Libri


Michele Tansella e Graham Thornicroft
Per una migliore assistenza psichiatrica
CIC Edizioni Internazionali, Roma 2009, pagine 206, € 35,00

La prima impressione avuta leggendo il testo di M. Tansella e G. Thornicroft è stata: «Ecco un libro su cui avrei dovuto studiare negli anni della Scuola di Specialità!». Questo testo dovrebbe essere adottato nelle Scuole di Specialità per colmare il divario ancora esistente tra insegnamento accademico e psichiatria di comunità. Qui infatti il lettore può trovare non solo informazioni relative alla valutazione, alla evidence based mental health e all’approccio public health, ma soprattutto un metodo, una griglia mentale per lavorare nei servizi di salute mentale e migliorarne l’attività.
Gli autori non hanno voluto solo raccogliere e aggiornare la letteratura scientifica nel campo della valutazione: il loro fine dichiarato è quello di migliorare la pratica clinica della psichiatria di comunità, rendendone più efficaci i trattamenti. I cardini su cui basare questo miglioramento sono, in ordine gerarchico, i principi etici, le evidenze scientifiche e la pratica clinica. L’ordine gerarchico pone giustamente in primo piano un tema, quello dei principi etici, che negli ultimi anni ha subito un’eclissi, nonostante sia stato il motore principale della chiusura dei manicomi e della promulgazione della Legge 180. L’altra polarità è data dall’esperienza clinica quotidiana, che non viene demonizzata, come in alcune interpretazioni estremistiche della evidence based mental health, ma è utilizzata all’interno della cornice delle evidenze scientifiche. Le evidenze scientifiche rappresentano l’anello di congiunzione tra principi etici e pratica clinica, in quanto permettono di concretizzare i principi etici e di rendere più efficace la pratica clinica. Questo intreccio originale tra etica, esperienza e scienza non è solo innovativo, ma rappresenta anche un modello operativo per il cambiamento nei servizi di salute mentale.
Gli strumenti che gli autori propongono per concettualizzare prima e cambiare poi i servizi di comunità sono di due tipi: da un lato la triade formata da principi etici, evidenze scientifiche e pratica clinica, e dall’altro il modello a matrice, già illustrato nel precedente libro di Tansella e Thornicroft “Manuale per la riforma dei servizi di salute mentale. Un modello a matrice”. In questo modello, alla distinzione classica tra struttura, processo ed esito si aggiunge l’analisi “geografica” del livello su cui si vuole intervenire: nazionale, regionale, locale del Dipartimento di Salute Mentale e individuale del paziente.
Un merito di questo libro è quello di chiarire al lettore italiano l’importanza dell’approccio public health nella salute mentale, un approccio che coniuga l’esperienza della psichiatria di comunità italiana alla concettualizzazione della public health, nata nel mondo anglosassone. Un esempio di applicazione è dato dall’analisi del divario esistente tra l’impatto dei disturbi psichici e la sua percezione a livello della popolazione, dei politici e amministratori, degli operatori sanitari: per tutte queste figure, spesso, i disturbi psichici non costituiscono un’emergenza in termini di salute pubblica. Un dato colpisce particolarmente: solo una minoranza dei pazienti con disturbi psichiatrici è in trattamento e la maggioranza dei bisogni di trattamento rimane inevasa ( treatment gap). Non solo i politici o gli amministratori, ma anche gli stessi psichiatri non sono consapevoli dell’ampiezza del treatment gap (per quanto riguarda i disturbi emotivi comuni ma anche i disturbi mentali gravi) e della necessità di monitorare questo indicatore epidemiologico, così significativo in termini di salute pubblica. I dati sull’impatto dei disturbi psichici nella popolazione e sul treatment gap cessano di essere aridi dati scientifici, ma diventano potenti strumenti di advocacy. E quello dell’advocacy è un compito che negli ultimi anni la psichiatra di comunità ha talvolta dimenticato, sottovalutandone il ruolo. Una costante attività di advocacy da parte degli operatori della salute mentale non serve solo a tutelare meglio i diritti degli utenti, ma, dando più visibilità ai bisogni di salute mentale della popolazione, serve anche a salvaguardare le risorse dei servizi.
All’inizio di questo viaggio nella psichiatria di comunità, gli autori tracciano una storia della psichiatria attraverso la storia delle sue istituzioni: dalla nascita dell’ospedale psichiatrico fino al suo declino e allo sviluppo della psichiatria di comunità. Il fenomeno della deistituzionalizzazione viene legato sia ai cambiamenti di carattere sociale e legislativo sia alle scoperte nel campo della farmacologia e della riabilitazione avvenute nel secondo dopoguerra. Il confronto con le esperienze degli altri Paesi è particolarmente fecondo per il lettore italiano: se da un lato abbiamo la consapevolezza di avere chiuso i manicomi e avviato in modo capillare la community care, dall’altro proviamo stupore quando constatiamo che nei Paesi ad alto reddito siamo i soli a lavorare senza ospedali psichiatrici. In questo senso, il pessimismo di B. Saraceno nell’Introduzione al volume è comprensibile: il cammino della community care è lento e se l’Italia è riuscita, con tutta una serie di difficoltà, a progredire su questa strada lo ha fatto anche perché, diversamente dal resto dei Paesi sviluppati o in via di sviluppo, non si portava sulle spalle il fardello di ospedali psichiatrici aperti e funzionanti.
Quali sono le basi etiche della psichiatria di comunità? Il tema etico riguarda non solo la lotta allo stigma o i diritti individuali dei pazienti (quali il diritto allo studio, al lavoro, alla possibilità di avere una vita affettiva), ma anche le caratteristiche organizzative di un servizio. Queste, infatti, rappresentano la traduzione in termini operativi dei principi etici: ne sono esempi l’accessibilità dei servizi, la continuità della cura, il coordinamento tra strutture e ­team clinici. Il testo contiene al suo interno anche un breve manuale di programmazione sanitaria: partendo dalle evidenze epidemiologiche si arriva a definire non solo le strutture indispensabili per un servizio di comunità (strutture ambulatoriali, team territoriali, reparti psichiatrici in ospedale generale, strutture residenziali e riabilitative), ma anche gli interventi basati sulle evidenze di cui queste strutture devono essere il contenitore.
Un merito di questo libro è quello di analizzare gli ostacoli allo sviluppo della community care a livello globale, intervistando esperti provenienti non solo da Paesi ad alto reddito, ma anche in via di sviluppo. Il libro fa proprio il cambiamento portato dalla globalizzazione anche nel campo della salute mentale: vi sono una costante attenzione ai diversi livelli di risorse e un richiamo al lavoro che svolge l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel favorire la diffusione della community care e nel migliorare gli strumenti di valutazione in questa area. La lettura è stimolante anche per il lettore italiano, in quanto i temi che gli autori sollevano si ripresentano costantemente all’interno della psichiatria di comunità, in una certa misura indipendentemente dal grado di sviluppo del sistema. La parte finale – le lezioni apprese – sottolinea l’esigenza di proiettare su tempi lunghi i cambiamenti dei servizi, di coinvolgere utenti e familiari, di proteggere il budget dei servizi di salute mentale e, infine, di curare in modo specifico la formazione degli operatori.
Il livello nazionale/regionale è quello che si situa al livello superiore, quando viene proiettato sull’asse geografico del modello a matrice. Questo livello è decisivo non solo per le influenze che l’atteggiamento del pubblico e l’orientamento dei politici hanno sulla legislazione psichiatrica e sull’organizzazione dei servizi di salute mentale, ma anche perché a livello nazionale o regionale vengono decise le risorse assegnate al finanziamento dei servizi di salute mentale e vengono definiti gli standard e i curriculum professionali, decisivi per garantire la qualità della cura. A livello locale del servizio di salute mentale vengono invece definite le funzioni che il DSM svolge all’interno del proprio territorio (la catchment area o area geografica di responsabilità). Fondamentali sono i rapporti che il servizio intrattiene con la popolazione e i principali stakeholders. Tra questi, particolare importanza hanno pazienti e familiari: ascoltare le loro opinioni, coinvolgere il paziente come partner nel progetto terapeutico, utilizzare i familiari come risorsa, monitorare i loro bisogni e il loro grado di soddisfazione, tutti questi temi rappresentano altrettanti punti fermi nel rapporto che si deve creare tra servizi, pazienti e familiari. L’ultimo livello è quello individuale, che riguarda l’attività di tipo clinico diretta al paziente. Viene ribadito in modo molto chiaro che lo scopo di un servizio è quello di erogare ai pazienti interventi di sicura efficacia. Questo può avvenire solo se si rafforza il legame che lega la pratica clinica alle evidenze scientifiche. Ne esce una posizione di grande equilibrio tra pratica clinica e evidence based mental health, in cui gli autori sostengono la necessità di uno scambio bidirezionale tra queste due aree. Le conseguenze sono importanti, anche sul piano della valutazione e del monitoraggio: non ha più senso monitorare solo quanti interventi vengono erogati, ma è necessario rilevare anche la loro qualità ed efficacia.
Il secondo asse della matrice è dato dalla triade di input strutturali, processi di cura ed esiti dei trattamenti. Per quanto riguarda gli input strutturali e le risorse che vengono immesse nel sistema di assistenza psichiatrica, gli autori chiariscono come le risorse siano utili solo se contribuiscono direttamente o indirettamente a migliorare l’esito dei pazienti e l’efficacia dei trattamenti. Migliori servizi non si ottengono solo incrementando le risorse disponibili, ma soprattutto indirizzando quelle esistenti verso interventi efficaci. Viene sottolineato il ruolo che hanno sistemi informativi nel misurare i processi di cura, le attività che hanno luogo nel processo di erogazione dell’assistenza psichiatrica; vengono anche forniti esempi di indicatori utilizzabili a livello del singolo DSM. Sicuramente, il braccio della matrice che sta più a cuore agli autori è quello che riguarda l’esito (outcome) dei trattamenti. Spesso è stata data troppa attenzione agli input strutturali (sia legislativi sia di risorse), mentre minore attenzione è stata dedicata all’analisi dei processi di cura e ancora minore a quella all’esito dei trattamenti. Questa carenza è rilevante, in quanto la sfida che la psichiatria di comunità dovrà affrontare nei prossimi anni sarà quella di erogare interventi efficaci in sintonia con le evidenze scientifiche. Sarà quindi necessaria una maggiore capacità di misurare l’esito, capacità che oggi non è pienamente sviluppata, in particolare a livello nazionale/regionale e locale. A livello nazionale/regionale sono proposti indicatori di esito quali i DALY’s elaborati dall’OMS, il tasso di suicidio o la mortalità, mentre a livello di servizio di salute mentale viene consigliato rilevare il livello di occupazione e la soddisfazione dei pazienti. Sono, invece, più sviluppate le misure di esito a livello del singolo paziente: le variabili più frequentemente utilizzate sono la gravità dei sintomi psichiatrici, l’impatto della malattia mentale sui familiari, la qualità della vita e il grado di disabilità, il livello di bisogni soddisfatti e non soddisfatti. Gli autori ricordano che per misurare in modo valido l’esito è necessario utilizzare strumenti dotati di proprietà psicometriche definite.
Più che in altre aree della medicina, i servizi di salute mentale basano la loro attività quasi interamente sulle risorse umane: gli operatori hanno un ruolo centrale nel miglioramento dell’assistenza psichiatrica. In psichiatria, dove gli strumenti tecnici sono di importanza limitata, la vera risorsa dei DSM sono gli operatori. In questa ottica, è necessaria quella che gli autori chiamano una “manutenzione” emotiva e organizzativa dei team clinici, per evitare il burn out e la perdita di motivazione tra gli operatori. Viene sottolineato il ruolo della formazione sia quella prima della laurea sia quella continua “in service”. Anche in questo caso però non è importante la formazione in sé, ma la formazione basata sulle evidenze e dedicata alla implementazione di interventi efficaci e alle linee-guida.
L’ultimo capitolo è dedicato alle azioni che sono ritenute utili per migliorare l’assistenza psichiatrica. Gli autori confessano una visione “ambiziosamente realistica” di questo miglioramento. Identificano alcuni ostacoli al cambiamento: dai finanziamenti insufficienti all’intrappolamento delle risorse disponibili dentro gli ospedali psichiatrici, dalla scarsità di operatori adeguatamente formati, all’incerta leadership dei dirigenti e alla frammentazione di gruppi di advocacy. Non esistono ricette miracolose per superare questi problemi, ma solo un lavoro lento e costante. La valutazione svolge un ruolo importante per favorire il miglioramento: ciò che non può esser misurato non può essere migliorato. Accanto alla valutazione, è necessario utilizzare in misura maggiore i risultati delle evidenze scientifiche, includendoli nei percorsi clinici e nei protocolli di assistenza.
Secondo gli autori, realizzare un’assistenza psichiatrica migliore significa fare riferimento su quanto c’è di meglio in termini di etica, evidenze scientifiche e pratica clinica, ponendo una costante attenzione all’esito dei trattamenti. La divisione che Tansella e Thornicroft propongono tra principi etici e strumenti tecnici è quanto mai attuale: a trent’anni dalla Legge 180 i principi etici ispiratori sono gli stessi, ma gli strumenti (siano essi evidenze scientifiche o pratiche cliniche) che li sostengono sono cambiati. Molto del dibattito, che è stato suscitato dall’anniversario della Legge 180, avrebbe potuto trarre giovamento da quest’analisi. Cambiare gli strumenti tecnici non significa cambiare i principi etici e mentre è doveroso aggiornare i primi, è necessario rispettare i secondi.
Antonio Lora
Presidente della Società
Italiana di Epidemiologia Psichiatrica



Edoardo Boncinelli
Come nascono le idee
Editori Laterza, Roma-Bari 2008, pagine 153, € 10

Da dove esattamente, quando e come nascono i pensieri non lo sappiamo. Possiamo intanto dire che il cervello e la mente si manifestano attraverso il pensiero. È stato Socrate a scoprire per primo il correlato mentale della parola, il concetto, l’idea. Al di là di tutti i possibili usi della parola “cavallo” – sostiene Socrate – c’è l’idea della “cavallinità”, cioè il concetto mentale di cavallo. Al di sopra di tutti i possibili usi della parola “virtù” sta il concetto di virtù. Le idee, per Platone, sono concetti saldi, immutabili, sono immagini, modelli perfetti dotati di esistenza e situati in un altro mondo – l’Iperuranio –, al di sopra del cielo. Si tratta di un aldilà metafisico, legato al concetto di trascendenza.
Le idee nella Scolastica e nel Neoplatonismo vengono considerate come gli oggetti dell’intelligenza (divina) e identificate con l’Intelligenza stessa (Plotino). Il Logos – afferma Sant’Agostino – ha in sé le idee, che sono eterne, mentre San Tommaso dichiara: “Il termine greco idea si dice in latino forma e per idea si intendono le forme di alcune cose esistenti al di fuori delle cose stesse”.
Il concetto di idea come rappresentazione del pensiero umano viene sostenuto da Cartesio e Kant. Le tre idee che Kant enumera come oggetti necessari della ragione sono l’anima, il mondo e Dio, entità prive di realtà appunto perché sono al di là dell’esperienza. Nell’Idealismo, la nozione di idea riafferma “tutta la portata metafisica e teologica che aveva avuto nel neoplatonismo” (Abbagnano).
In realtà, il problema delle idee, della loro natura e della loro genesi costituisce una sorta di filo conduttore nella storia del pensiero. L’aspetto centrale di questo problema è rappresentato dal dilemma “innato” o “appreso”. In base a una linea di pensiero, le idee presenti nella mente mostrano una componente innata. Esse preesistono dentro di noi. Secondo un altro orientamento, sostenuto dagli empiristi inglesi, non si possono formare idee nella nostra mente se prima non si passa dall’esperienza dei sensi: “ Nihili intellectu quod prius non fuerit in sensu” (Hobbes). La mente viene dunque intesa come una tabula rasa priva delle minime sembianze di una idea.
Ogni mente umana, per Dennet, “non è solo il prodotto della selezione naturale, ma anche di una progettazione culturale di vastissime proporzioni”. Ogni componente mentale inoltre possiede una lunga storia che a volte copre migliaia di anni. Secondo Dennet, le idee, la mente, nascono con il linguaggio. È provato che l’individuo è geneticamente predisposto al linguaggio. I bambini, che in media imparano dodici parole al giorno fino all’adolescenza, non hanno bisogno di imparare la propria lingua perché hanno disposizioni di “apprendimento innato” (Chomsky) che si adattano al contesto in cui vivono, esattamente come gli uccelli non si devono preoccupare delle loro penne per volare. Nell’acquisizione del linguaggio, le nostre idee diventano sempre più elaborate, fino ad arrivare alla “rappresentazione mentale”. La parola così assolve alla funzione di prototipo del pensiero.
Attualmente, gli studi nel campo delle neuroscienze parlano dei pensieri come “correlati mentali” cioè di immagini mentali, di ideazione e di elaborazione di idee. Oggi, le moderne neuroscienze ci stanno fornendo molte conoscenze sul funzionamento del cervello, con riguardo alle sue capacità cognitive. In questa linea di ricerca, particolare importanza assume il campo di studio chiamato brain imaging o neuroimaging. Attraverso l’uso di metodiche di visualizzazione dell’attività del cervello (PET, TAC, RMN e RMF) noi possiamo guardare dentro la testa di una persona mentre sta eseguendo un compito. Si è accertato così che quando un soggetto parla si attiva una regione temporale sinistra (area di Broca), mentre se il soggetto sta ascoltando, si attiva una regione leggermente posteriore alla prima (area di Wernicke). Sappiamo poi che possediamo un’area specifica per la prima lingua e un’area per la seconda lingua.
Con l’uso di queste tecniche, abbiamo appreso che possediamo un centro nel cervello dedicato ai nomi propri e un centro per i nomi comuni. Abbiamo appreso inoltre che esiste l’area dei sostantivi e l’area dei verbi. Abbiamo scoperto quale area cerebrale è coinvolta nell’identificazione delle forme o delle facce; quale si attiva quando si ascolta la musica; quale quando si prova disgusto; quale quando dobbiamo prendere una decisione; quale quando la nostra scelta ci è piaciuta o viceversa non ci è piaciuta. Dobbiamo precisare che le diverse funzioni non sono compiute da un’area specifica. Esse sono il risultato dell’attività di tutto il cervello. Possiamo tuttavia ritenere che quell’area svolga un ruolo preminente. Il cervello non è costituito di aree indipendenti e autonome, ma di un insieme di funzioni.
Quello che siamo – chiarisce Boncinelli – è l’esito dell’azione congiunta di almeno tre componenti: quella genetica, quella rappresentata dalle nostre esperienze e dal nostro ambiente e quella di natura essenzialmente casuale. Esistono poi differenze fra individuo e individuo. Inclinazioni e qualità differenti si manifestano anche in una coppia di gemelli geneticamente uguali. Non esistono dunque due cervelli identici.
L’esistenza di queste differenze interindividuali rende molto più difficile lo studio e la comprensione del cervello, della mente e del comportamento umano. Il pensiero deve passare per la coscienza, che è – scrive Boncinelli – “il punto più alto e probabilmente inaccessibile delle nostre attività cerebrali”. La coscienza rappresenta “il problema dei problemi” per le neuroscienze. Nel concetto di coscienza confluiscono diverse componenti come la consapevolezza, l’autocoscienza e la coscienza fenomenica.
Indubbiamente, esiste una “consapevolezza” che caratterizza anche molti animali, che sono più o meno consapevoli di ciò che stanno facendo o stanno per fare. Esistono poi stati di coscienza, privati e soggettivi, che sono incomunicabili, ma accessibili soltanto dal soggetto, dall’io, mediante l’introspezione. È la coscienza fenomenica.
Circa il rapporto fra coscienza ed eventi psichici inconsci, dobbiamo sottolineare che il concetto di “inconscio” comprende tutto ciò che resta fuori da un determinato episodio di coscienza. Sono inconsci tutti i processi fisiologici che hanno luogo nel nostro corpo. Inconscio designa “l’insieme dei contenuti non presenti nel campo attuale della coscienza” (Laplanche e Pontalis), e indica uno dei sistemi definiti da Freud nella sua teoria dell’apparato psichico e consiste di “contenuti rimossi cui è stato rifiutato l’accesso al sistema preconscio-cosciente mediante la rimozione”. Per Freud, la “via regia” alla scoperta dell’inconscio è rappresentata dal sogno. Esso costituisce il “grande serbatoio” della libido e più in generale dell’energia pulsionale. Anche all’Io e al Super-io vengono attribuite un’origine e una componente inconscia.
Concludendo, di che cosa si nutre la nostra mente? Di idee. Le idee sono la grammatica del pensiero, l’elemento mentale di ogni immagine percepita, l’embrione di ogni discorso, progetto o azione futura. La nostra mente ci si palesa, in sostanza, attraverso le idee.

Guido Brunetti
Collaboratore del Dipartimento
di Scienze Psichiatriche
Università La Sapienza, Roma