EMDR ed elaborazione adattiva dell’informazione. La psicoterapia come stimolazione dei processi psicologici autoriparativi

EMDR and adaptive information processing. Psychotherapy as a stimulation
of the self-reparative psychological processes

ISABEL FERNANDEZ1, GABRIELLA GIOVANNOZZI2
E-mail: isabelf@tin.it

1Psicologo, Psicoterapeuta, Presidente della Associazione per l’EMDR in Italia, Centro Ricerca e Studi in Psicotraumatologia, Milano
2Psicologo, Psicoterapeuta, Supervisore EMDR

RIASSUNTO. A partire dal concetto di evento traumatico, viene descritto il modello dell’elaborazione adattativa dell’informazione per illustrare come l’EMDR viene applicato per la rielaborazione dei traumi e per risolvere la psicopatologia post-traumatica. Vengono quindi presentate le otto fasi del trattamento con EMDR, le modalità di funzionamento di una seduta di EMDR e il contributo e l’innovazione che l’EMDR rappresenta nel campo della terapia degli stati post-traumatici e la sua applicabilità in altri quadri sintomatici.

PAROLE CHIAVE: EMDR, AIP, PTSD, psicoterapia.


SUMMARY. Based on the concept of traumatic event, the model of the adaptive information processing is described to illustrate how EMDR is applied to reprocess the trauma and resolve post-traumatic psychopathology. The eight phases of the EMDR treatment are presented together with the way an EMDR session is conducted and the contribution and innovation that EMDR represents in the field of therapy of post-traumatic states and its applicability in other symptomatic conditions.< span class="text23">

KEY WORDS: EMDR, AIP, PTSD, psychotherapy.

INTRODUZIONE
La maggior parte degli studi e delle ricerche in campo psicologico e psicoterapico nel corso degli ultimi decenni si è focalizzata sul concetto di stress. Poiché lo stress traumatico è stato considerato come una delle condizioni più resistenti alla psicoterapia, sono stati intrapresi molti sforzi per cercare di comprendere meglio che cosa accade quando si viene esposti a un evento traumatico.
Secondo Freud, l’evento traumatico è un’esperienza singola o una situazione protratta nel tempo le cui implicazioni soggettive - cioè idee, cognizioni ed emozioni a essa collegate - sono nel complesso superiori alle capacità del soggetto, in quel momento, di gestirle o di adeguarsi a esse, cioè di integrarle nella psiche. Secondo l’approccio janetiano, che ha influenzato ampiamente la teorizzazione in quest’ambito, il trauma psicologico è un evento che, per le sue caratteristiche, risulta “non integrabile” nel sistema psichico della persona e quindi rimane dissociato dal resto dell’esperienza psichica, causando la sintomatologia psicopatologica relativa.
L’evento traumatico, secondo i criteri diagnostici del DSM-IV-TR, comporta l’esperienza soggettiva di un senso di impotenza e vulnerabilità di fronte a una minaccia, soggettiva od oggettiva, che può riguardare l’integrità fisica della persona o, più in generale, il suo senso di sicurezza psicologica.
Questa recente definizione di trauma, che ha portato alla sua classificazione diagnostica come disturbo da stress post-traumatico (PTSD), riguarda quindi un’esperienza in cui l’individuo ha vissuto in prima persona un grande pericolo per se stesso, oppure ha assistito o si è confrontato con un evento in cui qualcun altro ha subìto questo tipo di esperienza. Ma, oltre a questo criterio, molti autori, oggi, indipendentemente dall’approccio teorico, sostengono che piccoli e grandi traumi vissuti, soprattutto in età infantile, possano avere un impatto significativo sull’emergere dello stress psicologico e sullo sviluppo di disturbi mentali in età adulta (1).
Un evento universalmente riconosciuto come un trauma è sicuramente difficile da integrare nel Sé e nella propria storia (2). La sua elaborazione può richiedere al cervello uno sforzo impegnativo e durevole. In questo caso, il sostegno sociale e, attraverso di esso, il riconoscimento collettivo del diritto al dolore, giocano un ruolo favorevole che sembra facilitare l’elaborazione. Sta anche in questo, fra l’altro, il valore sociale dei riti e delle mobilitazioni al soccorso che, letteralmente, scandiscono e accompagnano le prime fasi dell’elaborazione degli eventi traumatici condivisi. Questo fattore di protezione non si verifica, invece, quando i traumi si consumano in spazi nascosti, quando la loro drammaticità non è palese, ma sottile e invisibile a osservatori esterni e non attenti. O, ancora, possono esserci accadimenti che risultano particolarmente lesivi per qualcuno, solo perché le caratteristiche dell’evento non sono facilmente integrabili con l’apparato psichico, con la soggettività, di quel determinato individuo. Fra questi, ricordiamo i tanti - piccoli grandi - traumi della vita quotidiana: le violenze, le incomprensioni, le relazioni interpersonali traumatiche soprattutto durante l’età evolutiva, gli insuccessi, le umiliazioni, i tradimenti. Tutti questi eventi emotivamente traumatici, e con una natura prettamente interpersonale, possono rappresentare una minaccia grave dell’integrità psicologica della persona e possono quindi rientrare tra i disturbi dell’adattamento (3), per poi evolvere successivamente in altre forme psicopatologiche.
In generale, si può affermare che il rischio traumatico è tanto maggiore quanto più, ovviamente, l’evento è forte, ma anche quanto più esso è protratto e ripetuto, quanto più coglie la persona sola e impreparata, quanto più esso colpisce in età infantile.
Secondo il modello di elaborazione adattiva dell’informazione (AIP) (4), le stesse risposte biochimiche elicitate per fronteggiare l’esperienza stressante, quando l’impatto è troppo forte e sopraffà le possibilità di risposta dell’individuo, intervengono per bloccare le informazioni in arrivo, che risultano eccessive. In questo caso, le informazioni collegate al trauma - cioè i pensieri, le emozioni e le sensazioni corporee - che l’esposizione all’esperienza traumatica ha attivato resterebbero bloccate in una stasi neurobiologica che inibisce le normali procedure di registrazione e immagazzinamento. Così, le informazioni collegate al trauma vengono bloccate e restano “intrappolate” in reti neuronali, scollegate dal resto, che mantengono le stesse convinzioni, emozioni e sensazioni fisiche che si erano attivate al momento dell’evento. Il materiale traumatico viene pertanto “congelato” in attesa che si creino le condizioni per la sua elaborazione; le informazioni restano isolate e frammentate in reti neurali che conducono una vita autonoma e non si integrano con le altre conoscenze. Esse vanno, in altre parole, a costruire circuiti di memoria disfunzionali.
Un ricordo immagazzinato in modo funzionale è un ricordo che mantiene la possibilità adattiva di collegamento spesso volontario. In questo caso, l’individuo può scegliere di accedere al ricordo e di utilizzarlo in modo costruttivo. Nel caso, invece, di un ricordo immagazzinato in modo disfunzionale, i diversi aspetti dell’esperienza sono frammentati e possono riattivarsi in modo del tutto involontario (flashback, immagini, pensieri automatici, ecc.) assumendo quindi un carattere disadattivo. L’individuo può non comprendere interamente il motivo di quello che sta provando o i meccanismi del suo disagio, che rimangono scollegati dal resto, ma che sono lì, pronti a riattivarsi quando magari uno stimolo che ha con essi una qualche somiglianza li risveglia.
Se la riattivazione riguarda materiale che era stato archiviato dopo una opportuna elaborazione, cioè un materiale con cui si ha, ormai, un rapporto quieto e riposato, non ci sono disagi emotivi o sintomi clinici. Ma, se nelle reti neuronali sono rimasti “intrappolati” pensieri ed emozioni disturbanti, oppure sensazioni corporee di tensione - la primitiva risposta all’esperienza stressante - la loro riattivazione inaspettata e incontrollata può avere conseguenze negative, produrre, cioè, sintomi psicopatologici e fisici.
Far elaborare al cervello questo eventuale bagaglio vuol dire riportarlo al suo naturale equilibrio, permettendo a esso di concludere un’operazione fisiologica patologicamente interrotta.
Un’operazione, quest’ultima, verso la quale il nostro cervello appare predisposto e che, in molti casi, riesce a fare da solo.
Qualche volta, invece, neanche con il tempo si riescono a sistemare i residui disturbanti delle esperienze negative che hanno sopraffatto l’individuo. Perché sono state troppo dolorose, oppure perché hanno incontrato una condizione soggettiva di particolare vulnerabilità. Sono noti, infatti, i fattori di rischio – legati per lo più allo stress - che impediscono l’elaborazione adattiva di un evento traumatico. Le esperienze negative dei primi anni di vita, in particolare, possono avere un impatto devastante per l’individuo e diventare la base disfunzionale per sviluppi traumatici successivi (5,6).
NUOVE PROSPETTIVE IN PSICOTERAPIA: L’EMDR COME STRUMENTO DI ELABORAZIONE DEL RICORDO TRAUMATICO
L’EMDR è un trattamento, ideato dalla psicologa californiana Francine Shapiro (4), molto efficace per alleviare lo stress e i sintomi associati ai ricordi traumatici. EMDR è l’acronimo di Eye Movement Desensitization and Reprocessing (Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i Movimenti Oculari). Durante le sedute di EMDR, infatti, si attivano entrambi i processi man mano che si procede con i movimenti oculari: la desensibilizzazione nei confronti del ricordo dell’evento traumatico e la sua rielaborazione a livello emotivo, cognitivo e corporeo.
I movimenti oculari, elemento con cui spesso si identifica questo strumento terapeutico, sono soltanto un aspetto di una procedura ben più articolata e complessa, che ha come obiettivo l’elaborazione del ricordo traumatico. Essi – come altre forme di stimolazione bilaterale – vengono quindi utilizzati come “facilitatori dell’elaborazione”.
La correlazione fra movimenti oculari ed elaborazione fu scoperta casualmente da Francine Shapiro nel 1987. Il grande merito di Shapiro è quello di aver dato vita a un’imponente area di ricerca scientifica su tale correlazione e di averne intuito l’applicabilità clinica, mettendo a punto un protocollo d’intervento per l’elaborazione del trauma fondato proprio su questo “facilitatore”.
Ampiamente testato sui veterani del Vietnam, che hanno fornito un campione eterogeneo e numeroso di persone gravemente traumatizzate, l’EMDR si è imposto - per la sua provata efficacia - come strumento elettivo, insieme alla psicoterapia cognitivo-comportamentale, per il trattamento dello stress post-traumatico, fino a essere incluso nelle linee-guida sanitarie di molti Paesi.
Il lavoro con l’EMDR è un lavoro sul ricordo che sfrutta il naturale sistema di elaborazione adattiva dell’informazione. In una condizione guidata e protetta, al sicuro quindi dal rischio di ritraumatizzazione, l’intervento EMDR si focalizza sul ricordo disturbante per riattivarne e completarne l’elaborazione interrotta.
Il materiale bloccato, che era rimasto “intrappolato” in forma implicita in reti neurali a sé stanti, con l’aiuto della stimolazione bilaterale e, in qualche caso, con opportuni interventi di sostegno da parte del terapeuta, può essere, finalmente, esplorato e ricollegato al resto delle informazioni a disposizione del cervello. Questo collegamento, che permette alle reti neurali relative all’esperienza traumatica di utilizzare il patrimonio di memoria funzionale da cui erano rimaste isolate, riattiva l’elaborazione, sfruttando il naturale sistema di elaborazione adattiva dell’informazione del nostro cervello. In questo modo, l’insieme delle convinzioni negative, delle emozioni e delle sensazioni corporee, che era rimasto in forma implicita nel cervello, è esplicitato, reso consapevole, fruibile e integrabile con l’intero sistema.
LE OTTO FASI DEL TRATTAMENTO EMDR
La terapia EMDR prevede otto fasi e solo alcune di queste prevedono la stimolazione bilaterale alternata.
La prima fase è quella della raccolta anamnestica, della valutazione delle condizioni del paziente e delle sue possibilità di trarre beneficio dall’EMDR, della messa a punto del piano terapeutico. In questa fase viene esplorata la storia del paziente e vengono identificati gli eventi passati responsabili dell’attuale sintomatologia. Fra questi, saranno scelti i ricordi da elaborare (i cosiddetti “ricordi target”) con il protocollo EMDR, che costituiranno quindi gli obiettivi dell’intervento. Sono anche vagliate situazioni attuali e scenari futuri che possono attivare la sintomatologia.
Nella seconda fase il paziente viene preparato al trattamento, gli viene spiegato in che cosa consiste l’EMDR e gli viene richiesto il consenso informato. Si lavora anche sul rinforzo delle sue risorse, in modo che possa sopportare l’inevitabile quota di stress derivante dalla riesposizione al materiale traumatico.
Nella terza fase si accede direttamente al ricordo target scelto per l’elaborazione. Il paziente è guidato all’identificazione della parte peggiore dell’evento, delle convinzioni negative su di sé costruite a partire dal fatto, delle emozioni e delle sensazioni corporee che esso attiva ancora mentre il paziente si focalizza sul ricordo. Il paziente è anche invitato a individuare la convinzione positiva che vorrebbe arrivare a poter esprimere rispetto all’episodio traumatico.  
La quarta fase è quella della desensibilizzazione. Viene richiesto al paziente di focalizzarsi su tutti gli elementi del ricordo dell’evento precedentemente individuati. Egli è istruito a “lasciare andare la mente” e, semplicemente, a notare tutto quello che accade dentro di lui. È a questo momento che viene iniziata la stimolazione bilaterale che verrà somministrata in set brevi, scanditi da ricorrenti momenti di feedback in cui il paziente riferisce su pensieri, emozioni, immagini, sensazioni fisiche che può aver notato. Il terapeuta procede con questa fase fino alla completa desensibilizzazione, cioè fino a quando il paziente, pensando al ricordo traumatico, non prova più alcun disagio emotivo.
Nella quinta fase, il lavoro si concentra sulla ricerca di una convinzione positiva riferibile a sé rispetto a quel determinato evento. È proprio in questa fase che emerge come l’elaborazione abbia portato il paziente a un totale cambiamento di prospettiva rispetto all’evento affrontato. Al termine di questa fase, infatti, il paziente arriva a vedere se stesso in modo costruttivo e positivo, esprime valutazioni che rivelano la riconquista di una buona autostima e di fiducia nelle proprie capacità, si sente di nuovo al sicuro e in grado di compiere delle scelte.
Nella sesta fase, quella chiamata della “scansione corporea”, il terapeuta chiede al paziente di ripensare all’evento traumatico e alle convinzioni positive su di sé e di ripercorrere tutto il suo corpo per verificare se ci sono ancora delle tensioni o delle sensazioni disturbanti a livello fisico. Nel caso in cui ci siano, si riaffrontano di nuovo con la stimolazione bilaterale, fino alla loro pressoché totale scomparsa.
La settima fase è quella della chiusura. Si forniscono al paziente istruzioni su come gestire il tempo fino alla seduta successiva. Nel caso di una seduta incompleta, ossia nel caso in cui l’elaborazione dell’evento non sia stata ancora portata a termine, si suggeriscono al paziente istruzioni mirate al contenimento del materiale ancora da elaborare. Può accadere, infatti, che il cervello, ritrovata la sua naturale funzione adattiva, continui l’elaborazione da solo e che nelle ore o nei giorni successivi alla seduta emergano nuovi ricordi insieme a pensieri diversi, più positivi e funzionali.
L’ottava fase è quella della rivalutazione. Nella seduta successiva vengono verificati, per confermarli o per perfezionarli, i risultati del lavoro fatto la volta precedente.
Dopo una seduta di EMDR, generalmente, il paziente riporta che lo stress emotivo, le reazioni e i sintomi relativi al ricordo dell’esperienza traumatica sono del tutto scomparsi o almeno fortemente diminuiti. Al suo posto egli ha spesso acquisito importanti insight cognitivi ed emotivi. Tutto ciò si traduce in un cambiamento spontaneo del comportamento e del suo generale atteggiamento verso se stesso, verso gli altri e verso la realtà. Il lavoro futuro sarà pertanto mirato principalmente a rinforzare di questi risultati.
CONCLUSIONI
Inizialmente utilizzato per la cura del PTSD, l’EMDR viene visto sempre più spesso non solo come un importante strumento di intervento sul trauma, ma, piuttosto, come un approccio psicoterapeutico globale e innovativo che ha come modello di riferimento teorico principale il modello dell’AIP e che appare assolutamente ben integrabile con tutti i principali approcci delle diverse tradizioni psicoterapeutiche (7). L’applicazione dell’EMDR si è andata così estendendo, con ottimi risultati, anche a patologie che non sono esplicitamente riferibili a traumi e a esperienze particolarmente stressanti.
BIBLIOGRAFIA
1. Briere J, Rickards S. Self-awareness, affect regulation, and relatedness: differential sequels of childhood versus adult victimization experiences. J Nerv Ment Dis 2007; 195: 497-503.
2. Schore AN. La regolazione degli affetti e la riparazione del Sé. Roma: Astrolabio Ubaldini, 2008.
3. American Psychiatric Association. DSM-IV, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quarta edizione. Milano: Masson, 1995.
4. Shapiro F. EMDR, desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari. Edizione italiana a cura di Isabel Fernandez. Milano: McGraw-Hill, 2000.
5. Siegel D. La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2001.
6. Liotti G, Farina B. Sviluppi traumatici. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2011.
7. Balbo M (ed). EMDR: uno strumento di dialogo fra le psicoterapie. Milano: McGraw-Hill, 2006.