Libri


Edoardo Boncinelli
Mi ritorno in mente. Il corpo,
le emozioni, la coscienza
Longanesi, Milano 2010, pagine 190,
€ 16,60

Edoardo Boncinelli continua a raccontare le straordinarie e appassionanti scoperte delle neuroscienze, e le racconta con un rigore e una chiarezza che tuttavia non escludono lo stupore e l’entusiasmo per la fantastica complessità del cervello e delle sue reti neurali e le mille sfumature diverse delle esperienze che ne hanno origine.
Ogni giorno, in ogni istante della nostra vita, si verifica – scrive Boncinelli in Il cervello, la mente e l’anima – “un miracolo in ciascun essere umano, forse il più grande del creato. Questo miracolo è la capacità di apprendere e di ricordare, e di creare nuovi pensieri e nuove emozioni”.
Scoprire come avvenga questo miracolo è l’affascinante aspirazione dei neuroscienziati, i quali in ogni parte del mondo cercano di far luce sui tanti enigmi che avvolgono il pianeta cervello. Finora i risultati sono entusiasmanti. Negli ultimi anni, la scienza ha scoperto più cose sul funzionamento del cervello di quante ne siano state apprese nei precedenti cinquemila. Da un lato, tecniche avveniristiche di brain imaging, dall’altro, gli strumenti della biologia molecolare e della genetica rendono lo studio del cervello un’impresa eccitante. La genetica in particolare si sta rivelando – afferma l’autore in Genoma: il grande libro dell’uomo – “la chiave di volta” della nostra esplorazione del mondo vivente, nella conoscenza dell’uomo e nella cura delle malattie.
Nella sua opera, Boncinelli ricostruisce tutto quello che la nuova scienza del cervello ci può dire sui nostri pensieri e sulle nostre emozioni. Si tratta di un processo di coevoluzione genetico-culturale, che mira a penetrare il mistero della coscienza, quel complesso di eventi che Jung paragonò a una “seconda cosmogonia”. Comprendere la struttura e il funzionamento del cervello, in realtà, implica il concetto di evoluzione biologica, un insieme di conoscenze che ci danno la migliore spiegazione della presenza e dello sviluppo della vita sulla terra.
Qual è allora il rapporto tra la nostra natura biologica e culturale con il fenomeno di individualità e unicità del cervello? E in che senso un individuo, pur mutando di continuo tutte le sue molecole, resta sempre se stesso? A queste domande Boncinelli risponde con Io sono, tu sei, seguendo l’emergere dell’individualità prima nella storia dell’universo fisico, quindi nel differenziarsi delle forme viventi, poi nell’evolversi della civiltà, infine nella storia personale di ognuno di noi: quattro scenari attraverso i quali si delinea una sorta di strategia dell’individualità.
Siamo nel solco dell’evoluzione della vita sulla terra dagli esseri monocellulari all’uomo attraverso la conquista del linguaggio e delle funzioni mentali superiori. Tutti i viventi hanno origine – egli dichiara nelle pagine di Le forme della vita – da antichissimi antenati comuni e le varie categorie di organismi si sono evolute e differenziate fra di loro prevalentemente ad opera della selezione naturale, che dà luogo a nuove mutazioni, a nuovi patrimoni genetici. Abbiamo imparato in questi ultimi anni tantissime cose sui geni e sui meccanismi dello sviluppo, conoscenze che ci aiutano a interpretare la nostra esistenza, scoprire come siamo fatti, migliorare la nostra salute e la vita dell’uomo, e ci consentono di intervenire sulle cause di molte malattie, fra le quali quelle psichiatriche, ereditarie, neurodegenerative, autoimmuni, cardiovascolari, ecc.
Alla luce delle scoperte realizzate di recente abbiamo compiuto poi notevoli progressi nella conoscenza della genesi dell’identità umana, a partire dalle fasi dello sviluppo embrionale alla nascita, passando attraverso temi cruciali quali diagnosi prenatale, fecondazione assistita, sperimentazione sulle cellule staminali, aborto. Oggi è possibile – argomenta l’autore in L’etica della vita. Siamo uomini o embrioni – fecondare in vitro una cellula-uovo e poi inserirla in un utero; è possibile sapere in anticipo se un concepito è portatore di una patologia ereditaria o di una malformazione congenita; è possibile prelevare cellule staminali in varie fasi dello sviluppo e utilizzarle per riparare organi lesi.
Le neuroscienze sono fortemente impegnate a comprendere l’origine della coscienza, l’essenza della mente e il funzionamento del cervello a partire dalla neurofisiologia. In molti studiosi esiste un senso di sfiducia nella possibilità di conseguire questi obiettivi. La maggior parte dei neuroscienziati ritiene invece che tutto ciò sia possibile e che presto saremo in grado di comprendere le misteriose finestre dell’anima. Ma cosa tesse la mente, che Sherrington paragonò a un “telaio incantato?” La mente, che possiamo definire un complesso di funzioni superiori che caratterizzano l’uomo e alcuni mammiferi superiori, tesse, per Boncinelli, anzitutto “rappresentazioni e stati d’animo”. La mente è strettamente intessuta di emozioni e sentimenti e pertanto coincide con il nostro mondo interiore, costituito di immagini, sensazioni, ricordi, idee, simboli. Che rappresentano il nostro vissuto soggettivo, personale, privato. Come tale, è un mondo difficile da analizzare perché “sfuggente” e “intrinsecamente insondabile”. Il mondo interiore di un altro essere umano ci è in sostanza “precluso”, come ci è precluso il nostro stesso mondo interiore, la nostra mente fenomenologica. Potrà mai un individuo insensibile dalla nascita al colore rosso capire – precisa Jackson – che cosa significa vedere un oggetto rosso? E tuttavia, il terreno – conclude Boncinelli – sembra pronto per “l’ultimo passo”: l’esplorazione dei modi in cui la nostra mente comprende se stessa e le cose del mondo. La mente che esplora se stessa è una delle sfide più inaspettate e meravigliose delle neuroscienze. “Fintanto che il cervello resterà un mistero, resterà un arcano – ha scritto Ramon y Cajal – anche l’universo, che ne riflette la struttura”. Per questa via, l’opera di Boncinelli conduce a un chiarimento fondamentale riguardo a questioni essenziali e cruciali come la mente, il cervello, la coscienza, le emozioni, e si pone come necessario punto di riferimento per gli studiosi e base indispensabile per ulteriori, feconde e illuminanti scoperte a beneficio dell’uomo e dell’umanità.

Guido Brunetti


AAVV
Manuale di neuroscienze forensi
Giuffrè Editore, Milano 2009,
pagine 411, € 40,00

Le moderne neuroscienze rappresentano l’espressione di una concezione unitaria e globale dell’individuo, destinata a rivoluzionare non solo la medicina e la psichiatria, ma anche gli altri saperi e la nostra stessa visione della vita e del mondo.
Il termine neuroscienze indica un insieme di discipline, le quali hanno in comune lo scopo di comprendere la struttura e il funzionamento del cervello. Da questo obiettivo scaturisce l’esigenza di individuare e capire il complesso, difficile e delicato rapporto esistente tra cervello e mente. E di come la mente emerga dalle straordinarie connessioni dei neuroni, “le misteriose farfalle dell’anima” (S. Ramon y Cayal).
Allo stato attuale della ricerca, i neuroscienziati sono concordi nel ritenere la mente una rappresentazione del processo dell’attività cerebrale. Il cervello diventa pertanto il punto di riferimento comune di tutte le neuroscienze. Discipline che hanno compiuto in questi anni progressi incredibili, grazie soprattutto all’avvento delle moderne tecniche di neuroimaging, consentendo di esaminare non solo i correlati neurali dei comportamenti patologici, ma lo stesso funzionamento cerebrale normale durante l’esecuzione di compiti specifici.
Le coordinate considerate dalla nuova scienza del cervello e della mente riguardano i correlati neurobiologici, anatomici, fisiologici, biochimici, ecc., nonché l’espressione genetica e i processi dell’evoluzione, considerati in relazione ai fattori ambientali. E tutti finalizzati in direzione dell’emergere della storia unica, individuale di ciascuno.
Per realizzare questo fantastico processo di comprensione del cervello e della mente, è necessario anzitutto elaborare – afferma Edelman, premio Nobel e uno dei padri delle moderne neuroscienze – “una teoria biologica della coscienza” e individuare “le sue basi neurali”, ovvero “come fanno le scariche di neuroni a dare origine a sensazioni, emozioni e pensieri soggettivi”, così come sono emersi nel corso dell’evoluzione.
Ciò che accade nel mondo della coscienza – che è concepita come “prodotto dell’evoluzione” –  “corrisponde – precisa Edelman – agli eventi neurali” che lo costituiscono. Per questa via, si ammette in sostanza il concetto di un processo di “naturalizzazione” dell’uomo. “Non siamo angeli – scrive Disraeli –, ma primati molto evoluti”. Non più dunque un essere “esclusivamente metafisico o necessariamente misterioso” (Edelman), ma un soggetto sottoposto a un progetto di “naturalizzazione”, il quale implica il rifiuto di ogni forma di dualismo tra cervello e mente, natura e cultura, scienze della natura e scienze dello spirito, tra fenomeni che possono essere “spiegati” e fenomeni che possono essere solo “compresi”. Eppure noi – commenta un altro autorevole neuroscienziato, Ramaschandran –, pur “intrappolati in corpi di bestie non ci sentiamo primati, ma angeli che anelano costantemente alla trascendenza e tentano di dispiegare le ali nel volo”.
I maggiori autori sono nondimeno d’accordo sulla primaria esigenza di “fondare” una “scienza unitaria” capace di unificare saperi scientifici e saperi umanistici, i quali devono essere riguardati e trattati entro una visione comune. Idea che Edelman chiama “epistemologia basata sul cervello”. L’indagine neuroscientifica assume dunque il mandato di un paradigma scientifico. La proliferazione di ibridi disciplinari – neuropsicanalisi, neuroetica, neurodiritto, neurofenomenologia, neuroeconomia, neurofilosofia, neuroestetica, ecc. – non necessariamente testimonia di questa tendenza “unificatrice” (Boella). Al contrario, il moltiplicarsi incontrollato ed eterogeneo di questi saperi può costituire una dispersione di conoscenze, un’enfasi narcisistica, una delimitazione di spazi conoscitivi, che riducono o annullano la visione unitaria e globale del sapere neuroscientifico, ovvero di una “scienza unitaria”, così come postulata da Edelman.
Nella cornice di questa solida impostazione epistemologica, oggi disponiamo di molteplici prove empiriche, che sostengono l’idea che la coscienza emerga dall’attività cerebrale, cioè dell’assoluta “dipendenza” della coscienza dal cervello. Se dunque la coscienza consegue dalle funzioni cerebrali e corporee di un individuo, ogni vissuto o storia di esperienza cosciente è “unica” e non può essere “condivisa”. La mente tuttavia non è un “oggetto” ma un “processo”.
È pertanto sbagliato attribuire specificamente la mente a cellule neurali – i cosiddetti “neuroni della coscienza” – o a particolari strati della corteccia cerebrale. Il processo della coscienza è un “risultato dinamico” (Edelman) delle attività distribuite di popolazioni di neuroni in molte aree diverse del cervello. Una sua proprietà rilevante è che la coscienza si pone come capacità “integrata” e “unitaria”, nell’ambito di vaste regioni che comprendono l’ippocampo, i gangli della base e il cervelletto.
L’epistemologia basata sul cervello riconosce poi la supremazia della selezione naturale e ci aiuta a comprendere che il pensiero si basa sulle interazioni tra il cervello, il corpo e il mondo. Alla base di queste proprietà vi è l’attività causale del sistema talamocorticale, le cui complesse configurazioni neurali implicano la coscienza. Dal substrato neurale della coscienza sono emersi inoltre i sistemi etici, i domini della creazione artistica e una visione scientifica del mondo. Disponiamo in tal modo di nuovi modi – come concorda Gazzaniga – per capire tanto il comportamento normale tanto quello patologico, violento, aggressivo o deviante.
Esperimenti condotti al riguardo hanno scoperto una realtà stupefacente: il cervello esegue il suo lavoro, cioè fa svolgere gli eventi, prima che ne diventiamo consapevoli. Benjamin Libet, che ha portato all’attenzione degli studiosi la questione, misurando l’attività del cervello durante il movimento di una mano, ha dimostrato che, prima di muoverla realmente, si manifestava – tra i 500 e i 1000 millisecondi prima – un’onda di attività cerebrale, il cosiddetto “potenziale di prontezza”. Ulteriori conferme che il cervello agisce per conto suo prima che diventiamo coscienti delle sue azioni ci provengono dalle ricerche sul cervello delle scimmie effettuate da Platt e Glimcher.
Se dunque il cervello prende decisioni prima che ne siamo consapevoli, che ne è – si chiede Gazzaniga – del nostro libero arbitrio, ovvero di un grave problema come il comportamento violento criminale? Alcuni autori sostengono che una persona non è responsabile delle proprie azioni a causa di uno stato “anormale” del cervello. La tesi è che una persona “normale” non commetterebbe un crimine, e quindi un comportamento di questo tipo deve essere “causato” da un’anomalia.
Avvalendoci delle attuali conoscenze neuroscientifiche, potremmo sostenere che, se possiamo dimostrare che squilibri neurochimici o lesioni cerebrali sono causa di delitti, violenza, aggressività, ecc., chi ne è affetto non dovrebbe essere ritenuto responsabile delle sue azioni. Nelle storia del rapporto tra comportamento criminale e legge è stata proposta questa tesi in centinaia di casi e gli imputati sono stati assolti.
Il problema di fondo, in realtà, è stabilire l’azione volontaria del comportamento criminale. È stato lui a commettere il delitto oppure il suo cervello? Entriamo in un terreno insidioso, complesso e contorto. Si tratta di scoprire il correlato cerebrale della responsabilità.
Le neuroscienze non scopriranno mai questa correlazione neurale, poiché il concetto di responsabilità – chiarisce Gazzaniga – è qualcosa che attribuiamo alle persone e non ai cervelli. È un valore “etico”, una costruzione “sociale”, un’idea cioè che esiste nelle regole di una società e non nelle strutture neurali del cervello. Le neuroscienze “leggono” il cervello, non la mente. E quest’ultima, che pure non esisterebbe senza il cervello, è “ben altra cosa”.
Finora, le neuroscienze, grazie ai progressi delle tecniche di visualizzazione cerebrale, di genetica comportamentale e di diagnostica, hanno dimostrato di essere in grado di recare contributi significativi alla comprensione di comportamenti nel campo del crimine e in quello giuridico; dei rapporti tra scienze biologiche e diritto; e delle implicazioni neuroscientifiche in ambito penale e criminologico.
Appaiono evidenti gli effetti positivi di queste ricerche sperimentali in questo campo, un settore che è ancora alla ricerca di un suo autonomo, maturo e autosufficiente statuto epistemologico. È ampiamente riconosciuto, infatti, che la criminologia non dispone di metodi propri e specifici, ma si serve di volta in volta di tecniche o etichette medico-psichiatriche, psicologiche o addirittura sociologiche, per cui essa risulta priva di capacità diagnostica e terapeutica. Affiora un insieme di cognizioni frammentate, una pletora di idee e prassi diverse in concorrenza fra di loro, che spesso si escludono a vicenda e da cui non emerge alcuna sicurezza o garanzia scientifica. Il parere del criminologo risulta sostanziato di opinioni più che di certezze, un linguaggio astratto, vacuo, contrassegnato da vaghezze concettuali.
Per questo, riteniamo, d’accordo con altri autorevoli studiosi, cosa necessaria ancorare anche questo campo di studio e di attività alle feconde e insostituibili ricerche delle neuroscienze.

Guido Brunetti