Il trattamento sanitario obbligatorio come salvavita in presenza di disturbi dell’alimentazione: una scelta complessa

Seeking compulsory treatment as life-saving in the presence of eating disorders:
a complex choice

WALTER MILANO1, ARMANDO COTUGNO2, RICCARDO DALLE GRAVE3,
MARIA GABRIELLA GENTILE
4, GIOVANNI GRAVINA5, CATERINA RENNA6, PIERANDREA SALVO7,
PATRIZIA TODISCO
8, LORENZO MARIA DONINI9
*E-mail: lorenzomaria.donini@uniroma1.it

1ASL Napoli 1 Centro
2ASL Roma E
3Casa di Cura Villa Garda, Garda (VR)
4Centro Diagnostico Italiano, Milano
5Casa di Cura San Rossore, Pisa
6ASL Lecce
7ULSS 4 Veneto Orientale, Portogruaro (VE)
8Casa di Cura Villa Margherita, Vicenza
9Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sapienza Università di Roma


RIASSUNTO. I disturbi dell’alimentazione in generale e l’anoressia nervosa in particolare sono malattie mentali associate a grave disabilità, scarsa qualità della vita ed elevato tasso di mortalità e l’anoressia nervosa si pone tra le principali cause di mortalità tra le giovani donne. Nonostante i danni fisici e psicosociali determinati dall’anoressia nervosa, le persone che ne sono colpite spesso non ritengono il basso peso e la restrizione calorica estrema un problema e sono ambivalenti nei confronti del trattamento. Alcune arrivano a rifiutare le cure, pur presentando gravi complicanze mediche, mettendo in serio pericolo la loro vita. Da qui la necessità di valutare come nei casi più complessi che rifiutano interventi ritenuti per loro necessari sia opportuno o necessario far ricorso a un trattamento sanitario obbligatorio (TSO). A tutt’oggi permangono opinioni divergenti nei confronti del TSO nell’anoressia nervosa: alcuni considerano il TSO negativo per la relazione terapeutica, altri ritengono che debba essere considerato un trattamento compassionevole e come tale attuato, altri ancora che debba essere utilizzato come trattamento salvavita. Comunque sia, il TSO deve essere sempre ponderato con la massima attenzione perché viene considerato dalla legge la forma massima della limitazione della libertà personale. Le istituzioni politiche debbono fornire un chiaro quadro di riferimento per la società e gli operatori, mentre le istituzioni sanitarie debbono porsi il problema dell’adeguatezza delle risorse disponibili (non solo in termini di posti letto ma anche di operatori qualificati) rispetto ai bisogni degli utenti, dell’organizzazione e dell’integrazione dei servizi sul territorio dedicati al trattamento dei disturbi dell’alimentazione.

PAROLE CHIAVE: disturbi dell’alimentazione, anoresssia nervosa, malnutrizione, trattamento sanitario obbligatorio.


SUMMARY. Eating disorders (and especially anorexia nervosa) are associated with severe disability, poor quality of life and high mortality rate. Anorexia nervosa ranks among the main causes of death among young women. Despite physical and psycho-social impairment, patients suffering from anorexia nervosa do not recognize low body weight and extreme calorie restriction as a clinical problem and are ambivalent towards treatment. Some patients with anorexia nervosa refuse treatments though presenting severe medical complications and having a high mortality risk. Hence the need to evaluate when it could be appropriate to prescribe a compulsory treatment in the more complex cases who refuse interventions, deemed necessary for them. To date, the compulsory treatment in anorexia nervosa is still under debate: some authors take into account the negative impact on the therapeutic relationship, other authors consider it as a compassionate treatment or as life-saving therapy. Indeed, compulsory treatment for eating disorders must always be weighed very carefully because it is considered by law as the highest form of restriction of personal freedom. Political Institutions must provide a clear framework for the society and for professionals, while the health care services must face the problem of the adequacy of available resources (not only in terms of hospital beds but also of skilled professionals) compared to patients’ needs, considering the organization and the integration of clinical services dedicated to the treatment of eating disorders.

KEY WORDS: eating disorders, anorexia nervosa, malnutrition, compulsory treatment.

INTRODUZIONE
I disturbi dell’alimentazione in generale e l’anoressia nervosa in particolare sono malattie mentali associate a grave disabilità, scarsa qualità della vita ed elevato tasso di mortalità e l’anoressia nervosa si pone tra le principali cause di mortalità tra le giovani donne. Il suo tasso grezzo di mortalità, è di circa il 5,1% per decade1, mentre il suo tasso standardizzato è attorno al 6,2%2. In circa due terzi dei casi la morte è la conseguenza della malnutrizione e delle sue complicanze3.
Una recente meta-analisi, che ha coinvolto numerosi studi per complessivi 1,7 milioni di pazienti, ha riportato che l’anoressia nervosa, dopo l’uso di oppiacei, ha il più alto tasso di mortalità standardizzato tra le malattie mentali: sei volte superiore alla popolazione generale, più che doppio rispetto alla schizofrenia o al disturbo bipolare e triplo rispetto alla depressione4. Gli studi longitudinali di esito hanno anche evidenziato che solo il 50% delle persone affette da anoressia nervosa raggiunge una remissione completa, mentre il 30% ha una remissione parziale e il 20% rimane gravemente ammalata5.
Nonostante i danni fisici e psicosociali determinati dall’anoressia nervosa, le persone che ne sono colpite spesso non ritengono il basso peso e la restrizione calorica estrema un problema e sono ambivalenti nei confronti del trattamento. Alcune arrivano a rifiutare le cure, pur presentando gravi complicanze mediche, mettendo in serio pericolo la loro vita. Come gestire queste situazioni è ancora fonte di incertezza e dibattito aperto, sebbene nel Regno Unito e nei Paesi del Nord dell’Europa i casi più complessi che rifiutano interventi ritenuti per loro necessari siano spesso gestiti con il trattamento sanitario obbligatorio (TSO).
A tutt’oggi permangono opinioni divergenti nei confronti del TSO nell’anoressia nervosa: alcuni considerano il TSO negativo per la relazione terapeutica, altri ritengono che debba essere considerato un trattamento compassionevole e come tale attuato, altri ancora che debba essere utilizzato come trattamento salvavita.
Pur tuttavia, le linee guida del National Institute for Clinical Excellence6 ricordano che, in caso di rischio grave e immediato per la vita del paziente con disturbo dell’alimentazione che rifiuta il trattamento, si debba ricorrere a strumenti legali, previsti dalla legislazione inglese come ultima risorsa, in base al Mental Health Act (1983) o al Children Act (1989), che impongano il ricovero ma solo in strutture specializzate e con personale specificamente formato e qualificato.
È da sottolineare che tutte le argomentazioni a favore o contro il TSO nell’anoressia nervosa sono state sostanzialmente basate su principi etici, filosofici e legali, ma non su dati empirici o sui danni organici causati dalla grave malnutrizione.
In Italia nel 2015 è stata presentata dall’onorevole Sara Moretto una proposta di legge (PdL 2944) in «materia di accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per la cura di gravi disturbi del comportamento alimentare». La proposta di legge stabilisce che il TSO possa essere attuato per far fronte a necessità urgenti di trattamenti salvavita in pazienti con imponenti e gravi patologie alimentari attraverso l’introduzione dell’articolo 34-bis nella legge n. 833 del 23 dicembre 1978.
La proposta di legge, inoltre, prevede il riconoscimento di luoghi idonei e specifici ove effettuare il ricovero salvavita, e l’obbligo per le Regioni di individuare, entro due mesi dall’approvazione della legge, sedi appropriate per questi trattamenti in fase acuta al fine di una migliore presa in carico del paziente: non il reparto di psichiatria – come finora accaduto – ma luoghi diversi, uno o due per regione con la presenza di équipe multidisciplinari di cui facciano parte, oltre agli psichiatri, anche medici nutrizionisti, internisti e pediatri, che si attivano al momento del ricovero.
La proposta di legge riguarda solo le situazioni estreme, in cui il soggetto è in pericolo di vita e non è in grado di accettare le cure adeguate al suo stato di salute proprio in conseguenza delle caratteristiche psico-biologiche dell’anoressia nervosa.
QUADRO LEGALE
Attualmente in psichiatria il ricovero d’emergenza è considerato un provvedimento che non è più una drastica risposta difensiva da parte dell’ambiente ma uno strumento terapeutico in situazioni d’urgenza che non possono essere gestite diversamente.
Il TSO in degenza ospedaliera viene considerato dalla giurisprudenza la forma massima della limitazione della libertà personale e pertanto i clinici che pongono in atto questa procedura debbono muoversi all’interno di un complesso sistema prescrittivo. Dal punto di vista normativo la condizione essenziale è il rispetto del dettato costituzionale (art. 32 della Costituzione della Repubblica Italiana) per il quale è lecito curare la salute di un cittadino contro la sua volontà solo nei casi previsti dalla legge.
Le procedure per il TSO vengono attivate quando il dovere di intervenire a beneficio del paziente, pur in conflitto con il dovere di rispettare il diritto alla libertà del cittadino, viene giudicato prevalente su quest’ultimo. Il provvedimento del TSO prova a rendere compatibili due diritti inalienabili del cittadino: la difesa della salute e la libertà individuale nell’esercizio di questo diritto, nel rispetto della dignità personale e con le minori limitazioni possibili ai suoi diritti civili e politici. Tre condizioni devono essere presenti contemporaneamente e devono essere certificate e motivate da un primo medico e convalidate da un secondo medico, che deve appartenere a una struttura pubblica:
1. una condizione di alterazioni psichiche della persona tali da necessitare urgenti interventi terapeutici;
2. rifiuto da parte della persona degli interventi terapeutici proposti;
3. l’impossibilità di adottare tempestive misure extraospedaliere.

Il Sindaco ha 48 ore per disporre tramite ordinanza il TSO.
Il giudice tutelare, entro le successive 48 ore, assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti, provvede con decreto motivato a convalidare o non convalidare il provvedimento.
Il ricovero avviene presso i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC).
La durata massima di un TSO è formalizzata in sette giorni, eventualmente rinnovabili se le condizioni del paziente lo rendano necessario.
Esiste un obbligo giuridico di sottoporsi a cure medico-nutrizionali?
Interrogativi di ordine etico-legale si impongono all’attenzione di medici e operatori sanitari. Il principio di libertà inviolabile della persona sancito dall’art. 13 della Costituzione («La libertà personale è inviolabile») configurerebbe un diritto fondamentale dell’individuo all’autodeterminazione in ordine alla propria salute e alla propria sfera fisica. Sussiste, pertanto, un obbligo per il medico di rispettare la volontà del paziente di “lasciarsi morire di fame”?
In linea di principio l’intervento ordinato a ripristinare lo status di salute nel caso specifico dell’anoressia nervosa si giustifica in caso di necessità e urgenza, di estrema gravità clinica, e la sopravvenuta incapacità di intendere e volere per le alterazioni psicopatologiche. In tutti gli altri casi è dovere del medico cercare il consenso al trattamento di nutrizione artificiale del paziente quando pienamente cosciente e capace di intendere e volere, obiettivo ritenuto prioritario anche per il sostegno psicoterapeutico generalmente accettato dal soggetto con anoressia nervosa ( voluntas aegroti suprema lex).
Una rialimentazione adeguata è più facilmente accettata o tollerata all’interno di una relazione terapeutica di chiarezza e fiducia perché il trattamento medico-chirurgico è retto dal principio di libertà di scelta. Tuttavia si potrebbe configurare, in caso di minore, un obbligo del genitore-tutore di provvedere al mantenimento vitale e dunque a prestare il consenso per l’autorizzazione a trattamenti obbligatori di alimentazione a fronte del rifiuto-rinuncia del minore alle cure mediche.
I clinici debbono tener presente anche il principio di “stato di necessità”, normato dal Codice Penale (CP), dal Codice Civile (CC) e ripreso dalle disposizioni del Codice di Deontologia Medica.
«Quando il medico ravvisi condizioni eccezionali di necessità e urgenza e ove ricorrano oggettive esigenze di salvaguardare la persona dal pericolo attuale di un danno grave non altrimenti evitabile, in particolare quando ha la convinzione che nella situazione con la quale è venuto a contatto ci sia un rischio di danno per la vita e l’integrità delle persone coinvolte – rischio legato non solo al comportamento del paziente ma anche alle caratteristiche dell’ambiente di vita – è tenuto ad adempire il proprio dovere professionale attuando i provvedimenti opportuni e non differibili, nel rispetto della legge (anche di ricovero coatto) attivando anche le altre agenzie dell’emergenza, sia sanitaria che delle forze dell’ordine».
Nelle ipotesi in cui il paziente non possa prestare alcun valido consenso, il medico dovrà assumersi in prima persona ogni responsabilità e, qualora decidesse di intervenire, non sarà punibile purché sussistano i requisiti di cui all’art. 54 del CP, e cioè lo stato di necessità, che risulta integrato quando egli debba agire al fine di salvare il paziente dal pericolo attuale di un grave danno alla persona (cosiddetto “soccorso di necessità”), sempre che il pericolo non sia stato da lui volontariamente causato, né sia altrimenti evitabile e che l’intervento sia proporzionale al pericolo, ovvero purché emerga il proprio obbligo di attivarsi.
Per quanto riguarda i casi in cui non si può chiedere il consenso per estrema urgenza, di cui all’art. 2045 CC, per salvare sé o altri dal pericolo attuale di danno grave, la presenza di uno stato di necessità è obbligatoria. Per reale imminente pericolo di vita si intende che non deve esserci la possibilità di un’alternativa. La presenza di uno stato di necessità è quindi un obbligo; altrimenti c’è il rischio di un coinvolgimento legato alla propria responsabilità professionale (per es., per omicidio colposo).
Per tutte queste variabili il clinico che agisce in questo campo si scontra continuamente con il dilemma tra il diritto all’autonomia del paziente e il dovere medico di curare, potendo rischiare di incorrere in accuse come il sequestro di persona (art. 605 CP) e la violenza privata (art. 46 e 610 CP) o viceversa l’omissione di soccorso (art. 592 CP), l’abbandono d’incapace (art. 491 CP), l’omissione di atti d’ufficio (art. 328 CP), le lesioni personali colpose (art. 590 CP) fino all’omicidio colposo (art. 589 CP) 7.
Consenso informato
Libertà di cura, libertà dalle cure
La corretta e completa informazione del paziente costituisce un presupposto fondamentale della validità del consenso/rifiuto alle cure, che solo in questo caso può effettivamente dirsi “informato”.
L’operatore sanitario ha l’obbligo d’informare in maniera esauriente il paziente sulla sua situazione e i mezzi tramite i quali si tenterà di migliorarla; quest’obbligo va adeguato all’età e all’istruzione del paziente al fine di renderlo consapevole di ciò che sta per affrontare e delle sue conseguenze. Il consenso, pertanto, oltre a essere attuale, deve essere maturo.
Se il paziente dopo aver appreso dettagliatamente la propria situazione deciderà di revocare il consenso, il medico sarà costretto a rispettare la sua volontà potendo solo invitarlo a riesaminare la situazione. Neppure un giudice potrà intervenire imponendo al medico di agire in modo diverso dalle decisioni prese dall’ammalato.
Il consenso informato possiede ormai nella pratica medica una determinazione essenziale, non solo dal punto di vista etico, ma anche perché prescritto dal Codice Deontologico Medico e da una giurisprudenza ormai uniforme e costante. Rappresenta, inoltre, il più fondante dei fattori necessari a costituire, tra medico e paziente, la fiducia necessaria per creare un’alleanza terapeutica.
Nelle linee guida della Società Italiana di Psicopatologia (SOPSI 1998) si rileva come il consenso richieda la presenza di alcune capacità specifiche:
• di comprendere le informazioni essenziali;
• di elaborare razionalmente tali informazioni;
• di valutare la situazione e le probabili conseguenze di una scelta;
• di comunicare una scelta.

La libertà di autodeterminazione del paziente è riconosciuta non solo in Italia dalla Costituzione della Repubblica e da un insieme di leggi che la normano, ma anche a livello internazionale e sovranazionale.
Normativa internazionale
• Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina (Convenzione di Oviedo), 1997;
• Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, detta anche Carta di Nizza, 2000;
• Carta dei diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione Europea, 2007;
• Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (CRPD), risoluzione 18 dell’ONU del 2008.
Comitato Nazionale per la Bioetica
«Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico» (24 ottobre 2008).
All’interno della relazione finale del Comitato Nazionale per la Bioetica (2008) sono emerse diverse opinioni a livello sia bio-giuridico sia bio-etico, per quel che riguarda l’ipotesi del rifiuto/rinuncia alle cure. Da un lato vi è la posizione secondo cui la vita umana costituisce un bene indisponibile, da tutelare e preservare sempre, garantendo adeguate cure mediche. Dall’altro, la posizione che considera il bene vita come un bene senza dubbio primario e meritevole della massima tutela, ma non per questo assoggettato a un regime di assoluta indisponibilità, dovendosi tenere in considerazione il valore che il singolo vi attribuisce alla luce dei principi e delle scelte morali che riflettono il senso che ognuno conferisce alla propria esistenza.
Sintesi bio-giuridica: il diritto alla rinuncia e al rifiuto delle cure va riconosciuto, ribadito, tutelato, promosso. È necessario orientare, nel processo della loro formazione bio-giuridica, le coscienze dei medici ad acquisire un profondo rispetto verso l’esercizio, da parte dei malati, di un simile, tragico diritto.
Sintesi bio-etica: la rinuncia e il rifiuto delle cure salvavita da parte di un paziente vanno interpretati non come l’esercizio di un diritto, ma come il segno di una situazione psicologica ed esistenziale tragicissima (a volte prodotta da un colpevole abbandono terapeutico).
È necessario orientare, nel processo della loro formazione bio-giuridica, le coscienze dei medici ad acquisire questa consapevolezza e a operare costantemente per la difesa della vita.
Anche se “salvavita”, la rinuncia a taluni interventi terapeutici di tipo farmacologico, rianimatorio o chirurgico può risultare lecita (per es., a motivo della straordinarietà dell’intervento, della scarsa efficacia o della particolare gravosità per il paziente) e un’eventuale prosecuzione di tali interventi contra voluntatem aegroti da parte del medico sarebbe ingiustificata.
Al contrario, cure quotidiane e indispensabili come – ma non solo – l’idratazione e l’alimentazione (anche se somministrate per via enterale o parenterale), qualora disponibili attraverso il sistema sanitario e sino a quando risultino realmente efficaci, a motivo delle sfavorevoli condizioni cliniche in cui versa il paziente, utili a fornire sostanze essenziali per i processi metabolici dell’organismo umano, rappresentano sempre un mezzo ordinario e proporzionato in ordine alla sopravvivenza del paziente.
Altri ritengono che la nutrizione e l’idratazione artificiale costituiscano esercizio di sapere clinico (e non di pietas o di caritas) e la morte appare comunque quale conseguenza dell’incapacità del soggetto di alimentarsi naturalmente e dunque di uno stato di malattia.
Si pensi al documento approvato dalla Società Italiana di Nutrizione Parenterale ed Enterale (SINPE, 2007), che ha ricondotto nell’alveo dei trattamenti sanitari gli atti di nutrizione artificiale.
In conclusione, se in casi estremi di necessità e urgenza il ricorso a tali forme di sostentamento vitale potrebbe avvenire anche in assenza della (impossibile) manifestazione di volontà del paziente, ciò non ne farebbe venir meno la qualificazione di questi atti quali trattamenti sanitari, anche rifiutabili in momenti successivi a quelli dell’urgenza terapeutica.
CAPACITÀ MENTALE
Un problema da affrontare non ancora risolto è la questione riguardante la “capacità mentale” dei soggetti affetti da anoressia nervosa nell’esprimere il consenso sulle possibilità di trattamento. Questo aspetto è fondamentale perché è strettamente legato alla discussione riguardante i pro e i contro del TSO.
Per rifiutare o fornire il proprio consenso a un trattamento, una persona deve essere in grado di farlo volontariamente: in questo caso una volontà libera comporta la possibilità di effettuare scelte razionali, sia in termini cognitivi sia in termini affettivi. Il soggetto deve quindi essere capace mentalmente di compiere un processo decisionale razionale.
Generalmente, nell’anoressia nervosa il motivo urgente dell’ospedalizzazione è per lo più costituito dalla grave compromissione fisica che richiede un trattamento di carattere medico eventualmente comprensivo della rialimentazione, anche senza la presenza di alterazioni psichiche tali da richiedere di per sé un trattamento urgente, come previsto dalla legge8.
Tuttavia, il punto centrale della norma che regola il TSO attualmente non è il rifiuto dell’intervento medico ma il bisogno di intervento a causa della presenza di un disturbo psichico.
Per il trattamento delle urgenze/emergenze fisiche occorre comunque l’assenso del paziente, salvo per quel che è previsto per l’urgenza e lo stato di pericolo immediato di vita. Tuttavia, lo stesso rifiuto del trattamento di una grave condizione medica può essere considerato sintomo di una grave alterazione psichica che, però, deve essere diagnosticata clinicamente e non solo presunta.
Nei soggetti con anoressia nervosa possono essere presenti alterazioni mentali che possono consentire il TSO per problemi psichici, pensiamo alla depressione, al rischio di suicidio, all’ideazione delirante.
È necessario verificare se il paziente possiede una chiara comprensione della natura e delle conseguenze della sua decisione (competenza cognitiva) e inoltre se possiede un’apprezzabile risonanza emotiva in merito alla sua decisione, per sé e per i suoi cari (competenza emotiva). L’insieme di queste competenze implica la precisa comprensione delle proprie condizioni, la comprensione delle alternative possibili, la comprensione dell’impatto che il disturbo ha sulla personale capacità di formulare decisioni, non solo sul piano intellettuale, il “sapere”, ma anche sul piano emotivo, il “credere per vero” e dunque sentire emotivamente.
In molti soggetti con disturbi dell’alimentazione – pur senza una marcata compromissione del funzionamento globale della persona – le alterazioni del pensiero, delle capacità di giudizio e gli specifici disturbi del comportamento alimentare, con conseguente incapacità di provvedere alle più banali necessità di sopravvivenza, sono tali da indurre a prendere in considerazione l’obbligatorietà del trattamento. Molto frequentemente, infatti, tali alterazioni (ma anche gli aspetti depressivi e ossessivi) si modificano in primo luogo con il trattamento nutrizionale, non necessariamente forzato. Questo perché un apporto nutrizionale adeguato, il miglioramento e la stabilizzazione delle condizioni fisiche sono il principale presupposto per un miglioramento del quadro psichico: in circostanze di grave malnutrizione la rialimentazione consente al soggetto di recuperare le competenze cognitive e psichiche e, frequentemente, di accettare il trattamento inizialmente rifiutato. Da questo punto di vista l’obbligatorietà del trattamento nutrizionale si configura esattamente alla stessa stregua di qualunque altro trattamento psicofarmacologico avente l’obiettivo di permettere la successiva adesione alla terapia attraverso il superamento della fase di acuzie psicopatologica che ne determina il rifiuto.
Va ribadito che solo l’attualità delle alterazioni psichiche e il rifiuto attuale al trattamento necessario possono giustificare il ricorso al TSO.
I soggetti con gravi sintomi legati alla psicopatologia dell’alimentazione presentano spesso, ma non sempre, un deficit cognitivo, sia nella memorizzazione sia nella valutazione e nella consapevolezza di malattia. I soggetti, anche fortemente emaciati, pur riuscendo a cogliere il potenziale rischio di morte della loro condizione, lo scotomizzano o lo negano, come se lo rimandassero nel tempo, non percependo pienamente la realtà immanente del rischio di morte che lo stato di grave malnutrizione comporta.
In alcuni soggetti, dunque, la negazione della malattia e della gravità delle condizioni mediche, la paura di ingrassare, il disturbo dell’immagine corporea, l’inflessibilità cognitiva, inducono al rifiuto del trattamento anche in condizioni di grave rischio per la sopravvivenza.
Pertanto, non è sempre possibile definire con certezza se e quando una persona affetta da anoressia nervosa ha la capacità di dare o rifiutare il consenso al trattamento medico, essendo ancora decisamente insufficienti i dati provenienti dalla letteratura.
In diverse circostanze, inoltre, anche quando il ricovero è volontario, si può presentare la necessità di un intervento parzialmente coercitivo, in ragione dell’eventuale ambivalenza del paziente rispetto al progetto di riabilitazione nutrizionale, delle possibili fughe dal reparto, dell’eccessiva attività fisica e di comportamenti autolesivi o autosoppressivi8.
Come per le altre patologie psichiatriche, la decisone riguardo la valutazione della capacità di consenso dovrebbe derivare da un accurato bilanciamento tra la necessità di rispettare l’autonomia del paziente e la necessità di proteggerlo dalle conseguenze di una decisione sbagliata a causa delle alterazioni cognitive.
Nella realtà dei fatti l’anoressia nervosa si trova in una situazione di assoluta particolarità: non è un disturbo a carattere francamente delirante e l’unica vera terapia sostanzialmente rifiutata è il cibo per cui non può essere immediata la dimostrazione delle condizioni enunciate nell’art. 34 della legge 8337.
TRATTAMENTI SANITARI OBBLIGATORI NEI DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE
Il ricorso al TSO
Sebbene non ci siano dati precisi, in Italia il ricorso al TSO per l’anoressia nervosa sembra essere tra i più bassi in Europa. Questa osservazione da un lato potrebbe essere valutata positivamente quale capacità dei centri specializzati per la cura dei disturbi dell’alimentazione di trattare una quota più elevata di pazienti senza fare ricorso al trattamento obbligatorio, dall’altro potrebbe indicare che una percentuale non trascurabile di pazienti gravi che rifiutano il trattamento non viene adeguatamente trattata. Oltre alle diversità nelle legislazioni dei diversi Paesi, che sembrano comunque ispirarsi agli stessi principi di tutela della salute e di tutela dei diritti della persona malata, il dato potrebbe essere ragionevolmente attribuito a una diversità nelle procedure operative adottate per realizzare il trattamento obbligatorio e, soprattutto, alla diversità delle strutture in cui l’ospedalizzazione può essere effettuata. In Italia, infatti, il TSO può essere effettuato soltanto negli SPDC – in realtà la legge non esclude di poter effettuare un trattamento obbligatorio in altri reparti – ma problemi operativi ne escludono la fattibilità. In Australia, nel Regno Unito, negli Stati Uniti e nei Paesi scandinavi i pazienti con anoressia che rifiutano un trattamento considerato necessario vengono ricoverati in strutture specifiche finalizzate al trattamento dei disturbi dell’alimentazione. Queste strutture prevedono l’utilizzazione di un programma di trattamento e di un approccio terapeutico in cui gli aspetti internistici, la riabilitazione nutrizionale, l’educazione alimentare, sono integrati con gli interventi psicologici e psichiatrici mirati a risolvere la psicopatologia alla base e vengono trattati da un’équipe multidisciplinare specificamente formata.
Negli ultimi anni la letteratura sui ricoveri senza consenso nell’anoressia nervosa è cresciuta ma sono ancora pochi i lavori che riportano la percentuale dei ricoveri obbligatori sul totale di ricoveri.
I modesti dati epidemiologici a livello internazionale riportano percentuali di ricovero obbligatorio, attraverso il Mental Health Act nel Regno Unito, tra l’1,5% e l’11,5% di tutti i ricoveri per disturbi dell’alimentazione nel periodo 1980-19899,10. Più recentemente un’indagine ha riportato percentuali di ricoveri obbligatori in Irlanda e Regno Unito intorno all’8% di tutti i ricoveri per disturbi dell’alimentazione (Royal College of Psychiatrists’ Section of Eating Disorders, 2012).
Frequenza del ricorso al TSO in Italia
I dati disponibili sono riferiti alla sola regione Veneto – popolazione totale 4.800.000. Nel periodo tra il 2000 e il 2007 sono stati effettuati 2978 ricoveri per disturbi dell’alimentazione (372/anno), in strutture sanitarie pubbliche e private (reparti internistici e specialistici, reparti psichiatrici, case di cura, strutture riabilitative ospedaliere) di cui 2463 (82%) per anoressia nervosa (308/anno).
Nello stesso periodo negli SPDC sono stati effettuati 302 ricoveri per disturbi dell’alimentazione, di cui 207 (68%) per anoressia nervosa (26/anno). Tra il 2000 e il 2007 i TSO in pazienti con anoressia nervosa sono stati 7, che corrispondono allo 0,28% del totale dei ricoveri per anoressia nervosa e al 3,4% dei ricoveri per anoressia nervosa negli SPDC. In Veneto la percentuale rilevata dei TSO sul totale dei ricoveri negli SPDC è del 5,2%8.
Uno sguardo alla letteratura internazionale
Per i pazienti che possono avere bisogno di un trattamento obbligatorio, la letteratura evidenzia che la maggior parte dei casi è rappresentata da coloro che hanno maggiori comorbilità psichiatriche, un maggior numero di ricoveri in anamnesi, maggiore evidenza di abusi nell’infanzia e, spesso, un indice di massa corporea minore rispetto ai pazienti che si sottopongono a trattamenti volontari11-16.
Una rassegna del 201417 riporta la durata di malattia quale maggiore predittore di ricovero obbligatorio insieme con la più elevata comorbilità psichiatrica e a un numero maggiore di ricoveri precedenti e di episodi di autolesionismo, suggerendo che il trattamento obbligatorio non costituisce tanto una misura legata alla gravità dei sintomi del singolo disturbo dell’alimentazione, quanto una risposta alla complessità del quadro clinico che il soggetto presenta.
Sugli esiti dei trattamenti obbligatori i dati dedotti dalla letteratura sono modesti, ottenuti su una popolazione decisamente esigua e condotti con metodiche difformi: nessuno studio ha finora dimostrato che il TSO riduca il tasso di mortalità nell’anoressia nervosa, sebbene nel breve termine risulti essere efficace in particolar modo nei pazienti a rischio di vita.
Le evidenze che si possono ricavare dall’analisi dei pochi dati sono le seguenti:
• i ricoveri obbligatori hanno una durata maggiore rispetto ai ricoveri volontari;
• l’aumento di peso ottenuto è lievemente superiore o uguale rispetto a quello dei pazienti ricoverati volontariamente;
• il follow-up a 5 anni mostra un tasso di mortalità superiore al gruppo “ricoveri volontari”, spiegato dagli autori con la maggiore gravità del quadro clinico dei soggetti ricoverati obbligatoriamente18.

Quanto osservato nei disturbi dell’alimentazione trova un suo corrispettivo nella popolazione psichiatrica generale, in cui appare evidente come il rifiuto del trattamento sia associato a una maggiore gravità psicopatologica e a un minore funzionamento generale.
Pur tuttavia, un recente studio del gruppo londinese19 che ha confrontato 81 pazienti ricoverati al Maudsley Hospital in maniera obbligatoria con altrettanti pazienti ricoverati volontariamente tra il 1983 e il 1995 ha riportato che sebbene nei primi 5 anni la mortalità nel gruppo con ricovero obbligatorio sia stata più alta rispetto al gruppo dei ricoveri volontari, la differenza tra i due gruppi si riduce al follow-up medio di 19,3 (14,4-26,3) anni. Va ricordato che nell’intero campione, comprensivo dei pazienti ricoverati sia volontariamente sia in forma obbligatoria, si sono verificati durante il periodo di follow-up 27 decessi (16,6%), dato che evidenzia la limitata efficacia dei trattamenti attuali, inclusi quelli obbligatori, nel limitare l’elevata mortalità associata all’anoressia nervosa e che indica la necessità di sviluppare trattamenti più efficaci, precoci e intensivi rispetto a quelli disponibili.
In un altro studio molto recente20, condotto su 202 pazienti con anoressia nervosa o con disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo ricoverati in ambiente ospedaliero, sono stati valutati la gravità del quadro clinico e il livello di coercizione percepita legata al ricovero stesso. I risultati ottenuti hanno evidenziato come quest’ultimo elemento fosse associato a una maggiore propensione alla magrezza, a una maggiore insoddisfazione corporea ma non fosse associato all’IMC. La coercizione percepita non risultava correlata con la lunghezza del ricovero, con l’andamento clinico (anche se era predittiva di un maggior drop-out) e non sembrava minare la possibilità di stabilire un’efficace alleanza terapeutica tra paziente e curante.
I più significativi fattori predittivi di mortalità post-ricovero non includono l’obbligatorietà o la volontarietà del ricovero ma sostanzialmente la durata e la gravità della malattia al momento del ricovero21.
ULTERIORI STRUMENTI
Il testamento biologico
Una dichiarazione anticipata di trattamento, detta anche “testamento biologico” (nel mondo anglosassone lo stesso documento viene anche chiamato “living will”, impropriamente tradotto come “volontà del vivente”) è l’espressione della volontà da parte di una persona (testatore) fornita in condizioni di lucidità mentale, in merito alle terapie che intende o non intende accettare nell’eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte (consenso informato).
Non esistendo ancora in Italia una legge specifica sul testamento biologico, la formalizzazione per un cittadino italiano della propria espressione di volontà riguardo ai trattamenti sanitari che desidera accettare o rifiutare può variare da caso a caso, anche perché il testatore scrive cosa pensa in quel momento senza specifiche condizioni, spesso riferendosi ad argomenti eterogenei e non tutte le sue volontà potrebbero essere considerate bioeticamente e legalmente accettabili.
L’amministrazione di sostegno
La legge del 9 gennaio 2004 sull’amministrazione di sostegno (AdS) ha spostato il fuoco della tutela dalla protezione di interessi economici, come tipicamente avveniva per gli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, alla tutela della persona in quanto tale ancorché priva in tutto o in parte di autonomia, mutando profondamente il tradizionale modo di intendere la tutela dell’incapace.
L’adozione dell’AdS può dunque ben trovare spazio in tutte quelle situazioni in cui la protezione del beneficiario è finalizzata alla cura della persona, in ausilio cioè delle sue necessità terapeutiche e assistenziali, specie quando incerta e incostante appare l’adesione al trattamento.
Il ricorso all’AdS è una misura orientata al rispetto delle residue forme di autonomia, alla cura complessiva della persona e alla sua tutela e diviene pertanto uno strumento duttile nella sua concreta applicabilità, adattabile alle esigenze specifiche del beneficiario, modificabile in corso d’opera, più aderente in definitiva a un modo eticamente attento di intendere la tutela dell’incapace.
Il giudice tutelare potrà naturalmente sempre modificare e integrare le proprie iniziali determinazioni in corso d’opera, sia d’ufficio sia sulla scorta di indicazioni dei servizi socio-sanitari territoriali22.
Le possibilità d’uso di questo strumento normativo appaiono molteplici ma è sul problema della continuità del trattamento in pazienti con scarsa consapevolezza di malattia che il suo impiego sembra divenire di particolare aiuto.
Già la Società Italiana di Psichiatria (SIP) in un documento del 2004 (Proposta per l’integrazione della Legge 833/78), all’indomani del varo della Legge 6/04, ipotizzava il ricorso all’AdS proprio ai fini di garantire la massima continuità delle cure, suggerendo peraltro che il provvedimento di ricorso all’AdS contenesse concrete indicazioni sul programma individuale di trattamento terapeutico.
Il ricorso all’AdS può essere considerato una risorsa in un’ottica terapeutica in quanto può svolgere diverse funzioni:
• di supporto nelle opzioni terapeutiche perché l’AdS sarebbe un valido aiuto nell’assumere scelte che sarebbero a quel punto pienamente informate grazie al suo apporto;
• di garanzia perché l’AdS legittima scelte di trattamenti più impegnative come la permanenza in strutture riabilitative;
• vicariante, cioè sostitutiva in tutti i casi di perdita temporanea o permanente delle capacità di consentire la necessità di cure22.

Come riferimento si riportano le disposizioni di una sentenza del Tribunale di Roma Sezione prima bis civile Ufficio del giudice tutelare in data 6 dicembre 2010 a proposito della nomina di AdS, richiesta dai genitori, per una paziente maggiorenne affetta da anoressia nervosa da molti anni, con precarie condizioni fisiche legate al basso IMC, con uso improprio di lassativi e diuretici e frequenti fasi di squilibrio elettrolitico, che necessitava di ricovero presso una struttura residenziale terapeutico-riabilitativa ma che negava sia la malattia sia il consenso al ricovero.
La sentenza dispone che:
1. è necessario disciplinare la misura protettiva richiesta in modo da assicurare, per quanto possibile, la fruizione di cure volte al recupero del peso naturale e una tutela preventiva della beneficiaria dal rischio di comportamenti dalla stessa posti in essere in grave pregiudizio della propria salute:
a) autorizzando l’AdS a compiere ogni attività volta a sostenere, persuadere e indirizzare la beneficiaria con lo specifico obiettivo di realizzarne e mantenerne il ricovero presso un centro specializzato nella cura dei disturbi dell’alimentazione;
b) interdicendo alla beneficiaria l’acquisto presso le farmacie di diuretici o lassativi;
c) disponendo che l’AdS solleciti l’intervento dell’autorità sanitaria per sottoporla a trattamento nutrizionale integrativo qualora la stessa, a causa della patologia anoressica da cui è affetta, diminuisca il peso corporeo oltre il limite di kg 35, considerato in letteratura medica quale soglia minima per ritenere la beneficiaria al riparo da potenziale rischio-vita;
2. che abbia al contempo una particolare competenza nel campo delle relazioni terapeutiche, individuata dall’Ufficio nella dott.ssa H, psicologa e psicoterapeuta, che ha dato la propria disponibilità ad assumere l’incarico;
3. è pertanto fondata la richiesta di un amministratore di sostegno che si occupi esclusivamente del compimento degli atti specificamente indicati nell’interesse della beneficiaria che, a cagione del suo stato di salute, ha necessità di cure, trattamenti medici terapeutici e assistenza continui.
CRITICITÀ
Le criticità che emergono dalla possibilità di effettuare un TSO nei casi gravi, in cui la vita stessa dei pazienti affetti da disturbo dell’alimentazione è in sostanziale pericolo o per grave malnutrizione o per l’aggravarsi di patologie psichiatriche particolarmente invasive, sono legate in particolare:
a) al luogo in cui va effettuato il TSO;
b) al tempo di degenza e alla presenza di una filiera di strutture specialistiche specifiche per il trattamento dei disturbi dell’alimentazione, che devono consentire una presa in carico globale di questi particolari pazienti, fragili sia dal punto di vista psichiatrico-psicologico sia da quello internistico, nei diversi setting di cura;
c) al protocollo d’intervento terapeutico-riabilitativo;
d) alle possibili ripercussioni sulla relazione terapeutica medico-paziente;
e) alle specificità per i pazienti minori d’età, che rappresentano una parte relativamente cospicua di pazienti.
a) Luogo
Il luogo è determinante per la presenza delle diverse figure professionali coinvolte. Il sistema di cura ottimale dei disturbi dell’alimentazione deve essere svolto negli ambienti idonei – l’ambulatorio, per la maggioranza dei casi, o in regime di semi-residenzialità o residenzialità per le situazioni più complesse –, ma sempre con il consenso del paziente e, nei casi in cui si veda la pericolosità per la vita stessa del paziente, va valutato anche un livello estremo di emergenza che richieda una forzatura dell’assenza del consenso.
Nel Regno Unito e in Norvegia, i pazienti trattati in regime di TSO sono ricoverati in reparti specialistici per i disturbi dell’alimentazione assieme a pazienti che hanno accettato il trattamento volontariamente. Questa scelta presenta vantaggi e svantaggi. I vantaggi sono che i pazienti in TSO sono trattati da un’équipe specializzata nella cura dei casi gravi di anoressia nervosa. Gli svantaggi, secondo alcuni, sono che i pazienti in TSO potrebbero influenzare negativamente l’adesione al trattamento dei pazienti ricoverati volontariamente.
Il TSO ha un senso se esiste un prima e un dopo, in una rete assistenziale che comprenda tutta la filiera dei possibili setting di cura. Infatti, il TSO deve intendersi come mezzo estremo, volto a favorire la presa in carico e il trattamento. Senza questi requisiti si trasformerebbe in mera coercizione.
Gli SPDC sono, per diversi motivi, inadeguati alla cura delle patologie alimentari; si tratta di servizi con 14-16 posti letto, dedicati al trattamento delle fasi acute della malattia psichiatrica, con turnover relativamente rapido e con la presenza di pazienti che possono presentare notevole agitazione psicomotoria e comportamenti a volte aggressivi e violenti. Il personale degli SPDC non è formato per la gestione dei pazienti con esigenze così particolari dal punto di vista del comportamento alimentare e delle complicanze mediche. Mancano le figure di riferimento sostanziali per assicurare la terapia salvavita dei pazienti con gravi problemi alimentari, come internisti, nutrizionisti ecc., così come nei reparti di medicina interna non vi sono competenze necessarie quali quelle psichiatriche e psicologiche.
b) Durata
Il TSO dovrà avere la durata minima possibile ovvero quella necessaria a ottenere un compenso psichico e comportamentale necessario all’adesione volontaria al trattamento, garantendo nel contempo la sopravvivenza del paziente e non certamente quella di favorire una riabilitazione nutrizionale che dovrà svolgersi poi in strutture idonee, quelle previste nella filiera di assistenza specifica per i disturbi alimentari, come indicato dalla PdL 2944.
In qualsiasi reparto si debbano ricoverare questi pazienti, anche specialistico, si deve fare in modo che il ricovero di necessità sia limitato nel tempo per non creare confusione tra i setting di cura.
c) Protocollo d’intervento
Non esiste ancora un consenso sul protocollo di intervento da applicare durante il TSO, che andrebbe costruito seguendo le stesse indicazioni utilizzate per i pazienti affetti da forme gravi di anoressia nervosa23. Nella maggior parte dei casi il trattamento utilizza la nutrizione artificiale attraverso il sondino naso-gastrico o altri metodi invasivi. In altri casi è utilizzata la procedura dei pasti assistiti da parte di un dietista o un infermiere. Non ci sono dati che indichino quale delle due strategie sia più efficace nel lungo termine. Ovviamente è compito dei curanti individuare il metodo meno coercitivo possibile, stanti le condizioni del paziente, e applicare per il minor tempo possibile i metodi più invasivi. Occorre, inoltre, prestare attenzione anche a importanti aspetti psicologici legati alla motivazione del paziente e al nucleo psicopatologico centrale dell’anoressia nervosa ovvero la necessità di controllo in generale e in particolare sull’alimentazione, sul peso e sulle forme del corpo che, inevitabilmente, vengono interessati durante il TSO.
Infine, non sono ancora state sviluppate strategie e procedure efficaci per aiutare i pazienti che concludono il TSO a prevenire la ricaduta dopo la dimissione. Interventi ospedalieri efficaci dovrebbero prevedere il coinvolgimento attivo del paziente nel processo di cura, il costante lavoro sulla motivazione al trattamento e lo sviluppo condiviso di specifiche procedure per prevenire la ricaduta dopo la dimissione24.
Per tale motivo è sostanziale sostenere questi pazienti attraverso “dimissioni protette” perché nel periodo successivo al ricovero sono particolarmente vulnerabili alla ricaduta. Questo è il presupposto per il quale la PdL 2944 chiede che le Regioni identifichino i contesti nei quali è possibile erogare un TSO, in modo da garantire un ambiente idoneo e sicuro ma, soprattutto, per la possibilità di un passaggio diretto dal contesto ospedaliero a quello riabilitativo specialistico.
d) Relazione terapeutica
Tra le criticità sollevate, una delle più importanti riguarda la possibilità di minare, più o meno irrimediabilmente, la relazione terapeutica medico-paziente nell’imporre trattamenti terapeutici coatti.
I dati della letteratura sono modesti anche su questo argomento, anche se uno studio25 riguardante il grado di coercizione percepito all’ingresso e dopo due settimane da 229 persone ricoverate per disturbi dell’alimentazione rilevava che i soggetti affetti da anoressia nervosa, soprattutto se adolescenti, soffrivano molto per il ricovero; tuttavia dopo due settimane quasi la metà di essi (41%) lo giudicava utile e indispensabile.
È da sottolineare che in nessuno studio è stato riferito un peggioramento della relazione terapeutica nei soggetti ricoverati obbligatoriamente e anzi in alcune ricerche12,26 molti soggetti, alla fine del trattamento ospedaliero, hanno riconosciuto l’opportunità del ricovero come salvavita.
Un lavoro del 2008 riportava che «ciò che contava per la maggior parte dei soggetti non era se essi avevano una percezione della restrizione della libertà di scelta ma la natura della loro relazione con i genitori o con i professionisti»27.
e) Pazienti minori
Particolare complessità riguarda il TSO nei pazienti minori per tutte le eventuali problematiche legali e cliniche associate.
Il cervello dell’adolescente è in evoluzione e la malnutrizione, oltre a contribuire al mantenimento della psicopatologia e alla sua inevitabile cronicizzazione, lo può danneggiare anche irreversibilmente.
Inoltre, negli adolescenti che ancora non hanno sviluppato un chiaro senso di sé in assenza di malattia, l’anoressia nervosa può essere vissuta come un elemento strutturale dell’identità stessa della persona e pertanto, anche se razionalmente essi sono in grado di identificare i rischi associati, non riescono ad accettare un trattamento perché questo significherebbe perdere una parte di sé e comunque eliciterebbe una intollerabile paura di perdere il controllo.
Nei minori la capacità di esprimere un consenso valido è considerata imperfetta e incompleta e la competenza formale all’espressione del consenso è obbligatoriamente in capo ai genitori o agli esercenti la potestà genitoriale, il cui consenso è sufficiente a fare ritenere volontario il ricovero del minore.
I genitori o tutori in ogni caso non potranno avere “parere definitivo” sul percorso da seguire. La scelta, infatti, nel caso sia coinvolto un minore o un interdetto, può essere sottoposta al vaglio del giudice tutelare che potrà anche prendere una decisione diversa da quella dei tutori, nel caso consideri questa più favorevole agli interessi del minore28.
Da un punto di vista clinico non esiste ancora un consenso sull’applicare o meno il TSO precocemente nel corso dell’anoressia nervosa per prevenire il deterioramento dei pazienti. Inoltre, non esistono studi che abbiano confrontato un TSO precoce o tardivo sull’esito a lungo termine. Un argomento a favore di un intervento precoce è che potrebbe favorire un accorciamento della durata del disturbo e influenzare positivamente la prognosi (se si fa un’analogia con la schizofrenia la durata della psicosi non trattata è un importante fattore prognostico). Tuttavia, l’autonomia del paziente non deve essere limitata con leggerezza perché, anche se il risultato a breve termine del TSO potrebbe sembrare favorevole, gli esiti a lungo termine non sono ancora stabiliti con certezza.
Nell’ambito dei minori è comunque opportuno che si attivino delle strutture di ricovero specifiche in luogo delle ordinarie strutture di ricovero ospedaliero psichiatriche o pediatriche.
I minori, al termine dell’eventuale parentesi ospedaliera acuta, hanno bisogno di spazi terapeutici riabilitativi multidisciplinari anche di lunga durata.
CONCLUSIONI
Il trattamento obbligatorio deve essere sempre ponderato con la massima attenzione perché viene considerato dalla legge la forma massima della limitazione della libertà personale e, pertanto, il ricovero per necessità deve essere considerato solo un momento puntiforme, seppure drammatico e necessario in alcuni particolari casi, del percorso di cura di pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione.
Le istituzioni sanitarie debbono sempre porsi il problema dell’adeguatezza delle risorse disponibili (non solo in termini di posti letto ma anche di operatori qualificati) rispetto ai bisogni degli utenti, dell’organizzazione e dell’integrazione dei servizi sul territorio dedicati al trattamento di questi disturbi.
I disturbi dell’alimentazione sono patologie inserite nei LEA da tempo; è pertanto necessario che in ogni ASL siano formati team specialistici dedicati che rispondano ai requisiti necessari al corretto trattamento, nonché almeno a livello regionale strutture per il ricovero di necessità, nei casi gravi in cui esiste un concreto pericolo di vita. Tali team si attiveranno in base a protocolli specifici di intervento, secondo buone pratiche nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione in maniera da riportare nell’ordinaria gestione di presa in carico e di terapia quelli che sono eventi eccezionali ovvero gli interventi fatti senza il consenso del paziente.
La PdL 2944, pur riguardando una popolazione numericamente contenuta, può rappresentare un’occasione, per le associazioni dei pazienti e dei familiari e per le società scientifiche che si occupano di disturbi dell’alimentazione, al fine di sollecitare le Regioni e le ASL a mettere in atto percorsi di cura integrati per il trattamento, in cui il TSO, come intervento di necessità, sia previsto e normato a maggiore tutela di questi pazienti fragili e a rischio di vita.

Ringraziamenti: gli autori ringraziano la Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare (SISDCA) per il supporto logistico.
Conflitto di interesse: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interesse.
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