Il colloquio in situazioni psichiatriche di crisi

Clinical interview in psychiatric difficult situations

LILIANA LORETTU1, GIAN CARLO NIVOLI1, PAOLO MILIA1, CRISTIANO DEPALMAS1,
MASSIMO CLERICI
2, ALESSANDRA M.A. NIVOLI1
*E-mail: giancarlonivoli@gmail.com

1Clinica Psichiatrica Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, AOU Sassari, Università di Sassari
2Dipartimento di Psichiatria, Università Milano-Bicocca, Ospedale San Gerardo, Monza


RIASSUNTO. Sono descritti i principi fondamentali alla base di un efficace colloquio clinico in situazioni psichiatriche difficili (pazienti violenti o suicidari, vittime di gravi danni fisici e psichici non disponibili o impossibilitati a comunicare con il terapeuta, autori di richieste inadeguate, dissociali, impossibili o inconciliabili con il ruolo di terapeuta). Lo scopo è fornire all’operatore psichiatrico competenze utili a una gestione ottimale del colloquio in situazioni difficili sia sul piano diagnostico che terapeutico. Ci si è basati sull’esame della letteratura e sull’esperienza personale degli autori e sono state messe in luce 18 ipotesi di lavoro che, seppure non prive di alcune criticità, si mostrano strumenti vantaggiosi da adottare con efficacia nelle situazioni che presentano difficoltà al colloquio psichiatrico. Ulteriori studi potranno approfondire sotto l’aspetto clinico, attuariale e statistico la validità clinica dei principi trattati nelle situazioni di crisi con difficoltà al colloquio, in rapporto anche a specifiche tipologie di pazienti, per una sempre più aggiornata formazione professionale degli operatori nel campo della salute mentale.

PAROLE CHIAVE: colloquio clinico, crisi, violenza, vittimologia.


SUMMARY. There are here described a number of basic principles underlying an effective clinical interview in psychiatric difficult situations (violent or suicidal patients, victims of serious physical and psychological damages, authors of inadequate or anti-social requests to the therapist). The aim of the present study is to provide the psychiatric operator with useful skills for the optimal management of the interview in difficult situations both at diagnostically and therapeutically level. The methodology was based on examination of the literature and personal experience of the authors. The authors highlighted 18 working hypothesis that may represent beneficial instruments in situations of difficult psychiatric interview. Further studies will deepen under the clinical, actuarial and statistical validity the principles covered in various clinical and crisis situations with difficulty to the interview, in relation also to specific types of patients for a more updated training of the operators in the field of mental health.

KEY WORDS: clinical interview, crisis, violence, victimology.

INTRODUZIONE
Le situazioni psichiatriche difficili sono trattate dalla letteratura sotto vari aspetti che mettono in luce la grande variabilità delle stesse nella pratica clinica. Ricordiamo: l’esame di situazioni numerose e dettagliate di crisi con l’illustrazione di quello che bisogna e non bisogna fare1; l’esame di numerose situazioni nelle quali il paziente cerca di far assumere al terapeuta un ruolo non terapeutico con l’illustrazione del ragionamento clinico corretto e non corretto2; i suggerimenti clinici nel gestire in acuto e cronico numerose personalità difficili3-5; l’approccio psicoterapico a pazienti difficili per la presenza di crisi emozionali che li rende dolorosamente impotenti e sofferenti3,6,7; gli interventi adeguati e non adeguati in specifiche situazioni vittimologiche in caso di emergenza8-10, nel corso di colloquio con pazienti a rischio di comportamento violento sulla persona11-15; i suggerimenti utili ai fini della sicurezza fisica degli operatori della salute medica e psichiatrica16-18; la sensibilizzazione alle collusioni non terapeutiche tra psicopatologia del paziente e psicopatologia del terapeuta19-21. La letteratura, privilegiando i bisogni umani di base e l’aspetto positivo e terapeutico delle emozioni, propone strumenti terapeutici che competono agli operatori della salute mentale in tema di negoziazione22,23, di negoziato emotivo24, di negoziato emotivo in situazioni di crisi25-26, di comunicazione verbale non violenta e gestione della rabbia28, di tecniche di pacificazione28-30. Questi strumenti, già mostratisi vantaggiosi nella gestione di socialità affermative e creative anche in conflitti interpersonali di carattere politico, economico, filosofico, religioso, possono essere adottati con successo nel colloquio in situazioni psichiatriche difficili.
Ai fini del presente studio sono considerate situazioni psichiatriche difficili quelle che prevedono un colloquio clinico con: pazienti violenti, pazienti suicidari, vittime di gravi danni fisici e psichici, non disponibili o impossibilitati a comunicare con il terapeuta, autori di richieste inadeguate, dissociali, impossibili o inconciliabili col ruolo di terapeuta. Il colloquio è inteso come momento diagnostico e come premessa di intervento terapeutico. Per terapeuta si è inteso lo psichiatra e altri operatori nel campo della salute mentale.
Scopo del presente studio è quello di proporre alcuni principi generali di buona pratica clinica da suggerire al clinico in situazioni in cui vi sia una particolare difficoltà al colloquio con il paziente. La metodologia si basa sull’esame della letteratura e sull’esperienza personale degli autori. Si tratta di un lavoro teorico che intende isolare alcuni potenziali elementi teorici, seppur riconducibili ognuno alla pratica clinica psichiatrica, relativi alla gestione del paziente in situazione di crisi. La letteratura in questo ambito suggerisce una grande varietà di strumenti e linee-guida da adottare in situazioni di crisi. Tuttavia nel presente lavoro si intende riassumere i fenomeni che, secondo l’esperienza psichiatrico-forense degli autori, si evidenziano maggiormente nella pratica forense e causano maggiori difficoltà allo psichiatra clinico poco avvezzo all’ambito forense.
PRINCIPI GENERALI DEL COLLOQUIO IN SITUAZIONI PSICHIATRICHE DIFFICILI
Per ogni principio generale saranno illustrati gli aspetti clinici e sarà fornito un esempio. Le criticità dei vari principi saranno riassunte nelle osservazioni conclusive.
Garantire la sicurezza fisica delle persone
Uno degli obiettivi prioritari è preservare l’integrità fisica delle persone implicate nel colloquio sia quella del soggetto in crisi (aggressività autodiretta) sia quella degli operatori presenti, di eventuali spettatori o altre persone (aggressività eterodirettta) che possono essere implicate in un evento di violenza. Il terapeuta deve conoscere i fattori di rischio e le misure precauzionali da adottare in presenza di pazienti autolesivi, suicidari e violenti.

Esempio. Infermiera percossa da un paziente dopo un diverbio. Il primario ignora l’accaduto colpevolizzando la vittima con linguaggio non verbale. Dopo una settimana il primario è aggredito dallo stesso paziente e gli infermieri tardano a prestare aiuto. In questo caso vi sono state diverse inadempienze: non è stato esaminato il fatto (domanda aggressiva del paziente e risposta speculare aggressiva della infermiera), non si è parlato in équipe dei sentimenti di malessere e di solidarietà verso l’infermiera aggredita (ventilazioni dei sentimenti e partecipazione empatica alla vittima), sono state sottovalutate le possibili sequele che, nel caso in esame, hanno visto il paziente mettere in atto una violenza vendicativa stimolata da un altro infermiere (agito di violenza vendicativa per procura) e del comportamento aggressivo di tutta l’équipe nei confronti del primario (omissione volontaria e condivisa nel soccorso).
Raccogliere informazioni sul paziente prima della visita
È utile che la prima visita del paziente non avvenga in assenza di informazioni che ne delineino lo stile di vita, particolarmente in presenza di antecedenti di violenza (potrebbe essere solito circolare armato, fare proposte sessuali violente, richiedere insistentemente denaro o alloggiamento).

Esempio. Un paziente è inviato presso specialisti psichiatri per valutare il rischio di comportamento violento. I consulenti non sono stati avvertiti da chi ha inviato il paziente che poche ore prima aveva aggredito un sanitario: Non lo abbiamo detto per non influenzare il vostro parere...
Consapevolezza, riconoscimento e utilizzo terapeutico delle emozioni
Il terapeuta non può ignorare che le emozioni esistono in ogni relazione personale e in particolare con lo specifico paziente che tratta (consapevolezza), deve saperle riconoscere attribuendo loro un nome e riconoscendo lo specifico contenuto legato ai pensieri e i comportamenti che suscitano (riconoscimento), deve riuscire a controllarle e utilizzarle ai fini terapeutici (utilizzo terapeutico) per la beneficialità del paziente. Le emozioni (rabbia, paura, invidia, disperazione) possono trovare varie motivazioni: dalle più comprensibili (paziente violento che fa paura) a quelle che nascono dai più profondi problemi personali dell’operatore (sentimenti di rigetto e di vendetta verso un paziente suicidario a causa di un precedente giudiziario in cui l’operatore era stato coinvolto in seguito al suicidio di un suo paziente). Il terapeuta deve essere anche attento alle emozioni del paziente. Gli stessi criteri di consapevolezza riconoscimento e utilizzo terapeutico debbono essere applicati anche alle emozioni del paziente. La doppia apertura alle emozioni proprie e a quelle del paziente permette un colloquio e un rapporto terapeutico gestito secondo i principi fondamentali di buona pratica clinica.

Esempio. Terapeuta con emozioni di paura nei confronti del paziente suicidario afferma: non ho indagato sul suo desiderio di uccidersi per evitare di stimolarlo a suicidarsi. Terapeuta ansioso afferma: non lascio mai dei silenzi tra me e il paziente, non voglio che diventi ansioso. Terapeuta che non è in grado di gestire le emozioni afferma: non permetto ai pazienti di esternare troppo le loro emozioni, soprattutto il pianto e la disperazione: aumentano inutilmente la loro sofferenza.
Osservazione e controllo della comunicazione non verbale
È importante che il terapeuta sia concentrato sulla comunicazione non verbale del paziente (per coglierne gli stati emotivi, l’autenticità, il grado di ansia e sofferenza) e che sappia tenere sotto controllo la propria (per non comunicare emozioni non utili ai fini terapeutici come noia, fastidio, irritazione, disperazione e lasciare agire le emozioni utili al processo terapeutico come accettazione empatica, attenzione, rispetto). La comunicazione non verbale è costituita da: linguaggio orale (volume, tonalità, velocità, ritmo, inflessione della voce, pause, sospiri, sbuffi, ritmo del respiro), mimica facciale (direzione dello sguardo, apertura della rima palpebrale, forma della rima buccale, espressività della muscolatura facciale), posizione del corpo (prossimità o meno al paziente, atteggiamento rilassato o meno del busto), gestualità degli arti (indice puntato sull’interlocutore, apertura e chiusura delle mani tremanti e sudate). La comunicazione non verbale può essere differente come intensità e riconoscibilità e variare da grossolane manifestazioni facilmente visibili (parlare con un soggetto paranoide ad alta voce ponendosi alle sue spalle in posizione sopraelevata in piedi mentre lui è seduto e toccarlo senza avvertirlo) sino a manifestazioni meno plateali non consapevoli e meno riconoscibili (invisibili a occhi non esperti: enactement) ma sempre ben decodificate dal paziente (rapidi movimenti impercettibili di apertura e chiusura della rima palpebrale o della direzione dello sguardo, blocco o variazione dei movimenti di una mano o di un dito).

Esempio. Terapeuta percosso da un paziente confessa: avrei dovuto accorgermi di quanto stava per succedere e porre una distanza di sicurezza perché il paziente aveva un posizione del corpo da pugile (una gamba arretrata e le anche ruotate di circa 45 gradi, i pugni chiusi, lo sguardo fisso nei miei occhi e le mascelle con tutti i muscoli contratti…
Prestare ascolto
Tra le modalità di condurre un colloquio sono da segnalare: il colloquio direttivo (il terapeuta pone al paziente domande numerose, specifiche e dirette), il colloquio non direttivo (il terapeuta invita il paziente a esporre quanto ritiene più opportuno in relazione ai suoi disagi), il colloquio semidirettivo (il terapeuta formula domande a carattere generale poco numerose e lascia molto spazio libero alle verbalizzazioni spontanee del paziente). Queste tre modalità possono essere integrate nel colloquio a imbuto. La prima parte, o fase del campo libero, è costituita da domande generali cui il paziente può rispondere a 360° (mi parli della sua famiglia). In questa fase il paziente può descrivere quello che più desidera. Nella seconda fase, fase di chiarificazione, il terapeuta richiede spiegazione e approfondimenti su singoli temi ( lei mi ha detto che ama sua moglie, mi può spiegare meglio?). In questa fase il terapeuta può approfondire il comportamento, i pensieri, le emozioni, le fantasie del soggetto. Nella terza fase, del confronto con la realtà, il paziente è messo di fronte a fatti reali della sua vita sui quali è stimolato a dare una spiegazione. Questa fase, molto delicata, può non essere tollerata dal paziente e sollevare atteggiamenti rivendicativi con manifestazioni comportamentali violente sino a crisi pantoclastiche (per es., nel caso di maltrattamenti in famiglia affermare: lei mi ha detto che ama sua moglie come spiega che è stata più volte ricoverata al pronto soccorso perché lei l’ha picchiata?). È quindi importante per il terapeuta sapere che non tutte le domande possono essere fatte in ogni momento del colloquio e che non tutte le parole del paziente devono essere approfondite sempre e nella immediatezza con accanita e metodica diligenza (capacità del terapeuta di essere momentaneamente muto e sordo).

Esempio. Il paziente appena giunto al colloquio deposita un’arma sulla scrivania del terapeuta. Quest’ultimo si alza spaventato senza ascoltare altro ed esce dalla stanza chiedendo l’aiuto degli agenti di sicurezza. La situazione verrà poi chiarita. Il paziente dirà: avevo portato la pistola per consegnarla al mio terapeuta perché non ritenevo utile per me rimanere in possesso di un’arma così pericolosa… ma non mi ha lasciato il tempo di parlare.
Facilitare la comunicazione verbale
Il terapeuta deve conoscere e sapere applicare alcune tecniche che rendono più fluido e ricco di informazioni il colloquio e migliorano la relazione terapeutica. L’invito generico si basa su una gestualità facilitante (cenno di approvazione con il capo, cenno di continuare con la mano); sull’uso di fonemi e cioè suoni privi di senso (hum), di singole parole (sì, bene, e dopo), di frasi più complesse (potrebbe precisare meglio). Nella ripetizione semplice viene ripetuta l’ultima parola del paziente. Nella ripetizione elaborata viene ripetuta un’intera frase. La riformulazione può contenere imprecisioni nel riportare il pensiero del paziente o prestarsi a una manipolazione a fini terapeutici. Nella riformulazione-riassunto si cerca, dopo un lungo discorso del paziente, di sintetizzare quanto detto. La riformulazione-centraggio consiste nel centrare l’attenzione, tra le tante cose dette dal paziente, su uno specifico tema ( se ho capito esiste anche il fatto che). La riformulazione positiva mette in luce gli aspetti positivi di quanto descritto dal paziente. Una frase tipo: nessuno ha fiducia in me, con la riformulazione positiva può divenire: Lei desidera che le persone le accordino fiducia. Nella diversione lo scopo è distogliere transitoriamente l’attenzione da temi in quel momento difficili da affrontare tanto per il paziente quanto per il terapeuta. Può essere una diversione di rottura (sospendiamo per un caffè); una diversione di sospensione (possiamo parlarne il prossimo colloquio); una diversione di ri-orientamento (interrompere la descrizione di un profondo dolore da lutto e l’invito a parlare degli aspetti positivi della persona scomparsa). La sostituzione consiste nell’utilizzare, in vece di frasi che bloccano il colloquio, locuzioni che facilitano il colloquio (non: voi non capite quello che dico, ma: forse non mi sono espresso con chiarezza). La mediazione è utile nelle situazioni di impasse terapeutico. Per esempio, un paziente con grosse difficoltà a verbalizzare la propria sofferenza, che non accetta una relazione terapeutica, e contemporaneamente un terapeuta che si percepisce impotente, confuso senza appigli da cui fare partire l’aggancio terapeutico. In questi casi una mediazione attraverso un approccio medico, una attività ludica o una occupazione lavorativa ed espressiva elementare possono permettere al paziente e al terapeuta di uscire da una situazione di ristagno terapeutico mortifero. Tutte queste tecniche di facilitazione del colloquio debbono essere usate con molta adeguatezza al caso e con esperienza clinica allo scopo di evitare che il paziente si faccia l’idea di un terapeuta distratto, che utilizza suoni gutturali incomprensibili, che ripete le parole come un pappagallo, non capisce i concetti che gli vengono esposti, impreciso nel ripetere le cose che lui ha detto, e che cerca di distogliere la sua attenzione dai veri problemi che lo fanno soffrire.

Esempio. Vi sono operatori della salute mentale noti come terapeuti che fanno saltare i pazienti (scompensano l’equilibrio psichico del paziente e possono stimolare l’agito di violenza) attraverso il loro linguaggio verbale (allora non mi capisci… quante volte debbo dire che ci sono delle regole da rispettare… non sono problemi miei... mi vuoi dire o non mi vuoi dire qual è il tuo problema… stai calmo e non ti agitare inutilmente… e io in tutto questo che ci posso fare?) e non verbale (gestualità autoritaria, sprezzante, ironica) inadeguato al contesto terapeutico.
Far comprendere che si è compreso
Dimostrare al paziente di averlo compreso e di avere una empatica simpatia nei suoi confronti permette, insieme all’ascolto, di instaurare un valido rapporto terapeutico. Per approfondire e meglio comprendere i verbalizzati del paziente è utile stimolarlo a fornire ulteriori informazioni esplicitando con prudenza dubbi su quanto si è creduto di comprendere attraverso la tecnica delle precauzioni psicologiche oratorie: se ho capito bene… forse ho dimenticato qualcosa… non ho capito… mi può spiegare meglio… In questa fase è utile usare il più possibile le stesse parole e frasi utilizzate dal paziente.

Esempio. Terapeuta: lei ha detto che odia sua madre. Paziente: non è vero che odio mia madre. Per impedire al paziente l’utilizzo di resistenze psicologiche, per non cadere in un clima di inutile contradditorio ed evitare al paziente un intollerabile confronto con la realtà può essere più utile dire: non ho capito bene il rapporto con sua madre… mi può aiutare a capire meglio…
Fornire informazioni al paziente
È utile che il terapeuta fornisca al paziente informazioni semplici (il contratto terapeutico, le regole presenti in una istituzione) e, quando è il caso, anche più complesse (leggi, tradizioni, usanze). Queste informazioni non debbono essere somministrate come regole autoritarie o limitazioni alla libertà personale ma come utilità al paziente per affermare i suoi diritti e tutelare le sue aspettative. La funzione di fornire queste informazioni è di spersonalizzare il rapporto quando se ne presenta la necessità, di fornire un quadro della realtà, quando questo è confuso, e, soprattutto, di stimolare a livello terapeutico un comportamento sociale adeguato. Questo obiettivo deve essere raggiunto con particolare attenzione ed esperienza in quanto rappresenta un confronto del paziente con le limitazioni imposte dalle regole di vita sociale. In certi casi è possibile dividere l’intervento terapeutico in tre fasi. In primo luogo è utile favorire nel paziente la comprensione di ciò che desidera, poi individuare le modalità di realizzazione tenendo conto dei vincoli delle regole sociali e solo nella terza parte approfondire le motivazioni e la loro adeguatezza e l’eventuale psicopatologia. È possibile affermare che fornire informazioni al paziente con le modalità sopra descritte appartiene alla complessa e difficile seconda fase di questo tipo di trattamento.

Esempio. Nella immediatezza del ricovero del paziente in una istituzione è utile che venga illustrata la regola di nessuna tolleranza nei confronti della violenza fisica su altre persone. Questa regola di vita deve essere completata da un documento scritto che contenga anche le richieste di spiegazioni del paziente, i suoi commenti e la discussione che eventualmente ne segue. Questa documentazione e il contenuto della discussione saranno poi, se è il caso, oggetto di un utilizzo terapeutico, con il massimo rispetto dei tempi e delle modalità di intervento, se il paziente metterà in atto un comportamento violento sulla persona.
Comunicare disponibilità all’aiuto
Nel rapporto terapeutico è necessaria la comunicazione comprensibile e concreta di una empatica disponibilità ad aiutare il paziente. Questa disponibilità all’aiuto e la sua comunicazione possono essere assai varie a seconda del tipo e delle problematiche del paziente: dagli interventi concreti sulla vita quotidiana (soluzione di semplici problemi legati al cibo, la igiene, la comunicazione) sino ai più complessi contenimenti emotivi (per es., l’accettazione, la modulazione, la sublimazione della sua aggressività).

Esempio. Il paziente in stato di agitazione domanda imperiosamente di poter fare una telefonata urgente. Invece di rispondere, in modo autoritario, che non è possibile perché il regolamento lo vieta, si può chiedere al paziente di chiarire verbalmente le ragioni che rendono la telefonata non procrastinabile e individuare, con il suo aiuto, le possibili soluzioni alternative al problema.
Essere il garante della realtà
Tra i compiti del terapeuta vi è anche quello di richiamare il proprio paziente alla realtà. Anche nella crisi più acuta, infatti, può essere individuato un brandello di realtà che possa essere terapeuticamente utile (terapeuta come ricercatore di realtà utili). Il richiamo alla realtà deve tenere conto delle difficoltà al colloquio che il paziente può presentare in qualsiasi momento della terapia e adattarsi, quindi, alle capacità di comprensione sia cognitiva sia emotiva che il paziente presenta in ogni specifico momento del percorso terapeutico. Il terapeuta deve diventare un dispensatore di realtà personalizzate mirate alle esigenze del momento e, come un sarto, cucire addosso al paziente la realtà che è più accettabile e utile in quello specifico momento di difficoltà al colloquio. Le realtà cliniche che possono essere illustrate ai pazienti variano dalle più semplici e accettabili (modalità di comportamento e regole sociali di vita in istituzione) alle più complesse e difficili da accettare (descrizione dei guadagni secondari legati ai sintomi lamentati, le contraddizioni tra quello che il paziente dice e quello che fa).

Esempio. Il terapeuta può anche essere garante della realtà (ricercatore e dispensatore) in casi clinici che possono apparire refrattari alla comprensione della stessa e nei quali il colloquio può apparire difficile o impossibile (teatralismo isterico, delirio). Il paziente, pur con le dovute eccezioni, può essere stimolato a descrivere le reali difficolta nel suo vivere sociale che possono essere responsabili dei sintomi che lamenta (ritenere di essere perseguitato dai servizi segreti le crea problemi nella vita di tutti i giorni?).
Responsabilizzare il paziente
Quando il processo terapeutico lo permette e le condizioni del paziente lo rendono fattibile è necessario responsabilizzarlo, con la dovuta gradualità, nei confronti delle sue azioni e delle conseguenze che queste ultime hanno sulla sua vita quotidiana attuale e futura. Indurre nel paziente una graduale assunzione di responsabilità rendendolo il più possibile artefice del proprio destino permette di neutralizzare, gradualmente, le molteplici e tenaci difese rispetto al processo di responsabilizzazione, di mettere da parte i guadagni secondari della sintomatologia esibita (vera o pretesa) e di iniziare un processo terapeutico sulla base del recupero e dell’utilizzo delle risorse del paziente per una sua migliore qualità di vita ( recovery).

Esempio. Il paziente ricoverato in istituzione senza diritto all’uscita comunica, essendo in pieno stato di agitazione, di voler uscire subito. Con la necessaria serenità e pacatezza il terapeuta deve essere in grado (dopo adeguata preparazione (è tuo diritto uscire, troviamo il metodo perché tu esca al più presto possibile) di far comprendere al paziente (dopo aver discusso le difficoltà trattate empaticamente con lui) che la sua permanenza o dimissione dipendono in larga misura proprio dal suo comportamento. In quest’ultima fase l’operatore prospetta in modo semplice concreto e fattibile quale può essere il comportamento del paziente per uscire dall’istituzione il più presto possibile.
Conservare la comunicazione attraverso il dialogo e la negoziazione
È indispensabile, con qualsiasi paziente in crisi, mantenere aperto un dialogo basato sull’empatia, sull’accettazione e sulla possibile e concreta discussione e risoluzione dei problemi che di volta in volta si presentano. Nell’ambito di questi interventi possono essere considerate varie eventualità. La pacificazione degli stati acuti di crisi (sentimenti di ingiustizia; fattori stressanti come perdita, problemi di salute fisica; riattivazioni di traumi psichici passati; cumulo di frustrazioni) si basa sul principio di tranquillizzare l’interessato (privilegiando la protezione personale) aiutandolo a esprimere le sue sofferenze e accompagnandolo nelle quattro fasi della sua crisi. Il passaggio all’atto iniziale (urla, violenza) è gestito dal terapeuta cercando di comunicare senza divenire il capro espiatorio. Nella seconda fase vi è un ciclo di altri passaggi all’atto del paziente nel corso dei quali il terapeuta cerca di farlo esprimere non con le azioni ma con le parole. Infine, nella terza (meta-comunicazione) e quarta fase (risoluzione) il paziente è portato a prendere coscienza della presenza e dell’azione del terapeuta e del suo ruolo di aiuto (non intrusivo, non giudicante, non controllante, ma solo di accudimento). La crisi può essere risolta ma non è risolta con questo metodo la situazione che ha portato alla crisi. La comunicazione non violenta (soprattutto nelle crisi legate a rabbia e collera) si basa su quattro tappe per portare alla luce la causa personale della crisi e non le variabili esterne che la scatenano. La prima tappa è riservata all’esclusiva verbalizzazione da parte del paziente degli eventi che scatenano la sua crisi. In seguito (seconda tappa) si focalizza l’attenzione sull’importanza di pregiudizi e aspettative personali che lo hanno portato alla crisi mettendo in luce (terza tappa) i bisogni del paziente che non sono stati soddisfatti (bisogno di essere ascoltato, rispettato, amato), per terminare (quarta tappa) con l’incoraggiamento a realizzare i propri bisogni e desideri in modo socialmente adeguato (comunicare in modo socialmente accettabile e affermativo le proprie esigenze a chi di dovere). Si tratta di un processo di comunicazione che richiede tempo e capacità introspettive da parte del paziente. Il negoziato emotivo si basa sulla capacità di gestire in modo positivo le emozioni delle persone senza farsi confondere dalle emozioni negative (rabbia, disgusto, ansia, umiliazione, noia, invidia) che possono turbare un colloquio o una trattativa con un paziente in situazioni di crisi. Alla base del negoziato emotivo vi è la ricerca del terapeuta (inteso anche come negoziatore delle richieste del paziente) di soddisfare cinque esigenze primarie del paziente: apprezzamento (i miei pensieri sono presi in considerazione), affiliazione (sono trattato come una persona amica), autonomia (gli altri rispettano le mie decisioni), status (la mia posizione sociale è riconosciuta), ruolo (il ruolo che ho nella negoziazione è appagante). Questa modalità di intervento (peraltro applicabile a ogni forma di negoziato politico, sociale, economico) implica la possibilità nel corso della crisi del paziente di prendere in esame e, possibilmente, trovare risposte alle sue esigenze. Quando le richieste del paziente sono formulate in un clima di possibile violenza sulle persone, in modo urgente, con un rapporto di forza tra le parti, si parla di negoziato emotivo in situazioni di crisi, che non può prescindere dalla delicatezza e rapidità nel tempo di negoziare e dalla fattibilità dei risultati in quella specifica circostanza con la miglior soluzione alternativa. Nella gestione psichiatrica della vittima in situazione di crisi (in seguito a eventi naturali o delitti con comportamento violento sulla persona: tentato omicidio, violenza sessuale, maltrattamenti, abusi), sono illustrati i vari interventi nel colloquio (ristrutturare il sentimento di controllo della situazione, il recupero dell’autostima, ridurre il sentimento di assenza di speranza, gestire gli evocatori del trauma, modulare e stabilizzare l’affettività, intervenire sul dubbio di alienazione mentale, ridurre il sentimento di isolamento, di ingiustizia subita, di colpa, favorire le affinità, l’empatia, la comunicazione e il principio di sincronia, valutare i meccanismi psicologici di difesa, rispettare i percorsi mentali nel riferire il ricordo, stimolare il passaggio da vittima a sopravvissuto) e sono sottolineati i vari errori emotivi e comportamentali che può fare il terapeuta (colpevolizzare la vittima, negare i fatti e le emozioni, sviluppare ruoli di salvatori e di nemici, sopravalutare il ruolo della volontà e delle terapie, non aiutare la vittima ad aiutarsi, trascurare la terapia per il terapeuta).
Tutti questi interventi possono essere utilizzati nel primo colloquio con la vittima in situazione di crisi. La psicoterapia della crisi emozionale motivata da eventi esterni (catastrofe, disastri naturali, specifiche violenze fisiche subite, malattie gravi incurabili, separazioni, divorzi, perdite) o dall’interno (traumi psichici in narcisismi fragili, in tratti megalomani, in strutture psichiche basate sul controllo) si manifesta con ansia, disforia, agitazione, insonnia, somatizzazioni, e anche con una sintomatologia manifesta di dolorosa impotenza (rabbia, paura, tristezza, disperazione) e sofferenza intollerabile (sentimento di mancanza di speranza e mancato controllo della situazione), con possibili condotte alternative di disadattamento, di tossicomania, di comportamento violento auto ed eterodiretto. La crisi emozionale è da distinguere dalla crisi esistenziale (riequilibrio continuo nel corso dei vari momenti evolutivi e fondamentali della vita) e dalla crisi psicotica che si accompagna a un florido contesto sintomatologico (deliri, allucinazioni, confusione). Gli obiettivi di questa psicoterapia si raggiungono con interventi che facilitano la reazione e la catarsi, sfruttano principi di tipo pedagogico e cognitivo, usano terapeuticamente la relazione tra paziente e terapeuta, mirano a conservare i limiti fra il mondo interno e il mondo esterno, favoriscono il reinvestimento oggettuale, storicizzano l’evento di crisi nella sua dimensione fantasmatica attraverso l’utilizzazione del transfert, facilitano l’emergere del preconscio, cercano di contenere il sentimento di impotenza e di favorire l’esperienza controllata del dolore e della depressione. La psicoterapia della crisi emozionale richiede tempo e setting stabili (da 2 a 3 mesi con 10 sedute ognuna di 40, 45 minuti), una competenza psichiatrica specialistica ed è applicabile a pazienti che non necessitano di ricovero psichiatrico o medico, che accettano la terapia e non presentano un esame di realtà gravemente compromesso.

Esempio. Vi sono terapeuti che tendono a chiudere la negoziazione e la comunicazione col paziente quando il colloquio diventa difficile utilizzando in modo inadeguato il ciclo della domanda-rifiuto-frustrazione, le risposte riflesse: domanda-aggressiva/risposta-aggressiva, il ricorso apodittico a leggi e regolamenti, le contese personalizzate con “braccio di ferro”, le personalizzazioni direttive sulla base acritica del ruolo o delle competenze.
Non invalidare il colloquio
Il terapeuta non deve compiere errori nella gestione del colloquio con il paziente per non invalidare e rendere nullo l’intervento terapeutico. Tra gli errori più frequenti che bloccano e invalidano il colloquio possiamo ricordare. Un grande numero di domande inquisitorie (raffiche di perché) può far sì che il paziente si percepisca vittima di un’inquisizione poliziesca oppure si percepisca impotente e disperato di fronte a qualcuno intento a sezionare il suo cervello, i suoi pensieri e i suoi sentimenti come con un cadavere in un’autopsia. Interventi autoritari, allorquando il terapeuta assume il ruolo di comandante che impartisce ordini perentori, di esperto che non sbaglia, di talentuoso e insindacabile, di negoziatore, di indovino infallibile del futuro, privano il paziente della capacità di decidere e sollevano tutti i suoi problemi nei confronti dell’autorità. Interpretazioni selvagge che cercano di spiegare al paziente il suo comportamento, non effettuate nel contesto terapeutico e nel tempo adeguato, rischiano di sollevare le resistenze dei meccanismi psicologici di difesa del paziente che ignora e che soprattutto spesso non vuole o non è in grado di conoscere e di accettare le motivazioni profonde del suo agire. Un atteggiamento giudicante (è bene-è male, è giusto-non è giusto) blocca il fluire del colloquio per il timore di essere giudicato o lo può indirizzare verso la manipolazione o la ricerca di una buona visibilità sociale da parte del terapeuta. Seguire le false piste dei pregiudizi sul paziente legati ai primi minuti del colloquio o derivanti dal colloquio con parenti e accompagnatori (modalità di presentarsi, abbigliamento, tono e volume della voce, contenuti di pensiero espressi), può creare una riduzione viziata della comprensione di quanto dirà al paziente che può anche manifestarsi attraverso la comunicazione non verbale e verbale.

Esempio. La collusione tra psicopatologia del paziente e psicopatologia del terapeuta possono invalidare l’aspetto diagnostico e terapeutico del colloquio. Nell’incontro tra un paziente narcisista in cura da un terapeuta narcisista, dopo un primo periodo di luna di miele in cui tutti e due si percepiranno meravigliosi, subentrerà il “divorzio” non essendo possibile soddisfare le reciproche aspettative inadeguate alla realtà.
Non dimenticare i comportamenti precauzionali
Nel corso della quotidianità l’operatore può non tenere conto per abitudine, fretta, distrazione, affaticamento, di comportamenti utili a una preventiva gestione beneficiale del paziente riducendo il rischio delle sue possibilità di andare incontro a eventi di crisi. Gli esempi sono numerosi: essere distratto e voltare le spalle a un paziente confuso o agitato; non rispondere alle domande; formulare divieti, imporre consigli, emettere giudizi con tono autoritario; fare battute ironiche non adeguate; dimenticare di mantenere una distanza di sicurezza nel colloquio con un paziente violento; non rilevare il rapido variare dell’atteggiamento del viso o della postura del paziente; ignorare il comportamento degli altri pazienti verso uno specifico paziente.

Esempio. In presenza di paziente suicidario sospendere i colloqui e l’attenta vigilanza, soprattutto allorquando, in un contesto di non implicazione nel quotidiano, il paziente afferma di stare bene e non aver bisogno di nulla (disimplicazione esistenziale dalla vita di chi ha già preso la decisione). Ancora, sempre col paziente suicidario, occorre non trascurare le misure precauzionali se quest’ultimo in modo cronico minaccia di suicidarsi (alienazione maligna del paziente da parte del terapeuta che non crede più al paziente e glielo comunica).
Non reagire alle provocazioni
È indispensabile saper cogliere le parole e i comportamenti provocatori del paziente ed essere coscienti delle proprie reazioni emotive che possono portare a verbalizzare o mettere in atto comportamenti non utili alla beneficialità del paziente. In particolare, è da evitare la risposta alla provocazione con un’altra provocazione.

Esempio. Il paziente afferma: voi ve ne fregate della mia sofferenza… Io posso morire… A voi interessa solo il vostro stipendio… Il terapeuta non deve rispondere alla provocazione sollevando un battibecco, ma far verbalizzare il paziente sul problema che per lui è più importante in quel momento e implicarlo nella possibile risoluzione.
Non creare provocazioni
Il terapeuta non deve fornire stimoli personali (anche apparentemente invisibili come non verbali di noia, fastidio, condanna) o ambientali (lunghe attese del paziente per un colloquio, la sua promiscuità con altre persone, la vicinanza con altri pazienti in crisi) per il rischio che questo comporta di scatenare nel paziente situazione di crisi.

Esempio. Nel corso del colloquio il paziente rifiuta di sedersi. L’operatore può risolvere il problema se prova a esprimersi, per esempio: se preferisci parlare in piedi camminando… se ti senti meglio, va bene così... Parlami allora…
Non personalizzare
In ogni situazione di crisi il terapeuta non deve personalizzare eventuali divergenze o contrasti con il paziente evitando di divenire il persecutore o il capro espiatorio di tutte le sue sofferenze interne o di tutte le frustrazioni e le umiliazioni sociali esterne.

Esempio. Nei confronti di un paziente che simula una sintomatologia inesistente non è il caso di affermare: io non sono così stupido da credere a quello che mi dici, sappi che io ho esperienza di tanti anni e quindi non mi si prende facilmente in giro, credi di essere più bravo di me e farmi credere una cosa per un’altra, stai simulando e tutti lo sanno. In questi casi il terapeuta dovrà evitare ogni atteggiamento accusatorio e cercare di comprendere le motivazioni alla simulazione esibita dal paziente. Analogo comportamento con un paziente manipolatore, o che formula richieste contro la legge, usa il turpiloquio, propone un rapporto sessuale: non personalizzare e cercare di comprendere le motivazioni.
Comprendere e non fare minacce
Il terapeuta deve essere in grado di comprendere il senso delle minacce che possono essere formulate contro di lui ed evitare, a sua volta, di minacciare il paziente. Le minacce formulate da un paziente nei confronti del terapeuta, oltre un significato basale di aggressività che deve essere sempre decodificato, possono avere diverse motivazioni: una generica richiesta di aiuto (ho bisogno del tuo aiuto per risolvere un problema), un comportamento di guadagno secondario (ho imparato che minacciando ottengo quello che desidero), una tappa che precede il passaggio all’atto (ho deciso di mettere in atto la minaccia e avverto). È importante che il terapeuta comprenda quali sono le modalità più adeguate per ridurre il rischio di una minaccia. L’avvertenza che il terapeuta non minacci il paziente non significa che il paziente non debba essere confrontato con la realtà, con le sue contraddizioni, con l’inosservanza delle regole sociali e, soprattutto, con le conseguenze delle sue azioni: attraverso modalità gestionali terapeutiche responsabilizzanti.

Esempio. Paziente in stato di ebbrezza alcolica minaccia, con modalità recidivanti, gli avventori di un locale pubblico. Viene illustrato il comportamento di tre differenti tutori dell’ordine in tre differenti occasioni. In una occasione il tutore dell’ordine, dopo insulti e minacce, ha portato il paziente fuori dal locale, lo ha redarguito e lo ha obbligato a raggiungere il proprio domicilio con l’aiuto di suo fratello. Nella seconda occasione chi interviene, dopo aver ascoltato i suoi insulti e minacce, non riesce a evitare una colluttazione: il paziente è colpito con violenza al basso ventre, è arrestato con l’imputazione di resistenza a pubblico ufficiale e turbamento della quiete pubblica e privato della libertà. Nel terzo caso chi è intervenuto, ignorando insulti e minacce, ha stimolato il paziente a parlare, tranquillamente assiso a un tavolo dello stesso locale pubblico, in merito all’accaduto e alle circostanze che avevano determinato la rissa. Il paziente ebbe il modo di raccontare di essere stato abbandonato dalla moglie. Chi è intervenuto è riuscito a riaccompagnarlo dal fratello, a fargli chiedere scusa agli avventori del locale per il disturbo arrecato, senza percuoterlo, denunciarlo e privarlo della libertà personale.
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
I principi enunciati presentano numerose criticità: necessità di adeguamento alla tipologia del paziente (suicidario, violento, non disponibile a comunicare); necessità di un adeguamento a una specifica situazione (il silenzio prolungato e fuori da un adeguato contesto può bloccare il colloquio; interruzioni ripetute del silenzio da parte del terapeuta possono bloccare il fluire della relazione terapeutica); impossibilità tecnica a volte di una loro applicazione (paziente violento con passaggio all’atto improvviso e imprevedibile); possibilità di integrazione tra i vari principi (precauzioni psicologiche oratorie e diversione); ambiguità a seconda dell’uso (la riformulazione può essere chiarificatrice o manipolatoria del pensiero del paziente); rischio paradosso, che siano controproducenti alla relazione terapeutica (la ripetizione delle parole del paziente, cronica e monotona, può essere percepita come espressione di noia e di disinteresse); complementarietà con una buona relazione terapeutica (ascolto, empatia); dipendenza dalle caratteristiche personologiche e tecniche del terapeuta (autenticità, umanità, capacità di comunicare e capacità di evitare errori clinici).
Nonostante le criticità che precedono, i principi enunciati presentano:
• utilità clinica nel rappresentare principi di buona pratica clinica da adottare in concreto nelle singole situazioni di colloquio difficile;
• utilità clinica nel mettere in luce alcuni possibili errori da evitare nella gestione concreta della singola situazione di colloquio difficile per rispetto dei principi di buona pratica clinica.

Ulteriori studi potranno approfondire sotto l’aspetto clinico, attuariale e statistico la validità clinica dei principi trattati nelle varie e numerose situazioni di crisi con difficoltà al colloquio in rapporto anche a specifiche tipologie di pazienti per una sempre più aggiornata formazione professionale degli operatori nel campo della salute mentale.

Conflitto di interesse: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interesse.
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