitica, la teoria biologica o interpersonale, la teoria esistenziale e quella della crisi o post-traumatica.
Nella teoria psicoanalitica, viene affrontato per la prima volta il tema del lutto nel lavoro di S. Freud Lutto e melanconia, del 19158. Per Freud, la perdita dell’“oggetto” determina un processo, definito “lavoro del lutto”, attraverso il quale l’energia psichica precedentemente investita sull’oggetto viene gradualmente ritirata verso l’Io (temporanea regressione narcisistica) e successivamente reinvestita verso nuovi oggetti. Ciò implica un percorso a tappe attraverso il quale il soggetto in lutto trasforma l’assenza esterna dell’oggetto in presenza interna.
La prima fase è caratterizzata da una ricerca spasmodica dell’oggetto perduto. Per Freud, comportamenti quali il ricordare, il tornare in luoghi consueti, il rivedere immagini, il risentire musiche che ricordano il defunto, avrebbero un carattere difensivo di “negazione” della perdita, per cui la ricerca della persona cara scomparsa non avrebbe lo scopo di ritrovarla, ma di difendersi negando questa consapevolezza. In una fase successiva, l’emergere della rabbia, dei sensi di colpa e della depressione segna il passaggio alla messa in atto di difese meno arcaiche rispetto alla negazione. Una fase ulteriore prevede il graduale disinvestimento libidico dall’oggetto d’amore perduto (ritiro libidico) che apre alla possibilità di concepire un processo di “riparazione” della perdita subita; ciò permetterebbe di far rivivere dentro di sé l’oggetto d’amore perduto attraverso un’identificazione idealizzante con la persona deceduta (introiezione). L’ultima tappa del lavoro del lutto prevede che la libido disinvestita dall’oggetto d’amore perduto possa finalmente rendersi disponibile ad altri investimenti oggettuali.
La teoria biologica o interpersonale è basata su un fondamento teorico definito dagli studi di J. Bowlby9-11 e di C. M. Parkes1,3,7 che hanno come riferimento la “teoria dell’attaccamento”. In questo approccio, il mondo intrapsichico dell’individuo è messo in secondo piano, mentre prevale l’aspetto dell’adattamento all’ambiente e dell’istinto che ha come fine l’autoconservazione dell’individuo in lutto (approccio etologico). La morte rompe quel legame di attaccamento che svolge un ruolo fondamentale nella vita di relazione dell’individuo. Anche in questo caso è possibile distinguere una serie di fasi successive: a) fase di stordimento: caratterizzata da una forma di anestesia o disorganizzazione che porta il soggetto a non registrare l’evento morte che risulterebbe eccessivamente doloroso, inaccettabile e incomprensibile; b) fase di ricerca e struggimento: a una ricerca spasmodica della persona scomparsa si associano frequentemente reazioni di rabbia e di amarezza che possono essere generalizzate oppure orientate in modo preciso verso familiari, medici o quanti provino a proporre un intervento di conforto e sostegno; c) fase di disorganizzazione e disperazione: ai disturbi somatici (sonno e alimentazione) si associano tendenza all’isolamento e vissuti di profonda solitudine e depressione; d) fase di riorganizzazione e risoluzione: si caratterizza per un graduale e a volte lento recupero delle relazioni interpersonali e degli interessi sociali e presuppone la capacità di rinunciare definitivamente alla possibilità di recuperare la persona perduta per rivolgersi alla costruzione di nuovi legami. L’individuo che subisce la perdita di una persona che soddisfaceva il suo bisogno di attaccamento si trova dunque ad affrontare una condizione di crisi che mette in questione la sua stessa sopravvivenza e che rende necessario ridefinire le assunzioni che fa su di sé e sul mondo per affrontare un radicale cambiamento degli atteggiamenti e dell’“identità”, condizione, questa, irrinunciabile per riconoscere e definire nuovi legami di sopravvivenza 6.
La prospettiva esistenziale del lutto può essere ben rappresentata dalle riflessioni e dagli studi proposti da F. Campione12. Riprendendo il pensiero dell’antropologo E. De Martino, Campione propone una teoria esistenzialistica del lutto in base alla quale la perdita di una persona cara mette in crisi il senso della vita (crisi della “presenza”) da intendersi non in termini meramente biologici e soggettivi, ma in termini di «senso che noi stessi abbiamo edificato e continuiamo a edificare culturalmente nella e con la nostra storia»13. Il percorso del lutto deve dunque permettere di recuperare il senso perduto, di far “passare nel valore” la morte della persona cara e di darle un senso, accettando di “poter dimenticare” i propri morti, rinunciando a farli rivivere nel nostro presente e accettando di farli morire in noi culturalmente, collocandoli nel passato. Solo a queste condizioni il processo di “crisi” che il lutto rappresenta può portare a una risoluzione in grado di favorire una ricostruzione e un’apertura a nuove relazioni e a nuovi cambiamenti affettivi e cognitivi.
Secondo la teoria della crisi (o teoria post-traumatica), che ha in Horowitz14 uno dei più autorevoli rappresentanti, il lutto è una delle condizioni di vita più stressanti per l’individuo e si associa a conseguenze sul piano psichico e somatico. Il processo di elaborazione del lutto consiste dunque nell’attraversare gradualmente una serie di fasi di “adattamento alla perdita” (intensa protesta, rifiuto, elaborazione e completamento).
LUTTO “NORMALE” O “NON COMPLICATO”
Il lutto è una risposta naturale a una perdita. Gli studiosi di problematiche relative alla perdita e al cordoglio sostengono che l’esperienza del distacco differisce da persona a persona e può essere poco utile, dal punto di vista clinico, giudicare come patologiche le reazioni psicologiche di un individuo, soprattutto nelle fasi iniziali del lutto. È necessario, invece, riconoscere una notevole variazione e fluidità del fenomeno, che può differire in modo considerevole in termini di intensità e durata in riferimento anche al gruppo culturale di appartenenza 15,16. Il vissuto del lutto non è una condizione di “stato” ma si sviluppa attraverso un “processo” che prevede un andamento “a singhiozzo” o per “alti e bassi” con l’attenzione del soggetto oscillante fra momenti di maggiore consapevolezza e momenti di diniego o rimozione circa la dolorosa realtà della perdita. In questo contesto, lo spettro di disturbi sul piano emotivo, cognitivo, sociale e comportamentale è piuttosto ampio, variando da alterazioni appena percettibili a profondi stati di angoscia e di comportamento disfunzionale 17. Shock, angoscia, rabbia per la perdita, senso di colpa, rammarico, ansia, paura, senso di solitudine, infelicità, depressione, immagini intrusive, depersonalizzazione e sensazione di essere sopraffatti sono solo alcuni dei vissuti spesso descritti da quanti affrontano il lutto. Nelle fasi iniziali, questi sentimenti di angoscia e disperazione possono sembrare onnipresenti, ma presto si trasformano in “ondate” o “esplosioni” intermittenti, inizialmente non provocate, in apparenza, da particolari stimoli e, nelle fasi più avanzate, sollecitate da ricordi specifici della persona deceduta. Questa esperienza può essere vissuta come sconcertante o spaventosa tanto che un certo numero di persone in lutto può mettere in atto reazioni di evitamento o esercitare un ipercontrollo sullo stimolo-ricordo. Tuttavia, nel lutto “non complicato”, l’esperienza del dolore si mescola e alterna a sentimenti positivi, senso di sollievo, gioia, pace e serenità che possono paradossalmente evocare, a loro volta, emozioni negative quali senso di colpa o di slealtà nei confronti della persona cara deceduta. La presenza, comunque, di sentimenti positivi nei sei mesi successivi alla morte viene considerata come un segno di resilienza e associata a una prognosi positiva nella risoluzione del lutto 18,19.
Dal punto di vista dell’evoluzione clinica, possono quindi essere riconosciute due fasi di lutto normale. La prima forma, detta “lutto acuto” (acute grief), si verifica nelle fasi immediatamente successive alla morte e può essere caratterizzata da un’intensa esperienza di sofferenza accompagnata da comportamenti ed emozioni considerati inusuali dallo stesso soggetto in lutto, quali: profonda tristezza accompagnata da crisi di pianto, disforia, intensa preoccupazione associata al ricordo della persona deceduta, disturbi neurovegetativi, difficoltà di concentrazione, disinteresse nei confronti dei rapporti sociali e delle normali attività quotidiane. La fase più tardiva, detta “lutto integrato” o “costante” ( integrated o abiding grief) è caratterizzata dal fatto che la persona deceduta viene ricordata con maggiore facilità nonostante la tristezza legata all’assenza.
Il passaggio dalla fase acuta a quella del lutto integrato viene operato entro i primi mesi dalla morte. Le ferite morali provocate dalla perdita cominciano a guarire e gradualmente la persona in lutto riprende una vita di relazione appagante insieme alle sue normali attività, mentre la persona deceduta, lungi dall’essere dimenticata, può essere integrata nella propria memoria e introiettata. Tuttavia, nel percorso fisiologico di risoluzione del lutto possono non mancare dei momenti di riacutizzazione della sintomatologia in corrispondenza di eventi significativi come ricorrenze, festività, anniversari, compleanni, altri lutti, o durante periodi particolarmente stressanti 20.
Il lutto non complicato solitamente evolve spontaneamente verso la risoluzione entro un anno dalla morte e non ci sono evidenze cliniche che esso richieda particolari interventi terapeutici di tipo psicologico21-23.
LUTTO “COMPLICATO”
Aspetti epidemiologici
Il lutto complicato è un prolungamento del normale processo del lutto che produce effetti negativi sulla salute fisica e mentale influenzando fortemente la qualità della vita dei soggetti in lutto e dei loro familiari. Gli studi epidemiologici che hanno esaminato la prevalenza del lutto complicato sono pochi e presentano dati eterogenei. La prevalenza evidenziata sulla popolazione generale varia tra il 3,7%24 e il 4,8%25. La prevalenza studiata su popolazioni specifiche quali quelle costituite da soggetti in lutto mette in evidenza percentuali variabili tra il 10%19, il 20%23,26,27 e il 25%25,28. Uno studio italiano di screening effettuato su un campione di familiari di pazienti oncologici in fase terminale ricoverati in hospice ha messo in evidenza una percentuale di rischio medio/alto di sviluppare un quadro di lutto complicato pari al 52,5%29.
Fattori di rischio
Sebbene i meccanismi che stanno alla base del lutto complicato risultino ancora non completamente chiariti, diversi sono, in letteratura, gli studi volti a individuare quelle variabili in grado di favorire lo sviluppo di un quadro di lutto patologico. La conoscenza di specifici fattori di rischio può consentire, infatti, già durante la fase del lutto anticipatorio, la messa in atto di interventi di screening volti all’identificazione di pattern disfunzionali e a predisporre adeguati interventi supportivi 30.
Un interessante esempio di studio multicentrico è stato effettuato negli USA nel 200331 mettendo a punto un questionario, il Bereavement Risk Questionnaire, che utilizzando una scala a quattro punti (0= non rischio, 3= rischio elevato) ha permesso di valutare 19 potenziali fattori di rischio per il lutto complicato. Proponendo il questionario ai coordinatori dei servizi di assistenza al lutto di ben 508 hospice statunitensi ed elaborando i dati provenienti da 262 di essi, è stato possibile individuare i seguenti fattori di rischio per i caregiver: percezione di una mancanza di supporto sociale (70%); storia di abuso di droga o alcool (68%); scarse capacità di coping (68%); storia clinica di malattie mentali (67%); giovane età del paziente (63%).
Studi più recenti hanno consentito di approfondire la conoscenza di alcuni dei fattori sopra riportati e di individuarne altri, classificabili in alcune grandi aree. La prima include le variabili demografiche riguardanti il soggetto impegnato nell’attività di caregiving (genere, ruolo svolto nell’assistenza, caratteristiche e durata della malattia, luogo di degenza del paziente)32,33. In particolare, il genere femminile, la condizione di coniuge o figlia e la mancanza di un supporto familiare espongono al rischio di sviluppare quadri di ansia grave, depressione e lutto complicato29,34-39, laddove un lungo periodo di durata della malattia e un’assistenza effettuata in regime di ricovero in hospice possono contribuire a ridurre il rischio37.
Un secondo gruppo di potenziali fattori di rischio è rappresentato dagli aspetti attinenti alla struttura di personalità, ai meccanismi di difesa, agli stili di attaccamento del caregiver e alla qualità della relazione con il morente o con la persona deceduta2,32,33. Gli studiosi della teoria dell’attaccamento si stanno interrogando su quanto, all’interno di coppie la cui qualità del legame è improntata a uno stile di attaccamento insicuro, questo possa ridurre o amplificare il distress nelle relazione di coppia e predisporre o meno le caregiver a un rischio di sviluppare un lutto complicato, soprattutto quando il paziente in fase terminale è un uomo con modalità evitanti39,40. Studi effettuati sul ruolo dello stile di attaccamento evitante, invece, presentano risultati contraddittori; se da una parte l’associazione di variabili di personalità quali la presenza di nevrosi, ansia e stile di attaccamento evitante risultano significativamente correlate con la severità dei sintomi di un lutto complicato42, dall’altra, uno stile di attaccamento evitante associato a bassi livelli di ansia, favorisce, nel contesto di relazioni coniugali caratterizzate da un’alta qualità degli affetti, una marcata riduzione dei sintomi di un lutto complicato. Questo effetto non risulterebbe presente nei/nelle partner in lutto di quelle coppie la cui qualità della relazione affettiva era stata scadente, sottolineando, dunque, l’importanza di questo fattore nella modulazione del processo di elaborazione del lutto 43. Altri studi sottolineano che fattori quali comportamenti improntati all’evitamento dei ricordi della persona scomparsa44, ancor più se associati a un’interpretazione “catastrofica” della reazione alla perdita45, sono correlati a sintomi depressivi e di lutto complicato più gravi e persistenti nel tempo.
Anche l’alessitimia, con le difficoltà che comporta nell’identificazione ed espressione dei sentimenti e con la tendenza ad assumere un pensiero “orientato verso l’esterno” (pensiero concreto) sembra essere un fattore di rischio nello sviluppo del lutto complicato38,46,47.
Altri aspetti attinenti alla personalità e alla struttura del Sé possono costituire fattori di rischio nel prolungare il lutto e ritardarne l’elaborazione: la presenza di bassi livelli di autostima associati a uno scarso “concetto di sé”48; la percezione soggettiva di una ridotta capacità di controllo rispetto al raggiungimento di obiettivi personali specifici49 e in generale la presenza di scarse prospettive riguardo al proprio futuro dopo la perdita50; un’elevata tendenza a reagire negativamente a situazioni che prevedono la necessità di tollerare gli imprevisti e il distress emozionale conseguente alla perdita di una persona amata51 soprattutto se questa costituiva un elemento centrale e fondante della vita e dell’identità stessa della persona il lutto52; la tendenza a mantenere un legame stretto ed esclusivo con la persona deceduta associato alla difficoltà di ridare senso alla perdita in termini personali, pratici, esistenziali o spirituali53.
Infine, un recente studio francese ispirato al modello psicobiologico del temperamento e del carattere a 7 fattori di Cloninger54 ha riscontrato una correlazione fra alto rischio di lutto complicato e alcune dimensioni del carattere, quali: un elevato livello di “autodirettività” (self-directedness), ossia di autonomia e scarso attaccamento agli altri e un elevato livello di “autotrascendenza” (self-transcendence), ossia di identificazione di se stessi come parte integrante di un “tutto” (per es., l’universo) associate a un basso livello di “cooperatività” (cooperativeness), cioè di bassa percezione di sé quale parte integrante di un gruppo sociale inclusivo nel quale mettere in gioco altruismo ed empatia55.
Sintomatologia
Se, come già affermato in precedenza, la maggior parte dei soggetti che hanno subito una perdita riesce ad affrontarla e ad andare incontro, nell’arco di tempo di circa un anno, a una risoluzione del lutto, alcuni individui sviluppano una grave reazione a lungo termine che assume le caratteristiche di uno stato di cordoglio cronico56 risultante, sul piano clinico, da una mancata evoluzione dalla fase del “lutto acuto” a quella del “lutto integrato”, per cui il lutto acuto si prolunga nel tempo per un periodo almeno pari o superiore ai sei mesi o per un tempo indefinito19.
Dal punto di vista fenomenologico, la sintomatologia del lutto complicato comprende due cluster di sintomi:
– sintomi relativi al distress da separazione: intenso struggimento; desiderio della persona amata; emozioni dolorose; costante stato di preoccupazione legato al ricordo della persona scomparsa;
– sintomi da distress post-traumatico: pensieri ricorrenti e intrusivi circa l’assenza della persona deceduta; senso di incredulità riguardante la morte; rabbia e amarezza; frequente tendenza all’evitamento dei ricordi associati al dolore della perdita.
I soggetti che sperimentano un lutto complicato possono percepire se stessi come intrappolati in un loop di sintomi che finiscono per diventare il punto focale dell’esistenza e che rendono loro difficile concentrarsi su altro, coinvolgersi in altre relazioni interpersonali e impegnarsi in attività potenzialmente compensatorie. Essi possono percepire il proprio lutto come strano, spaventoso e perfino vergognoso, o possono pensare che la propria vita sia ormai finita e senza prospettive o che sia comunque destinata a essere accompagnata incessantemente da un dolore intenso e senza fine. Di contro, alcuni soggetti in lutto complicato, vorrebbero che il cordoglio non avesse mai fine e pensano che ricominciare a gioire della propria vita significherebbe tradire la persona amata. Possono conseguirne forme di comportamento disadattivo consistenti in un iper-coinvolgimento in attività in qualche modo legate alla persona scomparsa associato a una tendenza all’evitamento di persone solitamente vicine. La persona in lutto può finire per chiudersi in un mondo fatto di pensieri e sogni riguardanti il defunto, di continue visite al cimitero, di un’incessante attività di riordino di oggetti o indumenti appartenuti alla persona scomparsa, di evitamento o rimozione di situazioni che riportano alla mente il fatto che la persona amata non c’è più 19,20,23,27,56,57.
Quando questi sintomi perdurano a lungo, finiscono, dunque, per impattare significativamente sulla «qualità della vita» (QoL) e sul «funzionamento» della persona in varie aree dell’esistenza, cronicizzandosi19.
Il lutto complicato può provocare importanti effetti anche sulla salute fisica e alcuni studi hanno documentato un disturbo cronico del sonno58,59 e un incremento del rischio di sviluppare patologie oncologiche, patologie cardiache, ipertensione60.
Sul piano psichiatrico, il lutto complicato si può associare a comportamento disorganizzato61, abuso di sostanze e comportamenti autodistruttivi con un alto tasso di ideazione suicidaria o ripetuti tentativi di suicidio62,63, in particolare nei soggetti con disturbo bipolare64. Dal punto di vista clinico, inoltre, il lutto complicato, così come si presenta alla luce dei più recenti studi, pone il problema di stabilire un rapporto con altre patologie psichiatriche e di operare una diagnosi differenziale rispetto a esse65. Per quanto riguarda la comorbilità con quadri di depressione maggiore, risulta che il lutto complicato contribuisce a determinare una maggiore severità della sintomatologia depressiva e un peggiore livello di funzionalità rispetto a quanto accada in soggetti depressi che non vivono questa esperienza66 ed è responsabile di una più alta prevalenza di dipendenza da alcool, di una più alta esposizione a eventi traumatici e di una più bassa percezione del supporto sociale. Inoltre, è stato verificato che nelle donne (ma non negli uomini) con depressione maggiore e lutto complicato sono riscontrabili più alti tassi di disturbo da attacchi di panico (DAP), di ansia sociale e disturbo post-traumatico da stress (DPTS)67. In tema di correlazione fra eventi di perdita, ansia da separazione, depressione, lutto complicato e DPTS, diversi studi sostengono, da una parte la necessità di operare una distinzione fenomenologica fra i sintomi di questi quadri clinici68-71 riconoscendo un’autonomia nosografica al lutto complicato (o prolonged grief disorder), e dall’altra di approfondire i complessi rapporti di comorbilità che intercorrono fra di essi. Uno studio danese effettuato su soggetti con un’età media di 71,5 anni ha messo a confronto un campione di vedove e vedovi anziani in lutto prolungato con un gruppo di casi controllo rappresentato da soggetti anziani sposati che avevano comunque avuto almeno un’esperienza di perdita significativa. I risultati hanno confermato che la perdita di un coniuge in età avanzata può produrre degli effetti traumatici in grado di perdurare oltre i 18 mesi e che la frequenza di DPTS nel gruppo di soggetti anziani in lutto risulta più alta rispetto ai soggetti del gruppo di controllo (16% vs 4%) e tende a rimanere stabile nel tempo 72. Gli stessi autori hanno messo in evidenza, attraverso un’analisi fattoriale, una considerevole sovrapposizione fra alcune dimensioni del lutto complicato e il DPTS, soprattutto riguardo l’intrusività di pensieri e immagini73. Concludiamo citando un recente studio italiano i cui risultati confermano una frequente comorbilità fra depressione maggiore e lutto complicato, mentre un disturbo bipolare si riscontra più frequentemente in soggetti che presentano un quadro di lutto complicato associato a DPTS. Infine, soggetti con lutto complicato associato a DPTS riportano più alti livelli di ansia da separazione se confrontati con soggetti che presentano soltanto un quadro di lutto complicato o di DPTS 74.
Due modelli di criteri diagnostici a confronto
Negli ultimi due decenni si è sviluppato un interessante dibattito scientifico sui temi della perdita e del lutto che ha condotto alla graduale definizione di criteri diagnostici per quadri patologici via via nominati “traumatic grief”75-77, “pathological grief”78,79, “complicated grief”77,80 fino ad arrivare a quello che oggi viene proposto come PDG per il DSM-5, traducibile in italiano come “disturbo da sofferenza prolungata”81.
I due gruppi di lavoro che hanno contribuito in maniera più autorevole a proporre differenti set di criteri diagnostici sono stati quelli diretti da Horowitz e dalla Prigerson.
Horowitz ha studiato, a 6 e 14 mesi dalla perdita, soggetti in lutto utilizzando gli item del Complicate Grief Module (CGM)78,82-84, una lista di 30 sintomi di lutto complicato valutati in forma di domande riguardanti tre categorie di sintomi correlati alla perdita: sintomi intrusivi; comportamento evitante e segni di difficoltà o mancato adattamento alla perdita, costituenti i criteri diagnostici illustrati nella Tabella 1.
Il gruppo della Prigerson sviluppò inizialmente un proprio strumento di valutazione, l’Inventory of Complicated Grief (ICG)77 e successivamente un questionario di 32 item dotato di una più alta consistenza interna, l’Inventory of Traumatic Grief-Revised (ITG-R). Grazie a questo strumento furono sviluppati consensus criteria75,77,80,86,87 alla base del set di criteri diagnostici riportati nella Tabella 2. 
Un confronto fra i due modelli di criteri diagnostici permette di evidenziare le seguenti differenze:
– Horowitz, a differenza di Prigerson, non considerava il distress da separazione come un criterio essenziale;
– Horowitz sottolineava l’importanza dell’intervallo di 14 mesi dal momento della perdita alla diagnosi, mentre Prigerson richiedeva soltanto 2 mesi (dall’insorgenza dei sintomi);
– solo Horowitz prendeva in considerazione la presenza di disturbi del sonno e l’evitamento dei ricordi;
– soltanto Prigerson includeva fra i criteri diagnostici la solitudine, il distacco emotivo, l’identificazione con la persona deceduta, l’incredulità, lo sconvolgimento della visione della vita, la rabbia;
– sebbene ambedue includessero fra i criteri diagnostici un danno della funzionalità globale del soggetto in lutto, solo Prigerson faceva di questo aspetto un criterio diagnostico essenziale (Criterio C).



Nel complesso, quindi, i criteri proposti da Horowitz et al. si rivelavano più inclusivi e meno restrittivi di quelli proposti da Prigerson et al., portando a individuare più alti tassi di prevalenza della patologia nei campioni di popolazione studiati. Le due principali ragioni che determinavano questa differenza erano il criterio in base al quale si riconosceva il disturbo e il numero di sintomi necessari per diagnosticare un lutto complicato84.
In tempi più recenti, i due gruppi di lavoro hanno unito le forze costituendo una commissione di esperti, con lo scopo di approvare una consensus list condivisa di sintomi, per delineare il quadro clinico del PGD. I ricercatori hanno intrapreso lo studio con lo scopo di sviluppare e valutare algoritmi adatti a individuare quali di questi sintomi concorrano alla definizione del PGD. Gli studiosi hanno fatto riferimento alla Item Response Theory (IRT) per individuare i sintomi più specifici di PGD, attraverso l’analisi di interviste strutturate somministrate a 291 soggetti che avevano perso recentemente un familiare, per tre volte, a distanza di 0-6, 6-12 e 12-24 mesi dalla morte. I dati sono stati successivamente sottoposti a un’analisi “combinatoria” al fine di individuare l’algoritmo più sensibile e specifico per la diagnosi di PGD. Questo algoritmo precisa che una persona con PGD deve presentare una sofferenza fisica o psicologica causata da un inappagabile desiderio di riunirsi con la persona deceduta, e almeno 5 dei 9 sintomi individuati 88 (Tabella 3).



CONCLUSIONI
I più autorevoli studi sulle tematiche relative al lutto complicato concordano nel riconoscere nel PGD una nuova entità nosografica da includere nella nuova edizione del DSM-5 e dell’ICD-11 e da distinguere clinicamente da altri quadri di interesse psichiatrico quali la depressione maggiore e il DPTS89-92. Disporre oggi di criteri diagnostici per il PGD significa rendere possibile individuare soggetti a elevato rischio, predisponendo, grazie all’ausilio di strumenti di assessment sempre più validi e attendibili5,93-96, interventi di screening97 e di supporto psicologico/psichiatrico a favore di quei caregiver e di quei gruppi familiari impegnati nella cura di pazienti assistiti in cure palliative per i quali si può prospettare il rischio di sviluppare i sintomi di lutto complicato da trattare con strumenti psicofarmacologici e/o psicoterapeutici efficaci98-101.
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