A proposito dei nuovi “casi difficili” in psichiatria

Gentile Direttore
le questioni poste da Massimo Biondi e Angelo Picardi nell’articolo I nuovi “casi difficili” in psichiatria rappresentano rilevanti problematiche sulle quali il mondo della salute mentale dovrebbe discutere e riflettere. Per poi arrivare alla società civile, al mondo della comunicazione, della cultura e della politica.
Un filo comune che in gran parte le attraversa può essere individuato nella tendenza alla trasformazione, non esplicita ma sempre più presente, del mandato alla psichiatria: dalla cura al controllo sociale. Con un progressivo allargamento dei confini delle richieste di intervento ai Dipartimenti di Salute Mentale.
C’è un problema, forse, anche di onnipotenza della psichiatria, e di convinzione che con i giusti trattamenti, in gran parte psicofarmacologi ma anche di neoistituzionalizzazione, i comportamenti auto ed eterolesivi si possano comunque prevenire, al di là di ogni evidenza scientifica.
Seppure è vero un parziale e limitato cambiamento del quadro psicopatologico legato in particolare alla diffusione di nuove dipendenze, i principali percorsi di cura dei DSM, così come definiti dalla Conferenza Stato Regioni, riguardano, nella realtà quotidiana dei servizi pubblici territoriali, i disturbi schizofrenici, i disturbi dell’umore e disturbi gravi di personalità. Ciò che sta cambiando non sono tanto le nuove patologie psichiatriche, ma le nuove responsabilità per i comportamenti “antisociali”.
All’epoca della legge 180 nessuno avrebbe ipotizzato la possibilità che uno psichiatra di un Centro di Salute Mentale avrebbe potuto essere accusato dei comportamenti “criminali” di un paziente in cura, commessi al di fuori del contesto sanitario.
Nell’editoriale giustamente si parla di posizione di garanzia, ma questa dovrebbe essere in primo luogo legata alla responsabilità di cura e di tutela della salute,  non di controllo sociale.
Così come si tende sempre più ad accusare lo psichiatra che non avrebbe messo in atto le cure e le tutele appropriate per prevenire il suicidio. Eppure le evidenze scientifiche internazionali sono chiare nell’affermare che non vi sono elementi predittivi certi, neanche dopo un primo tentativo di suicidio. Basterebbe leggere l’articolo di Joseph C. Franklin et al. (“Risk Factors for suicidal thoughts and behaviors: a meta-analysis of 50 years of research”) pubblicato nel 2017 su   Psychological Bulletin.
Peraltro, nella nota informativa ISTAT del febbraio 2017 si rileva che solo nel 12,9% dei suicidi riferiti al triennio 2011-2013, nel certificati decesso c’è una menzione di malattie mentale, e il 2,2% con menzione “anche di malattie mentali”.
Oltre a Biondi e Picardi, sempre più voci si dovrebbero far sentire a tutela della nostra professionalità e del nostro vero mandato di prevenzione, cura e riabilitazione per la salute mentale, a partire dalla storia di ciascuna persona. Con la consapevolezza che per far questo c’è bisogno di più risorse, per poter garantire un approccio multifattoriale, nel quale accanto alle cure psicofarmacologiche e psicoterapiche si possa lavorare anche per l’inclusione sociale e lavorativa.
Cordiali saluti
Massimo Cozza
Coordinatore DSM ASL Roma 2